Uno dei fattori che ha reso e sta rendendo così ricco il panorama cinematografico italiano è la riaffermazione del cinema di genere, un movimento che passa da nomi ed autori giovani con menti moderne e tanto talento artistico, produttivo ed editoriale. Se si dovesse decidere di addentrarsi nell’esercizio della spartizione dei meriti si dovrebbe andare a cercare soprattutto dalle parti di Groenlandia di Matteo Rovere, che insieme a Mainetti e i D’innocenzo rappresenta il caposaldo di questa nuova linfa del movimento nostrano, in grado di guardare oltre i confini che per molto tempo lo (e ci) ha(nno) limitato. Venezia78 è stato un festival molto importante anche per questo, dato che è riuscito ad inglobare tali personalità e quelle più storiche e legate alla tradizione (Sorrentino e Martone), portando dei titoli che, pur risultando ancora una eccezione produttiva e artistica, stanno continuando ad indicare una strada.
Nella recensione di Mondocane, primo lungometraggio per il cinema di Alessandro Celli, presentato alla 36esima Settimana della Critica, parliamo di un titolo che rappresenta un perfetto esempio (è prodotto da Rovere e co.) di questa ormai (neanche troppo) nuova corrente. Un’opera di un autore classe 1976 con tantissima esperienza alle spalle, tra il mondo dei corti (un David, un Globo d’oro e due Menzioni Speciali ai Nastri d’argento) e delle serie televisive (con una felicissima parentesi nel mondo della cronaca, anche con un film tv dedicato Giorgio Ambrosoli), premiate a Cannes e a Bay, e con una visione cinematografica moderna, audace e fresca.
Un distopico nel panorama italiano, come per la televisione abbiamo avuto Anna di Ammaniti. Un distopico un po’ punk e un po’ ecologista, ma anche un po’ politico e un po’ neorealista, in un senso vicino a quello della trilogia di Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, sempre Groenlandia): narrare la mancanza di prospettive dovute all’abbandono di un Sistema che ha fallito. La frase di introduzione, a cui manca solo un “C’era una volta” non lascia molto di velato in questo senso. Un film comunque sempre a misura di bambino. Una fiaba. Meglio, una fiaba oscura (ma non una Favolaccia) con un villain bello e ben recitato, interpretato da un Alessandro Borghi dall’aspetto refniano.
Un esordio cinematografico a metà tra il coraggioso e lo spregiudicato, che vanta, comunque andrà, la consapevolezza di una importanza notevole per il movimento tutto.
All’ombra dell’acciaieria
A Taranto, in un futuro prossimo, ma non troppo prossimo, i bambini sognano di fuggire in Africa alla ricerca di un mondo migliore (non male è?). A Taranto, in un futuro prossimo, ma non troppo prossimo, un disastro ecologico causato dalle industrie in loco ha costretto ad una evacuazione repentina la popolazione, strappata da casa e trascinata nella terra di nessuno, abbandonata a se stessa (o al limite braccata) e chiusa al di fuori delle nuove mura cittadine, dove i ricchi continuano a condurre una vita agiata, impegnati nell’esercizio di dimenticare chi il destino ha deciso di punire.
A Taranto, in un futuro prossimo, ma non troppo prossimo, Pietro e Christian (i bravissimi Dennis Protopapa e Giuliano Soprano), fratelli di spirito e di sventura, vivono la loro vita facendo gli schiavi su una barca fissata al porto di Tamburi e sognando di unirsi alle Formiche, leggendaria banda di criminali composta (quasi) interamente da ragazzi della loro età e capeggiata dal famigerato Testacalda (Borghi).
La realizzazione di un proposito che non passa tanto dalla volontà di diventare dei criminali, quanto da una mancanza di prospettive (una Roma ex capitale e ormai in declino, più sperduta che lontana) e di punti di riferimento. Due condizioni in cui nascono delle realtà come quella della banda delle Formiche, che ripropone un archetipo familiare ancora più potente di quello che vige nella criminalità organizzata, data la presenza di una figura paterna sempre al di sopra di tutti gli altri (per motivi anagrafici ed educativi), ma con tutti i limiti di un fratello maggiore.
Il più grande degli figli dell’abbandono. In grado di pianificare una ribellione ai torti subiti dal proprio genitore, ma che sempre un figlio rimane, costretto per sempre al ritorno ad una casa/mamma con cui condivide la sorte.
Questa è la parte più forte del film.
La parte più debole è dall’altra parte della barricata (la città dei ricchi di cui sopra), dove ci sono due donne: una poliziotta dura e cinica solo in apparenza (Barbara Ronchi), ossessionata da scovare e salvare i bambini malcapitati, e una bambina già grande, interpretata da Ludovica Nasti, forse una nuova prospettiva per i due fratelli di spirito, comunque un crocevia. Entrambe non approfondite come dovrebbero e meriterebbero e mostrate più che altro in funzione di ciò che accade al di fuori, nella zona contaminata. Un peccato davvero.
Il mondo degli idoli caduti
Celli parte con il suo immaginario volendo proporre un’idea, che sposa le colonne portanti del bel cinema del genere: proporre (o, addirittura, anticipare) in un mondo alternativo, delle problematiche della nostra epoca. Il riferimento alla tragedia dell’ILVA non è un caso.
Il mondo è realistico e geograficamente localizzato, pur visivamente vicino ad una idea di dispersione e di selvaggio, un ecosistema visivamente valido che ricorda altri mondi costruiti nel genere cinematografico di riferimento e in cui, concettualmente, è possibile contestualizzare la nascita di una costruzione come quella della tribù. Un mondo dove gli idoli si trovano in fondo al mare e gli innocenti sparano dai motorini e leccano i rospi. In cui tutto quello che si può sperare è trovare una famiglia di una inciviltà tale da non piangere i suoi figli, ma anzi da incitarli a seguire un codice di comportamento che li presenta al mondo come delle figure snaturate. Forme di vita cresciute per regredire. Bambini che più diventano adulti e meno lo sono.
Il regista, che ha molta esperienza sul set con protagonisti giovanissimi (su Braccialetti rossi è stato addirittura responsabile casting), è bravissimo a giocare con questa duplice visione, utilizzando magari un linguaggio più vicino a quello fumettistico, piuttosto che quello da mafia-movie adoperato splendidamente da Giovannesi ne La paranza dei bambini. Eppure i meccanismi primordiali che muovono il comportamento dei ragazzi è sempre lì: trovare il modo di sentirsi all’altezza della realtà a cui appartengono. Il cuore della pellicola, che risiede nel rapporto tra Pietro e Christian, riporta tutti i discorsi più ampi di stampo politico ad una dimensione più piccola, ma non per questo meno valida. Un’alternanza di eco che giustifica anche delle scelte narrative che potrebbero altrimenti risultare estranee al tono della storia.
Al netto dei limiti della pellicola, più ingenua che immatura, forse troppo esile, sicuramente sovraccarica e vittima di uno scorrimento delle volte macchinoso, è comunque il caso di concludere la recensione di Mondocane sottolineando la necessità di un titolo del genere. In grado di portare le idee giuste, porre gli interrogativi corretti all’industria e presentando una visione comunque valida sia tecnicamente che idealmente di un genere che in Italia non ha nessun motivo per non esserci. Un’accoglienza più che entusiasta e l’augurio che sia solo un preludio.
Mondocane è al cinema dal 3 settembre distribuito da 01 Distribution.
Mondocane, esordio cinematografico di Alessandro Celli e presentato alla 36esima Settimana della critica di Venezia78, è un titolo che continua il processo di riaffermazione del cinema di genere nel panorama italiano. Debutto inconsueto e molto ambizioso che ha dalla sua parte un ottimo approccio alla distopia, portando sullo schermo un immaginario visivamente valido così come i contenuti con cui lo riempie. Di contro accusa una mano forse ancora un po' acerba per portare efficacemente a casa un titolo così carico. Ottime le interpretazioni degli attori.
- Le prove dei due giovani protagonisti e del Borghi villain.
- La costruzione visiva è assolutamente valida.
- La pellicola costituisce un titolo di notevole importanza per il movimento cinematografico italiano.
- La concezione dell'immaginario e l'approccio al genere sono azzeccati.
- La regia è delle volte un po' macchinosa e alla lunga accusa dei momenti acerbi.
- I due personaggi femminili sono un po' troppo deboli e poco approfonditi.
- La struttura del film risulta un po' esile per reggere il peso delle premesse che il suo immaginario muove.