L’espressione antidiv* è oramai strausata e, francamente, anche un po’ equivoca. Qualche mese fa ad alcuni di voi sarà capitato (espressione terribile, scusate) di leggere diversi articoli che associavano questo epiteto a Frances McDormand, prendendo come prova decisiva una ricrescita grigia sfoggiata durante l’ultima notte degli Oscar. Da lì si è scatenata la solita, enorme, discussione filosofica/esistenziale su cosa la parola in sé in realtà significasse, date le ambiguità che si porta dietro. Una cosa stimolante eh, viva le discussioni, e infatti ha spinto anche me a rifletterci, ovviamente. Cos’è che rende un divo/a tale? Essere un punto di riferimento? Essere inimitabile? Essere eleggibile, attraente? Riconoscibile? Ed essere un antidivo/a allora? Il merito in sé di tale nomea esclude l’opportunità della definizione. Che confusione.
Il motivo per cui vi parlo di questo groviglio senza uscita è perché quando mi sono messo a pensare alla figura di Viggo Mortensen mi è tornata in mente questa parola. Vedete, Viggo è senza dubbio un divo: affascinante (esteticamente si sa, in ogni caso trovate qualche foto più avanti), magnetico e, a suo modo, accentratore, ma anche un personaggio, che, coscienziosamente, ha deciso di essere, di fatto, un anti.
Ce lo dice la sua adolescenza, il suo inizio carriera, il suo percorso dopo la trilogia che lo rese una stella luminosa e anche la vicenda dietro la produzione di Falling – Storia di un padre, al cinema dal 26 agosto con Bim Distribuzione, il suo debutto alla regia (che però ha anche scritto e recitato), dietro la quale c’è un percorso di lavoro e riflessione. Senza troppi esempi, la sua natura stessa. Attore americano, ma di origini danesi, apprezzato pittore, ma anche poeta, fotografo, botanico a tempo perso e orgogliosissimo poliglotta (parla 9 lingue), residente in America, ma da anni stanziato in Spagna, insieme alla moglie Ariadna, repellente ad Hollywood, ai suoi tappeti e alle sue luci, ma candidato 3 volte agli Oscar.
Anti divo, divo al contrario, ma sempre divo è. O no?
Papà, l’Europa e Miami Vice
Viggo Peter Mortensen jr. è nato ad ottobre del 1958, a Lower East Side, NY, e non poteva essere altrimenti. Uno dei quartieri più vivaci e multiculturali di Manhattan, perché, da sempre, uno dei punti di accoglienza storici per i nuovi immigrati. Nel corso del tempo vi si è stabilito un vero mosaico di popolazioni: latino-americani, irlandesi, ebrei, italiani, cinesi, neri, tedeschi e… danesi. Come il padre di Viggo, Viggo Sr., volto di un amore vacanziero della signora Gamble durante il soggiorno in Norvegia, coronato da un matrimonio in terra olandese.
Da primogenito trascorre un’infanzia itinerante a causa dell’impiego paterno e a neanche 10 anni si ritrova ad aver già vissuto in Venezuela, Danimarca e Argentina e saper parlare benissimo lo spagnolo. Con il divorzio dei suoi, arrivato poco dopo la nascita dei suoi due fratelli, Viggo Jr. si trasferisce con il padre a Copenaghen, una piccola deviazione, dato gli USA sono nel suo destino prossimo.
In America si diploma alla Watertown High School, periodo durante il quale comincia ad appassionarsi alla fotografia. Frequenta poi la St. Lawrence University, dove si laurea in scienze politiche e letteratura spagnola, ma non prima di aver lavorato come traduttore per la squadra svedese di hockey su ghiaccio durante le Olimpiadi invernali a Lake Placid. Decide di tornare in Danimarca appena finiti gli studi, dove si divide tra tanti lavori diversi, dal camionista al barista, passando per cameriere e fioraio. Un’altra parentesi, prima del ritorno definito negli Stati Uniti per assecondare il suo sempre più importante interesse per la recitazione.
La meta diventa dunque Los Angeles, dove si trasferisce dopo essersi diplomato alla Warren Robertson’s Theatre Workshop e aver calcato il palcoscenico teatrale in diverse occasioni. Le sue prime esperienze con il fantastico mondo del cinema non sono però delle migliori, tra primi provini, in cui viene ripetutamente scartato (ne segnaliamo uno eccellente per Platoon di Oliver Stone), e la delusione di debuttare in film di sua maestà Jonathan Demme, salvo poi finire in una scena tagliata nel montaggio finale (parliamo di Swing Shift – Tempo di swing), destino a cui andò incontro anche quando prese parte a La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen e, anni e anni più tardi, a La sottile linea rossa di Terrence Malick.
Il suo primo ruolo “ufficiale” alla fine fu quello di un contadino amish in Witness – Il testimone di Peter Weir, siamo nel 1985.
Le sue soddisfazioni Viggo se le toglie quindi (capirete bene) lontano dal grande schermo, recitando in televisione in serie di grande successo come Miami Vice e soap opera, come Aspettando il domani, persino con un ruolo ricorrente, oppure a teatro, addirittura scippando una parte a Ian McKellen, suo compagno qualche tempo dopo, in Bent, per la cui interpretazione vinse un Dramalogue Critics’ Award. Intanto al cinema è da segnalare la sua presenza Salvation! (1987), ma solo perché sul set conobbe la sua futura moglie, Exene Cervenka, e una imperdibile interpretazione nel ruolo del fratello bono (e non buono) di Leatherface nel reebotquel dell’originale Non aprite quella porta. Qui sotto un estratto:
Bruce Springsteen, Dennis Hopper e i fratelli Scott
L’anno dopo la carriera di Mortensen jr. sembra finalmente ingranare, grazie a Bruce Springsteen e Sean Penn. Viggo è infatti protagonista di Lupo solitario, debutto alla regia dell’attore oggi due volte Premio Oscar, tratto dal testo della canzone Highway Patrolman, successo storico di The Boss contenuto nell’album Nebraska del 1982. C’è ancora il videoclip su YouTube se volete un assaggino.
Un film importante per l’attore non solo per il ruolo, ma anche perché gli fece conoscere Sean Penn, che ritrova sul set di Carlito’s Way, dove, nei panni di Lalin, si fa strapazzare da un arrabbiatissimo Al Pacino, nonostante stia su in carrozzella a strisce blu e rosse, omaggio alla sua squadra del cuore, il San Lorenzo, e, soprattutto, Dennis Hopper. Con lui divide il set di Limite estremo di J.B. Harris, sempre nel 1993, come per il cult di De Palma, per poi stringere un’amicizia che porterà Hopper ad aiutarlo ad allestire una mostra fotografica alla Robert Mann Gallery di New York intitolata Errant Vine, piena di scatti realizzati negli anni settanta.
L’anno dopo debutta nel mondo della musica con Don’t Tell Me What to Do, il primo dei suoi 9 album di musica sperimentale, la maggior parte realizzati con la collaborazione di Buckethead, famoso per essere stato chitarrista dei Guns N’ Roses, e pubblicati dall’etichetta statunitense TDRS Music.
Sul grande schermo Viggo continua a collezionare ruoli sempre differenti, passando dall’interpretare un ex agente dell’FBI in cerca di redenzione in American Yakuza di Frank Cappello al ruolo di Lucifero in L’ultima profezia di Gregory Widen, impegnato in punta di fioretto con l’Arcangelo Gabriele di Christopher Walken. Lo stesso anno prende parte anche ad Allarme rosso di Tony Scott, occasione in cui divide il set con attori del calibro di Denzel Washington, Gene Hackman e James Gandolfini, dove veste i panni di un ufficiale dell’esercito. Evidentemente apprezzato dalla famiglia Scott in divisa, nel 1997 viene scelto da Ridley per interpretare lo spietato sergente John James Urgayle in Soldato Jane con l’incarico di prendersela con Demi Moore.
Nel mezzo Viggo continua la sua carriera poliedrica, prendendo parte ad il suo primo film in costume, Ritratto di signora di Jane Campion, e a Insoliti criminali, un’altra prima volta di un attore dietro la macchina da presa, Kevin Spacey per l’occasione. Sempre ruoli secondari ad ogni modo. La svolta decisiva è ad appena 4 anni di distanza.
Passione Hitchcock e il ramingo erede al trono
4 anni comunque molto intensi per un interprete che, in realtà, non si è mia fermato, risparmiandosi poco e, anzi, quasi dando l’impressione di accusare un senso di mala sopportazione verso anche solo un accenno di immobilismo, continuando a calcare sempre più di un set all’anno, mettendosi alla prova in film sempre diversi e ampliando la sua esperienza in altri campi artistici.
Prova di questo è Delitto perfetto di Andrew Davis (1998), remake della pellicola quasi omonima (nella versione italiana manca l’articolo) di Alfred Hitchcock, nel quale i quadri che si possono ammirare in giro per lo studio del David Shaw pittore ex galeotto interpretato da Mortensen, sono realizzati dall’attore stesso.
Evidentemente entrato in fissa con il cinema di Sir Alfred (fonti attendibilissime parlano di zapping compulsivo fino alle 5 di mattina e libri su libri dedicati sempre in valigia) quell’anno Viggo jr. prende parte anche al remake di Psycho girato da Gus Van Sant, il quale, nonostante la sua natura di rifacimento shot-for-shot, presenta diverse differenze rispetto all’originale degli anni 60. In primis il fatto che l’azione è spostata a ridosso degli anni Duemila, probabilmente per “contestualizzare” il passaggio dal b/n al colore, in sedunis la maggiore libertà di espressione in materia sessuale e nelle scene di violenza (riferimento ai nudi, alla scena voyeuristica di Norman e anche alla colluttazione finale). In compenso possiamo ammirare di nuovo il viso di Anthony Perkins sovrapposto allo scheletro del signor Bates.
Viggo Mortensen interpreta Sam Loomis e divide il set con attori come Julianne Moore, Philip Baker Hall, William Macy, Robert Forster, Anne Heche e Vince Vaughn.
L’anno dopo Stuart Townsend viene contattato per interpretare Aragorn, ramingo della Terra di Mezzo e erede di Isildur per il trono di Gondor, uno dei personaggi principali de Il Signore degli Anelli di J. R. R. Tolkien, leggendaria opera letteraria che Peter Jackson aveva deciso di adattare in un’altrettanto mastodontica opera per il grande schermo. L’alternativa si chiama Viggo Mortensen, riluttante ad accettare il ruolo, come il personaggio che doveva interpretare lo era nel diventare re. Destino vuole però che Townsend venisse scartato perché ritenuto troppo giovane per la parte (accusa mossa allo stesso Viggo nel corso del tempo) e che i dubbi dell’attore di origine danese fossero infine risolti dal figlio (grande fan dell’opera letteraria), ovvero il motivo stesso del loro essere, dal momento che la produzione in Nuova Zelanda li avrebbe allontanati per diversi mesi. Il resto è storia.
Aragorn regala a Viggo Mortensen l’immortalità artistica e lancia la sua carriera nel gota degli attori per sempre noti al grande pubblico. Un po’ perché la trilogia di Jackson segna un solco nel cinema contemporaneo, soprattutto di genere fantasy, dando vita, nel giro di tre anni, ad un universo incastonato nell’immaginario popolare in modo indelebile, entrando a far parte di quelle saghe cinematografiche senza tempo come Star Wars e simili.
I tre film fanno incetta di Oscar (tra tutti quanti portano a casa 17 statuette) e, anche se Mortensen non vince nessun premio né a nulla viene candidato la sua vita, professionale e non, non sarà mai più la stessa.
Curiosità: Viggo jr. dà ancora sfoggio della sua duttilità artistica comparendo anche nella colonna sonora della trilogia, con il brano Aragorn’s Coronation, di cui ha composto le musiche, e la canzone The Lay of Beren and Lúthien.
Che fare ora? Ora che tutto è cambiato e ora che tutto è accessibile? Le porte di Hollywood sono aperte: il viso giusto, il ruolo giusto, gli occhi giusti. Ma anche un curriculum di tutto rispetto, una lunga e vasta esperienza sui set e il phisique du role del protagonista, sia per i film action sia per i ruoli da eroe drammatico.
Sulla cresta dell’onda
Che fare ora?
Oceano di fuoco – Hidalgo di Joe Johnston, pellicola minore, variazione sul genere western, storia di un cavaliere errante, eroe solitario e vagabondo, pelle rude, sguardo intenso e sorriso dolce, indomabile come il cavallo che cavalca. Fratello di sangue e di spirito. Non certo un blockbuster action da numero uno al botteghino, eppure così esplicativo di che uomo e che attore Viggo Mortensen sia.
Alternative? Fondare una casa editrice insieme ad un’amica con parte del compenso ottenuto dall’interpretazione del ramingo. La Perceval Press, nome ispirato a Parsifal, uno dei Cavalieri della Tavola rotonda, nata con lo scopo di valorizzare e aiutare giovani artisti nonché essere un nuovo luogo per l’attore dove portare avanti i suoi progetti paralleli. Nel 2002 Mortensen pubblica un catalogo di sue opere contenenti fotografie, dipinti, poesie e (venghino, signori, venghino) un diario multimediale realizzato durante il soggiorno in Nuova Zelanda per le riprese de La Compagnia dell’Anello.
Parlando di progetti extra cinematografici, in ambito strettamente fotografico Mortensen regala al mondo altre due raccolte. La prima, nel 2003, è intitolata Miyelo, una documentazione della danza degli spiriti della gente lakota e ricostruzione/narrazione degli eventi che portarono al massacro di Wounded Knee, ovvero l’eccidio dei Miniconjou, un gruppo di Sioux Lakota, del 1890 ad opera dell’esercito statunitense (pagina Wikipedia qui). La seconda, The Horse is Good, nel 2004, è un libro fotografico che ripercorre la figura del cavallo nelle attività sportive, nel mondo del lavoro o semplicemente come amico e compagno dell’uomo, con scatti realizzati durante la lavorazione di, indovinate un po’, Oceano di fuoco – Hidalgo e in diverse parti del mondo, tra cui Marocco, Islanda, Nuova Zelanda, Danimarca, Brasile, Argentina e molti altri. E così chiudiamo il cerchio.
Ora andiamo avanti.
Cronenberg ed Io
Amore a prima vista, colpo di fulmine, anime gemelle. Ci credete? Non ci credete? Ognuno ha le sue perversioni, fatto sta che risulterebbe difficile descrivere meglio l’incontro tra Viggo Mortensen e David Cronenberg, che insieme fanno tre film, due molto belli e uno molto poco, ma ognuno fondamentale per comporre il puzzle dell’attore che jr ,vuole diventare per affermare sé stesso e per affermarsi anche ad Hollywood.
Il primo è A history of violence del 2005, tratto dall’omonima graphic novel scritta da John Wagner e illustrata da Vince Locke, pubblicata dalla Vertigo nel 1997 e nota da noi con il titolo Una storia violenta (edito dalla Magic Press). Un’ottima prova da protagonista di Mortensen in un ruolo che ha la sua forza nell’ambiguità e nell’alternanza tra esplosione e silenzio, per di più in un film dalla forte impronta autoriale.
Per il film successivo Mortensen si affaccia in Spagna, anticipando una tendenza che lo porterà per diversi anni lontano dagli USA. Il film è Il destino di un guerriero di Agustín Díaz Yanes, ispirato alla serie di romanzi storici di Arturo Pérez-Reverte con protagonista il Capitano Alatriste. Siamo nel 2006 ed è anche l’anno di Recent Forgeries, mostra fotografia allestita presso la Galleria Track 16 a Santa Monica, il titolo è preso da un libro pubblicato da Mortensen stesso nel 1998 con un’introduzione dell’amico Dennis Hopper.
Il ritorno in patria è il secondo capitolo della collaborazione con David Il Grande e si chiama La promessa dell’assassino, che vuol dire prima nomination agli Oscar per l’attore e consacrazione annessa. Una prova solida, piena, cicciotta, convincente e per nulla scontata nei panni di Nikolai Luzhin, niente appellativi colorati per pericolo spoiler. Era anche favorito per la vittoria, ma quando hai di fronte l’interpretazione di Daniel Day-Lewis data ne Il petroliere hai poco da recriminare.
Con Ed Harris gira Appaloosa, seconda regia dell’attore, altro western, altra direzione di un collega attore, altro adattamento di un’opera letteraria, l’omonimo romanzo di Robert B. Parker. L’anno è il 2008, lo stesso in cui allestisce in Islanda, al Reykjavik Museum of Photography, una mostra fotografica intitolata Skovbo con successiva pubblicazione di un omonimo libro fotografico. Si torna a viaggiare al ritmo di due film all’anno e Mortensen compare anche in Good – L’indifferenza del bene, stavolta adattamento della piéce teatrale.
Dopo aver preso parte a The Road di Hillcoat, terzo adattamento (e più importante) della pellicola di Cormac McCarthy, vincitrice del Pulitzer nel 2007, ci sono (INCREDIBILMENTE) due anni di pausa, forse per l’inizio della relazione con Ariadna Gil, conosciuta sul set del film di Yanes, qualche anno prima. Si, Mortensen era single, divorziò nel 1998. Credo che sia una spiegazione plausibile alla pausa? No, ma come resistere all’occasione di fare gossip?
Nel 2011 atto terzo e, fino a qualche giorno fa, ultimo della collaborazione con Cronenberg, ovvero A dangerous method, in cui l’attore interpreta niente poco di meno che Sigmund Freud, catturato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, nel momento della separazione con Jung. La pellicola è la più debole della loro sodalizio (fino a nuova verifica) e oltre alle facce della Knightley poco rimane. Serve svolta? Non può essere di certo la sua parte in On the road di Walter Salles, che al massimo può essere un segnale di giusto e necessario commiato da adattamenti di opere letterarie.
Il mondo, fuori
Nel 2012 inizia il pellegrinaggio di Mortensen, che per diversi anni sparisce dai riflettori hollywoodiani e si dedica a pellicole (quasi) interamente prodotte nel Vecchio Continente.
Il primo è Todos tenemos un plan di Ana Piterbarg, una parte che suona quasi come una confessione da parte dell’attore, tolta la parte sulla criminalità organizzata, ovviamente. Il film più importante di questo periodo è I due volti di gennaio, esordio alla regia di Hossein Amini (siamo nel 2014), altro adattamento cinematografico, il libro è quello scritto da Patricia Highsmith nel 1964, già portato sul grande schermo con Die zwei Gesichter des Januars del 1986, diretto da Wolfgang Storch e Gabriela Zerhau. Questa pellicola rappresenta il “quasi” di cui sopra, basta dare un occhio al cast: Kirsten Dunst e Oscar Isaac.
Si ritorna ai ritmi sostenuti e nello stesso anno escono addirittura altre due pellicole con Viggo jr., cioè Jauja di Lisandro Alonso e Loin des hommes di David Oelhoffen. Due film in costume, il primo viene presentato a Cannes67, nella sezione Un Certain Regard e si aggiudica il FIPRESCI, mentre il secondo, tratto dal racconto breve L’ospite, contenuto ne L’esilio e il regno di Albert Camus, presentato a Venezia71, è ambientato durante la guerra d’indipendenza algerina e si concentra sul trattamento riservato agli autoctoni da parte degli europei, molto simile a quello che subirono gli indiani da parte degli statunitensi. Argomento molto caro a Mortensen.
Poi arriva il momento di tornare a casa.
Ritorno sotto i riflettori
Il ritorno ad Hollywood di Viggo Mortensen si chiama Captain Fantastic, scritto e diretto da Matt Ross e presentato in anteprima al Sundance del 2016. La pellicola è stata poi proiettata nella sezione Un Certain Regard di Cannes69, dove ha vinto il premio per la miglior regia. È la seconda nomination agli Oscar per l’attore di origine danese.
Coronamento di una coerenza tra vita professionale ed interiore, la prova di Mortensen nei panni di Ben inganna lo spettatore al punto da confonderlo a proposito dei confini che separano l’uno dall’altro. Un film dal sapore molto europeo, soprattutto nella parte dedicata alla descrizione dell’educazione del padre nei confronti dei suoi figli e molto meno nella trovata narrativa, che culmina in un finale che sentenzia come il gradiente maggiore sia prettamente di terra americana. Perdonate la piccola digressione, torniamo a noi.
Viggo jr. si è fatto definitivamente grande e l’ambizione che accompagna la sua prova successiva ha tutto della consapevolezza di un attore che si sente inquadrato e che ora è pronto a raccogliere dall’industria con cui ha un rapporto così controverso quello che pensa di potersi meritare.
Siamo a Green Book di Peter Farrelly, miglior film agli Oscar 2019, ispirato alla storia vera dell’amicizia tra Don Shirley e Tony Lip, pseudonimo di Frank Anthony Vallelonga, che è poi stato il padre di uno degli sceneggiatori del film, Nick Vallelonga. Si tratta della terza candidatura per Viggo Mortensen, la seconda consecutiva, e segna un en plein dato che sono tutte come attore protagonista. Ma forse è anche quella che sà più di delusione per lui, che azzecca il film giusto e si destreggia in una parte che molto poco ha a che fare con le solite corde a cui l’interprete ha abituato il pubblico e per di più non se la cava neanche male. Nonostante tutto, rimane a mani vuote.
Presente e futuro
Il futuro è ora. Per Viggo Mortensen si chiama Thirteen Lives, in cui verrà diretto da Ron Howard; ma si chiama anche Crimes of the Future, il nuovo, attesissimo, Cronenberg e, soprattutto, si chiama Falling – Storia di un padre, il suo debutto alla regia.
Una sequenza in cui ritroviamo benissimo il passo di Mortensen: un’alternanza tra film da botteghino, film d’autore e film che parlano di sé. In questo caso una storia di fiction intrisa di una forte componente autobiografica nata nel ricordo della madre e dedicata ai suoi due fratelli minori, che ha cambiato forma nel corso del tempo fino ad assumere quella di un lungometraggio. Viggo interpreta John, un uomo semplice, che vive con figlia e compagno, ritratto nel rapporto con il padre, interpretato da Lance Henriksen, affetto da demenza senile, del quale cerca di prendersi cura con pazienza e comprensione. Mortensen scrive anche il film e, ovviamente, mette mano anche alle musiche. Se aguzzete poi la vista troverete un Cronenberg inedito nei panni di un proctologo.
Il nuovo capitolo della carriera inarrestabile dell’attore americano di origini danesi, che vive in Spagna e che scrive romanzi, ama la fotografia, suona e dipinge, arriva nelle sale (ripetiamo per i più distratti) il 26 agosto, distribuito con Bim Distribution, e potrebbe rappresentare il quarto punto di snodo di un percorso irripetibile perché segnato dalla continua ricerca di sé.