Trattare l’originale di Ingmar Bergman del 1973, concentrandosi sul suo “solo” valore artistico non basterebbe a restituirne il senso più profondo, nonostante la sua inestimabilità. Questo perché si incastona in un percorso autoriale che lo ha visto ripercorrere i suoi affanni e le sue gioie (trasse molto spunto per la sceneggiatura anche dal suo rapporto con Liv Uhlmann, protagonista del racconto), culminato nel suo ultimo e più intimo film, Fanny e Alexander, nel 1982. Una cosa del genere la sta facendo anche qualcuno di nostra conoscenza a Venezia, questi giorni del Festival numero 78, dove sono stati proiettati in anteprima i primi due episodi della serie remake di cui ci apprestiamo a parlare.

Nella recensione di Scene da un Matrimonio, anno dominis 2021, miniserie firmata HBO e creata da Hagai Levi (In Treatment, The Affair), supportato da un team produttivo importante nei numeri ed autorevole nei nomi (c’è anche il figlio di Bergman, Daniel), parliamo di un’impresa tra le più coraggiose degli ultimi anni. Un esame di maturità, di più, un esame di stato, di più, un atto di fede, basato non su un lampo o una visione, ma su un’idea strutturata, pensata, valutata più volte, organizzata al millimetro, rispettosa del materiale originale, il cui pregio maggiore e la cui maggior chiave di volta per un possibile successo è la capacità di aver reso liberi di muoversi i suoi due “nuovi” coniugi, Oscar Isaac e Jessica Chastain (dopo l’abbandono di Michelle Williams), bravissimi sul serio e di nuovo insieme dopo 1981: Indagine a New York. In quel caso non andò male per niente, specialmente per la rossa di Sacramento.

 

 

In uno sceneggiato lunghissimo, inizialmente previsto come ciclo di sei episodi per la televisione e poi rilavorato per il grande schermo, mantenendone la struttura, ma riducendone il minutaggio (si passa da circa 294 minuti a 167) e riadattandone il formato della pellicola (da 16 mm a 35), il maestro svedese mette in scena una vivisezione di un rapporto matrimoniale. Lo fa portando alla luce tutti gli aspetti che concorrono alla formazione di uno scontro tra un costrutto meramente sociale e la natura umana, scindendo l’amore e ciò che dovrebbe esserne la personificazione, ma con cui, invece nulla ha a che fare. Il tutto miscelato con la sua vicenda autobiografia e bagnato da un successo che ne ha esatto un sequel, Sarabanda, e che ha spinto autori di tutto il globo a prenderlo come fonte di ispirazione (Mariti e Mogli di Woody Allen, Loveless di Andrej Zvjagincev fino a Baumbach e il suo Storia di un matrimonio). Ora capite il perché dell’atto di fede?

Anatomia di un matrimonio

Jonathan e Mira sono sposati da dieci anni, prima del matrimonio sono stati insieme per un paio d’anni. Prima ancora coinquilini. Hanno una figlioletta, Ava, le piacciono Wallace & Gromit.

Lui è un ebreo, un accademico, un ottimo padre, un marito attento e paziente. Lei è atea, donna in carriera, madre combattuta e moglie riconoscente. Per il primo il matrimonio è una piattaforma dove poter costruire, scevra da tutte le pompose e irrealistiche idee di passione e trasporto che sono solo idee di marketing per vendere una vita migliore. Ricetta per l’infelicità. Per la seconda il matrimonio è la manifestazione di un equilibrio, che, se raggiunto, ti può proteggere da tutto ciò che ti fa paura. Fino a che non scricchiola.

Lui è un uomo schiacciato da una figura paterna ingombrante, a cui non ha posto rimedio né la fin troppo fragile madre né la coesione con i suoi quattro fratelli, patologicamente attaccato a quel castello che è riuscito ad erigersi e che non lascerebbe per nulla al mondo, anche quando la sua regina non riesce a fare altro che guardare fuori dalla finestra. Lei è una donna dalla vita spezzata, che ha ucciso la sua io più giovane, soffocando una ricerca dolorosa tra le pieghe del suo cuore e della sua mente che la portasse a vedersi come amante e come madre, per una persona che soddisfi la sua voglia di sicurezza immediata, propositi chiari e valori indiscutibili.

Scene da un matrimonio

Il loro è un matrimonio razionale, vissuto con un amore sincero, ma come appena sopito, espresso con una educazione che sa di un misto tra pudore e una rispettosa mancanza di convinzione. Parlano del loro matrimonio come un terzo incomodo, come una cosa che è con loro, sul divano, davanti ad una giovane ricercatrice “dagli occhi grandi e dalle caviglie fragili”, ma non li unisce, peggio, non li riguarda. Una figura del terzo incomodo che piace molto a Levi, spietata metafora che nella sua concretizzazione diventa rivelatoria di una crisi concettuale, prima ancora che matrimoniale. Variazione drammaturgica più consistente dallo sceneggiato di Bergman, ancor di più del trasformare Paula in Poli, e centro nevralgico della proiezione moderna del racconto, contesto di tutto ciò che precede e segue.

Il Bergman di Levi

Le parti da 6 si fanno 5, conservando tutti i titoli delle puntate (a parte una), divenuti capitoli, dello Scene da un matrimonio originale e concludendo la sua corsa con “In the Middle of the Night, in a Dark House, Somewhere in the World”, alla cui potenza evocativa e poetica non si riesce a resistere alla tentazione di una citazione esplicita.

Nella trasposizione moderna di Marianne e Johan, Levi (è sua la firma sulla sceneggiatura) si “diverte” a giocare con i ruoli del maschile e del femminile all’interno della coppia, sfidando esplicitamente quelli canonici previsti dalla tradizione, ma osando solo fino ad un certo punto nella visione politica a cui una idea del genere conduce, solo accennando alle coppie aperte, alla costrizione della monogomia e tornando presto a concentrarsi sui suoi protagonisti e sul loro rapporto, nella cui interdipendenza trova il terreno in cui è più a suo agio. L’impegno del suo lavoro sulla scrittura è veramente notevole: alla costante ricerca di uno spazio tra l’innovativo e il rispettoso, una parentesi che riesca a coincidere perfettamente con la visione che gli ha fatto suggerito di poter mettere mano ad un materia che farebbe vacillare anche il primo degli sceneggiatori. Probabilmente gli ha dato fastidio anche la solita fotografia da serie televisiva HBO.

Nella variazioni sul tema che compie, rimane quindi attaccato a proiezioni classiche, sia visive che recitative e sceglie di far girare le sue soluzioni su meccanismi consumati, ma che non tradiscono quasi mai.

Scene da un matrimonio

Ancora l’idea del terzo personaggio, coniugato in varie forme, tra cui quella moderna della sempre dark house (ci sono sempre più lavori che riservano alle case delle importanze diegetiche fondamentali nell’orientamento della storia che raccontano), spazio che, anche causa COVID, è rimasto il prescelto in cui far muovere praticamente tutte le azioni raccontate. Essa cambia sempre, i suoi spazi si riorganizzano e si scambiano, parlandoci di rapporti di forza, di momenti, di toni e umori. Spazi occupati egregiamente da Isaac e Chastain, solo apparentemente limitati (la casa, pur essendo un luogo chiuso, non dà mai l’idea di prigione, soprattutto per merito loro), a proprio agio con una sceneggiatura complicata e che esige una danza continua per la sua riuscita. Un affidarsi all’altro, che si vede sempre e che rende tutto più vero.

Dalla cornice originale che rimanda allo spazio ideale del teatro si passa ad una cornice moderna che rimanda allo spazio reale del cinema, concedendo allo spettatore un metasguardo interessante, che ha il doppio pregio di ricordargli la natura con cui il lavoro è nato e dargli il tempo necessario per accomodarsi sulla poltrona e concedersi qualche secondo per prepararsi all’immersione illusiva. I secondi per accordare gli strumenti. Uno dei rimandi più belli alla sala, pur in una serie televisiva.

Concludiamo la recensione di Scene da un matrimonio di Levi, soffermandoci sulla bontà del suo adattamento, non solo nelle intenzioni, ma anche nella riuscita, consapevole dei limiti che sarebbero sorti nel rielaborare lo sceneggiato di Bergman e decidendo anche di accettare il rischio di perdere le fondamenta su cui orienta il suo meccanismo. Cosa che, a ben vedere, accade, come era inevitabile, arrivando a dei lidi più semplici, più ricevibili, di quelli complessi, ma affascinanti e irripetibili del maestro svedese. Una storia d’amore alla prova del tempo e una riflessione che da orientata sul matrimonio diventa orientata sull’amore, due entità inconciliabili per natura, declinazione e forma. Oppure, semplicemente, perché viziate da un peccato di arroganza.

 

Scene da un matrimonio arriva il 20 settembre su Sky e NOW

 

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Segui la 78esima Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, dal 1 all’11 Settembre, con noi sull’hub: leganerd.com/venezia78

 

 

78
Scene da un matrimonio
Recensione di Jacopo Fioretti

Scene da un matrimonio di Hagai Levi, miniserie HBO, presentata in anteprima a Venezia78, tenta l'impresa impossibile di riadattare lo sceneggiato di Ingmar Bergman in una chiave moderna. Le sue variazioni sono interessanti, così come le soluzioni visive che trova. La sua scrittura è rispettosa, consapevole, posata, ma mai pavida, anzi animata da uno spirito emancipatorio e spinto dalla voglia di giocarsi le sue carte, senza mai cadere nella giustificazione. Sono ottime le prove dei due protagonisti, Oscar Isaac e Jessica Chastain, la cui sinergia risulta fondamentale per il successo del lavoro perché, ancora di più che nell'originale, la storia raccontata è esclusiva e dagli echi molto meno concettuali e metafisici. Il rischio è quello di perdere, nel passaggio, alcuni dei moti che hanno elevato l'opera di Bergman a una delle più importanti della storia del cinema e, a ben vedere, qualcosa del genere è successo.

ME GUSTA
  • L'adattamento di Levi è rispettoso e consapevole.
  • L'uso diegetico della casa è funzionale ed efficace.
  • La resa della coppia e delle sue dinamiche è credibile e avvincente.
  • Le prove attoriali dei due attori sono da rimarcare.
FAIL
  • La traduzione corre il rischio di perdere il ragionamento sul tema originale.