Uno dei più grandi limiti del cinema di questi ultimi anni è l’incapacità di immaginare un futuro plausibile, in grado di andare oltre una realtà non più sostenibile, per una umanità chiamata a dover guardare al di là di sé, ma che rimane impantanata nelle sue insicurezze, generate da regole, limiti, tempi (non) visioni ed etichette imposte da un mondo da cui deve necessariamente emanciparsi perché, semplicemente, non ha più il coraggio di riconoscerla. Anche a costo di diventare mostruosa. Ne sa qualcosa Nolan, ne sa qualcosa l’universo MCU, che, con tutte le regole del suo linguaggio, sta provando a seguire una via simile, e ne sanno qualcosa tanti altri cineasti contemporanei, che da tempo cercano di svalicare questo muro all’apparenza insormontabile. Affacciarsi fa sempre venire le vertigini.
Nella recensione di Titane, secondo lungometraggio di Julia Ducournau e vincitore della Palma d’oro a Cannes74, analizziamo un miracolo cinematografico (inteso come un miracolo che solo Dio/Dea cinema è in grado di compiere) arrivato a culmine di una riflessione della cineasta sulla condizione dell’umanità e sulla questione di genere, iniziata con il suo primo corto e passata attraverso la durezza famelica del bellissimo Raw, vincitore del FIPRESCI, sempre alla Croisette, ma nel 2016. Riflessione che passa per una sperimentazione del linguaggio filmico sapiente, vigorosa e libera e che con il terzo atto arriva all’ambito, quanto necessario, cortocircuito.
La storia di Alexia è un ponte verso il cinema del futuro, in grado di metterci di fronte a quello che la nostra società ci sta trasformando, e ha il coraggio di indicare una strada, che, seppur difficile e seppur disturbante, può portare ad una rinascita. Cinema che si fa specchio non distorto proprio perché terrorizzante, cinema che diventa testimonianza, cinema che si fa narrazione di una consapevolezza orrorifica e inespressa. Il cinema che ci auguriamo.
Essere o non essere… guardati
La ricerca del significato di un incidente d’auto è sempre affascinante. Lo pensa anche la Ducournau che lo aveva proposto per la prima volta in Raw, seppure con un significato narrativo differente rispetto a quello di Titane, ma allo stesso tempo con una funzione concettuale molto simile. Lì era un flashforward di importanza rivelatoria per la natura della pellicola, qui è l’origine del percorso, ma rappresenta anche lo strappo da una umanità all’altra, violenta sintesi del processo di emancipazione da un mondo che non ci guarda, rappresentato dal padre biologico della protagonista (interpretato dal regista Bertrand Bonello, se vi interessa un momento trivia). L’incidente è un’uscita traumatica, ma risolutiva, da una strada predeterminata. Come una volontà di ribellarsi, anche facendosi male, ed essere liberi. O almeno darsi la possibilità di esserlo.
Questo è il destino di Alexia (Agathe Rouselle), segnata dalla placca simbolo della sua condizione di ferita da una umanità di cui non vuole fare parte, in cui non si riconosce perché da essa non è stata riconosciuta. Un robot spietato, una cacciatrice su cui pesa la negazione di una consapevolezza di sé e, di conseguenza, la possibilità di trovarla negli altri, da chi assiste al suo car show a chi si esibisce con lei. Un essere di titanio, un titano al femminile, un non umano, in sintonia solo con ciò che umano non è.
Tutto cambia con l’arrivo di Adrien nella sua vita, il figlio del pompiere Vincent (uno straordinario Vincent Lindon), di cui assume le sembianze, in un punto imprecisato tra le fantasie di un altro esempio di “trans-umanità”, alimentato dal dolore e dagli steroidi, alla ricerca disperata di qualcuno da guardare, e il suo bisogno di trovare una forma.
I due diventano un fertile connubio il cui legame è in grado di bypassare ogni tipo di costrutto. Fautori di una rivoluzione da cui può nascere un nuovo mondo.
Vincent e Alexia, Vincent e Adrien, Alexia e Adrien, tre nomi, tre etichette, tre persone di due generi diversi. Tutto si annulla, niente ha più importanza, tutto diventa obsoleto nel definire chi sono realmente, cosa vogliono diventare, cosa stanno diventando, cosa la loro natura li porterà ad essere. Rivelatori l’uno dell’altro in un mondo vecchio, che non sa più farlo.
Mostruosità salvifica
Julia Ducournau costruisce un viaggio cinematograficamente seducente, disturbante e orririfico, riprendendo un immaginario cronenberghiano, il cui lavoro sul corpo come mezzo metaforico/tavola operatoria di una decostruzione sociale raggiunse delle vette straordinarie negli anni ’80.
Quello succede anche nel caso di Alexia, la cui mutazione fisica diventa mappa universale e indicazione di un viaggio all’insegna di una liberazione dalle prigioni sessuali e di genere e dai costrutti concettuali che si portano dietro, compiuto attraversando dei contesti fortemente stereotipati, come quello underground dove si esibisce o come quello della stazione dei pompieri, intriso di un cameratismo che sfocia in una invidia di natura familiare.
Un viaggio connaturato all’esito a cui va incontro, alla visione positiva della mostruosità che ci augura un’autrice ancora non storicizzata nelle pieghe dell’industria (altro motivo che sottolinea l’importanza di questa assegnazione della Palma d’oro) di una bravura professionale e di una intelligenza fuori dal comune.
Perché Titane non è solo un film di un peso specifico concettuale capillare, in questo momento storico, per i nuovi spettatori e, più in generale, per la nuova generazione che ora sta sperimentando la frustrazione a lei riservata, ma anche una pellicola che ha dietro di sé una mano e un occhio di una consapevolezza e una maturità impressionante.
Il film beneficia di una regia moderna, veloce e sensuale (termine che si è perso molto nel cinema recente) con all’interno un piano sequenza splendido (molto simile a quello visto in Raw), che ha tra i suoi meriti anche l’ottima direzione dei due protagonisti; di una fotografia quasi refniana (alla cui somiglianza forse siamo portati anche dalla tematica) e di un efficace uso delle musiche. La bravura della Ducournau si percepisce però, soprattutto, nella costruzione delle immagini, libere e spiazzanti, e nella sua abilità nello smontare e rimontare un genere come il body-horror, da cui parte, ma con cui gioca nel corso della pellicola, mischiando, sperimentando, superando e non perdendo mai di vista i tempi della narrazione.
Alla conclusione della recensione di Titane, quello che abbiamo negli occhi è una visione imprescindibile per misurare il termometro del “mondo cinema” attuale, manifesto di una moderna fluidità, eco delle necessità da cui nasce, “pericolosa” per le caratteristiche della nuova realtà che invoca nasca: spietata, violenta, mostruosa. E bellissima.
Titane è al cinema dal 30 settembre distribuito da I Wonder Pictures.
Titane, secondo lungometraggio di Julia Ducournau e quanto mai opportuno vincitore della Palma d'Oro all'ultimo Festival del Cinema di Cannes. Film sensuale, libero e disturbante, che, partendo da un immaginario vicino al body horror più violento e spiazzante, disegna il viaggio di un personaggio che si fa mostruoso a causa di una società non più in grado di guardarlo e salvato da un rapporto capace di donargli una forma, al di là di ogni limite imposto. Una nuova vita per un nuovo mondo. Manifesto di un cinema contemporaneo.
- Importanza capillare delle tematiche rappresentate per questo momento storico.
- La modernità della regia, della messa in scena e della conduzione della storia.
- Le prove magnifiche dei due attori protagonisti.
- La capacità di giocare con i generi.
- L'immaginario cinematografico moderno a cui conduce: spietato, seducente, ambiguo e libero.
- Rimane un film non accessibile a tutti, per tematiche e per linguaggi, ma che da tutti dovrebbe essere visto.