È un enorme dolore per me cominciare la recensione di The Power of the Dog con questa grande amarezza e dispiacere. Quella di Jane Campion era una delle pellicole con più attese di questa 78esima Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, dimostrandosi però essere una delle più grandi delusioni – per ora – di questo Festival arrivato solo al suo primo giorno.
Dopo dodici anni d’attesa dal suo ultimo film, precisamente Bright Star, la regista e sceneggiatrice neozelandese, Premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura – nonché Palma D’Oro al Festival di Cannes – con il suo intramontabile e meraviglioso Lezioni di piano (The Piano), firma e dirige una pellicola dal gusto imprecisato.
Un film che si trascina con aria stanca e sfatta lungo le sue ore, non sapendo esattamente dove voler davvero arrivare, a cominciare dai suoi stessi personaggi privi di approfondimento, spessore e caratterizzazione. Un ammasso stereotipato di cliché che in modo poco preciso si muove per la pellicola, dando la sensazione di trovarsi lì quasi per caso. Senza uno scopo. Senza un motivo. Senza una storia. Una storia che vorrebbe essere intensa, intima e feroce ma che a stento riesce a scalfire lo spettatore che – purtroppo devo dirlo – si trascina tediato lungo la visione per il mero gusto di vedere fin dove, personaggi e regista, si vogliono davvero spingere. Spoiler alert: da nessuna parte.
Sebbene la regia risulti attenta e particolarmente suggestiva o comunque sia evocativa, anche se da questo punto di vista non parliamo di certo della miglior direzione da parte della Campion, siamo sul fronte drammaturgico a dover raccogliere i cocci di un’opera sventrata, affidata ad un cast completamente a disagio nel ruolo a cui sono stati designati (addirittura Benedict Cumberbatch esce malconcio, a livello interpretativo, alla fine della giostra) e poco carismatico.
Jane Campion manca di visione, di concretezza e, purtroppo, anche di sentimento.
Spesso attratta dal dramma in costume, la Campion ci ha abituato proprio alla forza dei sentimenti, quelli più turbolenti e violenti, spesso espressi in modo goffo ma altrettanto potente. Personaggi scomodi e gretti, eppure meravigliosamente scritti e approfonditi, incapaci quasi di stare al modo ma così disperatamente bisognosi di un briciolo di aria. Di leggerezza. Bisogno di vita e libertà.
È indubbio che queste tematiche riescano comunque a leggersi nell’opera tratta dall’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage, ma al tempo stesso è come se venissero lanciate in aria, tirate fuori da un sacchetto di coriandoli, un po’ per caso, senza un vero coinvolgimento, senza una vera dimensione. E questo lo si legge quasi fin da subito nel personaggio di Phil Burbank, classico uomo dall’indole crudele e inflessibile, che sposa modelli di machismo tossico e maschilismo violento ma che invece vanno a nascondere – come spesso accade – una repressione ben più profonda e radicata e un processo di accettazione che deve passare in primis da se stessi e poi dagli altri.
Ma le grandi tematiche non bastano per fare dei grandi film.
Essere uomo nel 1925
Cosa vuol dire essere uomo? Spesso ci chiediamo cosa voglia dire essere donna, analizzando la rappresentazione della figura femminile e la sua evoluzione – anche attraverso gli occhi degli altri – col passaggio delle epoche. Ma cosa vuol dire, invece, essere uomo soprattutto in un contesto storico dove la mascolinità veniva misurata in rigore, violenza, sporcizia e crudeltà?
A questa domanda dovrebbe rispondere proprio Phil Burbank (Benedict Cumberbach) che rispetto a suo fratello George (Jesse Plemons), sempliciotto e bonaccione dal capello impomatato e la pancia troppo gonfia, è da sempre stato un uomo tutto d’un pezzo. Un vero e proprio cowboy – nonostante i prestigiosi studi e la brillante intelligenza – dal fisico scolpito, la parla sbilenca americana e l’atteggiamento da vero duro.
Un uomo inflessibile, che non si lascia impietosire da nulla e che colpevolizza chi, invece, non riesce a rasentare la perfezione di quella falsa idea secondo cui un maschio vero non può avere sentimenti, emozioni e un certo tipo di sensibilità. Ovviamente questo gli garantisce il rispetto da parte di tutto il ranch. Phil è un leader, un uomo tutto d’un pezzo. Il modello perfetto di “vero uomo”.
Ma chi è un vero uomo?
Infatti, sotto gli occhi stretti e cattivi, la bocca contratta e le mani sporche e callose, si nasconde altro. Un “altro” destinato a crescere, a crescere e a crescere ancora di più, portando inevitabilmente la narrazione su un piano molto didascalico, scontato e superficiale.
E l’esasperazione di questa sofferenza e malessere interiore, questa solitudine che divora quasi come un cancro Phil dal profondo, lo porta ad essere ancora più spregevole e inquietante agli occhi di chi lo circonda, soprattutto per quanto riguarda Rose (Kirsten Dunst), ex-vedova di un suicida e moglie di George, e su figlio Peter (Kodi Smit-McPhee).
Dopo aver più volte attaccato il ragazzo, soprattutto per la sua spiccata sensibilità artistica e intellettiva, utilizzando i classici nomignoli dispreggiativi come “femminuccia”, Phil porterà avanti una vera e propria guerra fredda contro Rose, provando non di poco la stabilità mentale di quest’ultima.
Agnelli travestiti da cani
The Power of the Dog è un film che ha difficoltà a decollare. Ha difficoltà ad andare avanti. Ha difficoltà ad emozionare, farsi comprendere, interessare.
Diviso in atti, la pellicola parte focalizzandosi molto sul rapporto tra Phil e George, sulla loro diversità e modo di rapportarsi. Sul loro essere uomini in maniera differente.
Inizialmente ci sembra essere, infatti, un dramma tra fratelli. Se da una parte George mantiene un certo tipo di facciata, legato alla famiglia e desideroso a sua volta di mettere su famiglia, portando avanti le attività del ranch con serenità e tranquillità e venendo rispettato non per paura ma per reale fedeltà al ranch; dall’altra parte sembra quasi che Phil voglia essere odiato a tutti i costi dallo spettatore.
La Campion spinge il personaggio di Cumberbatch, e l’attore britannico stesso, ad un punto tale da diventare quasi stucchevole. Phil è talmente tanto violento e disprezzabile, da risultare ben presto più un agnello vestito da lupo, o cane considerando il film, che un lupo vestito da agnello. E quindi ecco che il film diventa un dramma personale. Il dramma di un uomo incapace ad essere se stesso.
Troppi sono gli indizi che vengono disseminati lungo la pellicola. Didascalici. Scontati. Privi di senso. Alcune scene vengono composte più per “innamoramento di un’idea” che funzione della storia stessa; a differenza dei personaggi che, invece, il più delle volte svolgono un mero ruolo di funzione. Primis fra tutti quello di Rose interpretato da Kirsten Dunst (che, ricordo, inizialmente era stato affidato ad Elisabeth Moss, la quale aveva già lavorato con la Campion nella miniserie Top of the Lake, ma che ha dovuto rinunciare “all’ultimo” a ruolo a causa di impegni pregressi).
La Dunst si muove in maniera confusionaria tra scene, dialoghi e capitoli del film. Sembra essere smarrita, non ha a fuoco quello che dovrebbe fare, quello che dovrebbe essere Rose. La sua scena madre è di un pietoso imbarazzante. L’intento voleva forse essere quello di provare intimamente lo spettatore, ma invece lo si disturba, lo si imbarazza. Si prova vergogna per la perfomance dell’attrice che ne esce dal ruolo completamente martoriata.
Del resto, non da meno è lo stesso Benedict Cumberbatch, completamente fuori parte. Estremamente esasperato ed esasperante. Poco credibile perfino nell’accento, nelle movenze, nelle azioni. Sembra essere fuori da se stesso, altrimenti è difficile spiegare una tanto unica quanto – per fortuna – rara interpretazione di così basso livello da parte dell’attore.
Jesse Plemons è, invece, praticamente non pervenuto. Poco male, per lui.
L’unico capace di dare qualcosa al personaggio, nonché l’unico con un personaggio che sa davvero sorprendere, riservando risvolti inaspettati per lo spettatore, è Kodi Smit-McPhee. L’aspetto efebico del giovane attore svolge un ruolo fondamentale, soprattutto su quella che sarà poi l’evoluzione sul rapporto che andrà ad instaurarsi tra il personaggio di Pete e il personaggio di Phil.
Fin dall’inizio ci facciamo subito un’idea di Peter, ma non è un personaggio così scontato come sembra, anzi. Forse l’unica vera nota positiva della pellicola, accompagnata da una regia che sa essere comunque evocativa – quando vuole – sia in fattor di scrittura che in fattor di interpretazione.
Corde fragili e velenose
Avviandoci verso la conclusione di The Power of the Dog, è ormai piuttosto chiaro che il lavoro e il ritorno tanto atteso di Jane Campion lasciano, in prima battuta, freddi e disorientati. La pellicola arriva ad un punto in cui lo spettatore si sente frastornato ed ancora un po’ provato da una partenza lenta (e piuttosto noiosa).
La storia non riesce mai ad avere un punto di svolta. Come detto prima, sembra quasi che in fase di scrittura Jane Campion fosse poco lucida, non avesse ben chiaro in mente di cosa scrivere, di chi scrivere e come scrivere. La pellicola procede quasi a tentoni. I suoi intenti sono molto chiari e, a onor del vero, anche molto interessanti. Sarebbe potuta essere una grande storia di accettazione, repressione, solitudine e tradimento; invece, quello che rimane sulla bocca e l’amaro di un “what if…” che, invece, la Campion di vent’anni fa ci avrebbe potuto davvero regalare.
Anche l’uso di alcuni escamotage, come la musica, per esempio, sembrano essere più un riciclo di idee che la volontà di raccontare qualcosa di davvero nuovo o, comunque sia, potente.
C’è della profonda stanchezza in questo film. Della superficialità che disturba e sedimenta portando sempre di più verso un giudizio decisamente più negativo che positivo. Un film che si concede troppe ingenuità, soprattutto per essere la pellicola di una regista così matura e preparata come la Campion, che forza i personaggi, che costruisce sequenze a caso inciampando, troppo spesso, nel didascalismo.
Così come la corda che Phil intreccia con pazienza, dedizione ed una smisurata passione, The Power of the Dog è una corda che si intreccia, lentamente, ma ad ogni nuovo intreccio i filamenti si sfilacciano, cedono, vengono meno. Si sfaldano tra le mani dello spettatore, lasciano alla fine di tutto un grande vuoto, un senso di insoddisfazione e profonda amarezza.
The Power of the Dog sarà disponibile su Netflix dal 1 Dicembre
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The Power of the Dog si dimostra essere un film quasi incompiuto, stanco e molto pasticciato. Jane Campion manca di visione, non si comprende cosa voglia raccontare e come lo voglia fare. I personaggi vengono abbandonati a se stessi, quasi privi di anima, involucri stanchi senza scopo e senza meta, facendo risentire di molto anche le performance attoriali. La regia evocativa e le immagini suggestive non bastano per emozionare, e alla fine di tutto si rimane con un senso di vuoto, stanchezza ed amarezza.
- L'immagine filmica e la regia sa, a modo suo, essere suggestiva ed evocativa, creando delle sequenze che restano abbastanza impresse nella mente
- Kodi Smit-McPhee è l'unico attore capace di suscitare davvero qualcosa nello spettatore
- Jane Campion manca di visione, scrivendo una storia rattoppata e che non arriva da nessuna parte
- I personaggi sono abbandonati a loro stessi, vagano per la scena senza uno scopo, senza una meta. Mal caratterizzati e poco carismatici.
- La scrittura approssimativa dei personaggi si rispecchia anche sulle interpretazioni degli attori, in modo particolare su Benedict Cumberbatch e Kirsten Dunst
- Le tematiche vengono inserite un po' per caso, senza una vera cognizione di causa, rendendo il tutto ancora più piatto