Reflection, la recensione: le torture mai finite in Europa

reflection la recensione

Cominciamo la recensione di Reflection, considerando una serie di bellissimi e devastanti scene all’interno dei fotogrammi iniziali in cui il regista ucraino Valentyn Vasyanovych crea una catena di paralleli precisi e tremanti, o meglio, immagini morali speculari – tra la vita e la psiche di un civile e le azioni e le reazioni di quel stesso uomo in guerra. Il tavolo di un chirurgo viene scambiato con un piedistallo di cemento per la tortura. I proiettili di paintball che ricoprono un muro trasparente diventano proiettili che frantumano un parabrezza. Le mani che salvano vite diventano mani che dispensano la misericordia che pone fine a una vita.

E poi, forse ancora più devastante per l’anima, c’è la questione di come tornare alla vita di prima, una volta tornati a casa da una guerra da cui nessuno torna davvero.

Come in Atlantis, vincitore del premio della sezione Venezia Orizzonti del 2019 di Vasyanovych, è la tensione tra la storia sorprendente e talvolta brutalmente viscerale che ogni singola scena contiene e il modo freddo e contemplativo della sua rappresentazione- illuminata da una luce pittorica che richiama i quadri del Caravaggio – che rende Reflection una dichiarazione così avvincente sugli orrori del conflitto armato, in particolare i primi giorni della guerra russo-ucraina ancora in corso.

Con inquadrature fisse e bloccate quasi soffocanti (Vasyanovych, direttore della fotografia di The Tribe di Miroslav Slaboshpitskiy è un genio anche dietro la macchina da presa, oltre ad assumersi compiti di montaggio, scrittura e produzione), Reflection è stimolante e uno dei film intellettualmente più provocatori e gratificanti del Concorso di Venezia di quest’anno. Una clip del film su YouTube:

 

La guerra come tortura infinita

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Continuiamo la recensione di Reflection collocando meglio il periodo storico, che anche se recente, non è sempre molto conosciuto. È il novembre 2014 e Serhiy (Roman Lutskyi), chirurgo in un ospedale locale, sta partecipando ai festeggiamenti per il compleanno di sua figlia Polina (Nika Myslytska).

Riuniti per l’evento ci sono anche la madre di Polina (Nadia Levchenko) e il suo compagno Andriy (Andriy Rymaruk), con cui Serhiy è in rapporti cordiali, anche se leggermente tesi. Andriy è un soldato che combatte la causa ucraina, e mentre versa del whisky nella tazza di caffè di Serhiy,

c’è un sottile senso di inadeguatezza da parte di Serhiy che percepisce la virilità ruvida e stanca dovuta alla guerra a cui Andriy ha preso parte.

Dietro di loro, le lampade al neon di Polina trasformano la finestra di osservazione in un Jackson Pollock, e la ragazza si stringe lo stomaco e mima la morte a beneficio di sua madre e dei suoi due papà.

Il perdurante e anche vagamente borghese senso di colpa di Serhiy per non essere al fronte insieme ad Andriy è delineato ancora di più nelle scene successive quasi fosse un richiamo: in chirurgia mentre perde un paziente a causa di una scheggia; a un film drive-in con sua figlia; a casa, pulendo meticolosamente la sua collezione di dischi. E poi all’improvviso finisce quella tranquillità, siamo nel retro di una jeep dell’esercito con lui, poiché dopo essersi arruolato, lui e un altro soldato si perdono ai margini della zona di combattimento e si imbattono in un checkpoint nemico. Serhiy viene catturato.

Dato che ci sono solo poche scene di violenza e molto di più della vita domestica di Serhiy prima e dopo, la parte dove viene presentata la prigionia ha un impatto quasi insopportabilmente viscerale.

Le immagini catturano nelle loro composizioni orribilmente belle, evocative di quadri come La Sepoltura di Cristo, e le loro somiglianze visive echeggianti.

Alla fine, non sono i corpi spezzati o le torture agghiaccianti che incapsulano meglio i temi più profondi del film. Invece, è un singolo momento a rappresentarlo (accaduto davvero nella vita del regista), quello in cui un piccione vola dritto contro la finestra di un appartamento e muore.

Quell’episodio era stato un’avvertimento? Il destino di chi crede di combattere per un ideale e si scontra con la violenza della realtà, della guerra e delle torture? Le torture sono atroci e molte scene del film arrivano a essere disturbanti, i prigionieri venivano picchiati fino a quando le loro ossa non si spezzavano, venivano torturati con la corrente elettrica, accoltellati, appesi al soffitto, umiliati in ogni modo possibile fino a farli arrivare a desiderare la morte.

I resti dei corpi non sono mai stati totalmente ritrovati perché venivano bruciati e cancellati totalmente dalla faccia della Terra. La cosa assurda è che il conflitto si svolge proprio nel cuore dell’Europa e il regista lo aveva già raccontato in Atlantis, ambientato nel 2025, un’ipotetica data della fine della guerra in Ucraina.

Il film è stato costruito grazie alle testimonianze e alle prove fornite da alcuni giornalisti, ed ex prigionieri e denunciate anche da Amnesty International, inoltre viene raccontato usando il rapporto padre-figlia e i loro pensieri sulla morte.

C’è un rimedio alla sofferenza?

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Polina è sconvolta dalla morte del piccione, probabilmente un fattore di dolore spostato per Andriy, di cui non conosce il destino, anche se noi lo sappiamo. Così Serhiy, i cui muscoli devono ancora conservare il ricordo recente del suo lavoro da prigioniero che spala corpi scomodi in un inceneritore, tiene uno strano funerale per il piccione, bruciandolo su una pira in un cantiere abbandonato cosparso di macerie, le cui fondamenta e pilastri costruiti a metà sembrano pietre tombali.

Ma anche questo non può dissipare il residuo vagamente allegorico che il povero piccione ha lasciato tramite una macchia spettrale sul vetro, che sembra a volte l’impronta di un angelo o l’immagine su un sudario.

Questo è un film straordinariamente cupo, ma non è privo di ironie altrettanto cupe (un furgone adibito a crematorio è decorato con le parole: Aiuto umanitario dalla Federazione Russa) e un senso mordace dell’assurdo che rasenta la surrealtà, come quando un personaggio viene salvato da un attacco di un cane selvatico nel bosco da un giocatore di polo a cavallo.

E sebbene il film sia sorprendentemente formale, Vasyanovyvch non è dogmatico riguardo al suo approccio: a volte la telecamera si muove, scendendo le scale o attraverso foreste oscure con Serhiy, e talvolta, nella seconda metà, si insinua impercettibilmente più vicino alle persone nell’inquadratura, permettendo loro di essere un po’ meno sminuiti dal cupo purgatorio dell’ambiente circostante.

Vasyanovych ci lascia persino una sorta di flebile speranza: che la forza dell’amore familiare possa prevalere nonostante tutto ciò che è successo prima e che possa in qualche modo essere una cura e un rifugio lontano da un passato che non smette mai di fare male.

Ma il vero messaggio forse, come il cielo luminoso, libero e vuoto verso il quale quel piccione pensava di star volando, è solo un’illusione, solo il riflesso temporaneo di un uomo e di una nazione, ancora intrappolati nel mezzo del dolore e del senso di colpa e in tutti gli altri aspetti della guerra e delle torture.

 

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Concludiamo la recensione di Reflection con una considerazione forse ovvia, queste storie devono essere raccontate perché spesso siamo bombardati da così tante informazioni e stimoli diversi ogni giorno che ci scordiamo delle cose davvero essenziali e importanti. Inoltre non c'è niente di più oscuro della storia attuale quella che viviamo perché non riusciamo ad avere una prospettiva diversa dal presente in cui viviamo.

ME GUSTA
  • La fotografia
  • L'originalità della sceneggiatura
  • Lo stile narrativo
FAIL
  • Le inquadrature (volutamente) molto statiche
  • La violenza di alcune scene
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