Osteggiato, discriminato, tralasciato e, recentemente, addirittura visto con scetticismo, l’horror italiano è un genere che ha, nel corso degli anni, perso notevolmente terreno sia nei confronti degli spettatori sia nelle menti delle case di produzione. Per i primi si è trattato di un rimanere orfani che ha sfociato nella disabitudine vera e propria ad incontrare pellicole valide; per le seconde invece di una perdita di interesse di rischiare, causata probabilmente da logiche di un mercato che permette sempre meno la sperimentazione e, di conseguenza, l’errore. Anche se poi si sbaglia ancora troppo, anche se ci sono eccezioni ecc.. Potremmo starne a parlare per ore, ma vi voglio bene e vi risparmio.
Eppure, di recente, qualche scossetta tellurica si è avvertita, soprattutto per merito di autori “giovani” (almeno dal punto di vista filmografico… poi è pur sempre un complimento, lo prenderanno di buon grado). Il primo nome che viene in mente è quello Roberto De Feo, su Netflix con una felice pellicola confezionata in coppia con Paolo Stripoli, ma ci sono anche Alessio Liguori, Emanuele De Feudis, Daniele Misischia o Giorgio Bruno.
Proprio di quest’ultimo potete trovare nella sale dal 28 luglio, con la distribuzione di Vision Distribution, l’atteso e intrigante They Talk; ovvero la storia di Alex, tecnico del suono, che durante le riprese di un documentario si imbatte in delle voci misteriose che cercano di metterlo in guardia e che lo porranno su di un percorso lungo il quale dovrà fare i conti con un passato ancora da decifrare.
Caratteristiche di una trama che ha in sé degli elementi in grado di far tornare alla memoria una grande tradizione di genere che l’Italia vanta, talmente ricca e variegata da aver presentato dalle pellicole più legate alla tradizione americana (slasher e B-Movie), passando per l’espressionismo fino ad arrivare a gotico e folkloristico, utilizzando linguaggi in continuo movimento tra il terrore come idea e violenza in bella vista. Tanti sono stati i maestri del settore: Pupi Avati, Lucio Fulci, Dario Argento, Umberto Lenzi, Deodato fino a Mario Bava, capostipite dell’horror nostrano, pioniere e faro di tutti gli altri.
Noi però andiamo controcorrente e abbiamo deciso di fare una lista dei migliori film horror italiani degli anni 2000, sfidando leggi, convenzioni, gusti e palati, modo migliore anche per accompagnare una pellicola come They Talk. In mezzo ci troverete autori nuovi, pellicole semisconosciute al grande pubblico, qualcosina di stranoto e un colpo di coda più che valido.
A Classic Horror Story (2021)
Inauguriamo la nostra classifica dei 10 migliori film horror italiani degli anni 2000 con uno dei film nostrani più chiacchierati degli ultimi tempi, quel A Classic Horror Story, opera seconda di Roberto De Feo e invece debutto del co-regista Paolo Stripoli, prodotto e distribuito da Netflix, ma presentato al Taormina Film Festival.
Cinque sconosciuti (c’è una coppia in mezzo in realtà, ma siate clementi) condividono un viaggio su un camper, rigorosamente vintage, per andare in Calabria, ognuno, ovviamente, per motivi diversi. La gita procede serena fino ad un incidente che porta il mezzo fuori strada e direttamente contro un albero, proprio al calare delle tenebre, ma guarda il caso. Neanche a dirlo, tutti e cinque i protagonisti perdono i sensi e al loro risveglio si ritrovano in un altro luogo rispetto a quello del sinistro: davanti a loro ora c’è una casa fatiscente e intorno a loro alberi a perdita d’occhio.
Giocando con un fine citazionismo, gli autori celebrano, divertendosi e divertendo, il cinema horror del passato e del presente, riuscendo a mescolare ingredienti narrativi e soluzioni visive ispirate ad altro, ma tenendo comunque la pellicola su dei binari propri. Il gioco idisioncratico a cui lo spettatore assiste è quello di un lavoro che flirtando con una classicità folkloristica parla del contemporaneo. Anche la trama, fortemente radicalizzata nel nostro immaginario nazionale, rispetta questa regola, ma è solo nel finale che la pellicola scopre le sue carte. Nel terzo atto infatti prende corpo l’intento metanarrativo delle due teste dietro la camera, che criticano la realtà cinematografica in cui sono i primi ad essere coinvolti, nella quale non si crede più in un filone che invece ha tanto da dare e di cui il pubblico ha bisogno. Anche se forse non lo sa più. Magari sarà il caso di ricordarglielo.
Disponibile su Netflix.
Shortcut (2020)
Se De Feo è uno dei nomi più importanti dell’horror italiano contemporaneo, Alessio Liguori è probabilmente il nome che potrebbe avere più da ridire, specialmente in un campo da gioco molto molto stretto. Per esser corretti al 100% diciamo però che il primo film di Liguori non era propriamente un horror. Le differenze tra i due sono molteplici, sia per quanto riguarda i riferimenti filmici sia, soprattutto, per le prospettive con cui pensano le loro pellicole: il primo è legato ad una tradizione che guarda al nostro Paese, il secondo invece vede molto oltreoceano.
Shortcut è un horror indipendente, che con A Classic Horror Story condivide l’idea del setting: passeggeri di un viaggio che si interrompe bruscamente, pur andando completamente da un’altra parte. Un’opera più semplice, pensata come un racconto di formazione con dei toni rimandanti al B-Movie americano nello sviluppo dei personaggi e nelle interazioni. La pellicola è infatti stata accolta molto più positivamente in terra statunitense che da noi.
Cinque studenti inglesi sono in vacanza studio quando un fuggitivo da poco scappato da un carcere di massima sicurezza li prende in ostaggio. Da lì a poco capiremo tutti come il suo sguardo da folle e il suo fare minaccioso nascondo il serial killer più sfigato del Paese, perché pochi chilometri più avanti, nel bel mezzo di un’oscura galleria, il bus si ferma per un guasto. Il problema non è però il buio che lo circonda in quel sinistro sottopassaggio, ma colui che nel buio ci abita. Gli studenti hanno però dalla loro la superiorità numerica.
Noleggiabile su Prime Video.
Il legame (2020)
Il legame è il felice debutto alla regia di un lungometraggio di Emanuele De Feudis (alle sue spalle c’è comunque un grande percorso da aiuto regista e un corto di cui parliamo tra poco), prodotto e distribuito da Netflix, altro esempio di una tradizione orrorifica italiana che combatte per tornare in auge, in grado di fondere tradizione e moderno in pellicole dall’alto contenuto tensivo e dal linguaggio cinematografico fresco e coinvolgente.
Francesco torna alla casa dov’è cresciuto insieme alla nuova compagna e la figlia di lei con l’intento di fare una sorpresa alla madre e annunciare le sue nozze imminenti. La casa è fatiscente e l’atmosfera che si respira al suo interno è angosciante, nonostante questo il soggiorno va avanti e i tre avventori trovano (chi più chi meno) il modo di rilassarsi. Tutto però precipita quando la bambina viene punta da tarantola.
Vi ricordate del corto? Ecco, De Feudis riprende da lì la capacità di giocare con l’ambiente e la tensione, riuscendo a donare anche al film un’atmosfera estraniante e, al tempo stesso, suggestiva, ponendo al suo interno due archetipi narrativi del cinema di genere come il microcosmo ostile raccontato da occhi esterni e la presenza del sovrannaturale realistico. L’attenzione particolare riservata alla parte folkloristica/etnografica di un meridione italiano che ben si presta a storie oscure e misteriose, fa pressappoco tutto il resto.
Disponibile su Netflix.
In the trap – Nella trappola (2019)
Per continuare la nostra classifica dei 10 migliori film horror italiani degli anni 2000 andiamo ancora a pescare nella filmografia di Liguori, più precisamente prendendo la sua seconda fatica, un altro horror italiano ambientato in terra straniera (anche se per lo più girato in studio tra Roma e Latina), presentato al Trieste Science+Fiction Festival.
In the trap – Nella trappola ci racconta la prigionia di un giovane correttore di bozze, che da due anni (più o meno) è, suo malgrado, rimasto chiuso dentro la sua abitazione a causa di una forza sovrannaturale che, non solo non gli permette di uscire, ma pare anche divertirsi a torturarlo. Un giorno però il ragazzo si imbatte in una vicina di casa. Tra i due nasce una simpatia e la donna, venuta a conoscenza della situazione, cerca di convincere il giovane che ciò che lo minaccia non è reale, ma è solo nella sua testa. Sarà così o è solo una trappola? (Ops)
Liguori gioca molto con la funzione della casa, ribaltandone il concetto (da accogliente a imprigionante), e a ciò aggiunge un linguaggio tensivo che gioca gran parte della sua riuscita sulla capacità di tenere sospeso lo spettatore in una dimensione in bilico, vissuta tra il reale e il demoniaco. Espedienti classici per un horror claustrofobico.
The Nest (Il Nido) (2019)
Com’è stato per Liguori, torniamo anche da De Feo per il suo fulminante esordio presentato in anteprima al Festival di Locarno 2019, attirando da subito l’interesse di pubblico e critica e per il quale l’autore pugliese si è guadagnato la candidatura come miglior regista esordiente ai Nastri d’argento 2020. Il film è The Nest – Il nido.
In una bellissima villa, accogliente, spaziosa e dall’atmosfera per niente inquietante (giusto qualche spiffero e una lieve tendenza a disciplina e controllo) vive una signora borghese che dedica tutto il suo amore e il suo impegno al figlioletto paraplegico. Il suo amore e il suo impegno si concretizzano nel controllare cosa mangia, quando mangia e l’opportunità dei tempi in cui sceglie se gli vada una porzione di dolce o meno e in altri aspetti di poco conto come cosa dice, chi vede e dove va. Però gli insegna a suonare il piano. Intorno a loro vive una curiosa corte dei miracoli, per nulla inquietante, neanche lei. Tutto cambia quando dall’esterno arriva Denise con i suoi Pixies. Chi dice donna…
Dopo due corti, De Feo arriva al cinema con un film riuscito soprattutto per scelta di casting, atmosfere, location, fotografia e musiche (e vi pare poco), perché, al netto di uno scioglimento intuibile, per tutto il minutaggio si assiste ad una costruzione tensiva, più inquietante che propriamente orrorifica, costante, equilibrata, avvolgente, non scontata e visivamente seducente. Il microcosmo tossico, il tentativo di isolamento, la casa come prigione e poi l’avvento del mondo fuori; tutte figure classiche, la cui particolare combinazione prova, ancora una volta, le potenzialità del genere.
Noleggiabile su Prime Video.
Il signor diavolo (2019)
Punto di snodo a metà della nostra classifica dei 10 migliori film horror italiani degli anni 2000: dopo 5 titoli realizzati da registi debuttanti o semi passiamo ad un altro riconducibile ad uno dei nomi più importanti del cinema italiano degli ultimi 40/50 anni.
Pupi Avati deve molta della sua fortuna cinematografica a drammi e commedie dal retro gusto amarognolo che sono state in grado di descrivere vizi e fallacie umane, parlando di rapporti familiari, amore e amicizia con una rara precisa dolcezza. Eppure tra gli anni ’70 e ’80 il regista bolognese ha dato vita a degli horror che hanno segnato per sempre l’immaginario del genere nel nostro Paese (La casa dalle finestre che ridono e Zeder, tanto per fare due nomi).
A distanza di tanti anni Avati torna ad aggiungere un titolo alla sua lista con Il Signor Diavolo, pellicola dall’atmosfere gotiche, tratta dal romanzo omonimo, sempre scritto da lui, e adattato per il grande schermo insieme a figlio e fratello. La storia si svolge all’inizio degli anni ’50 e segue un funzionario romano inviato in Veneto per risolvere, con tutto il riservo possibile, un caso di omicidio perpetrato ai danni del figlio di una potente signora nobile che da sostenitrice del governo, ora ha qualche risentimento, soprattutto per il legame del partito con il corpo clericale. La sua prima preoccupazione è risolvere la controversia, anche se probabilmente dovrebbe essere che la motivazione del carnefice al suo atto è la convinzione di aver ucciso il diavolo.
Un orrorifico racconto di un terrore di provincia, in grado di catturare il mistero folkloristico con l’ambiguità di un microcosmo in cui nulla è come sembra, intriso di una credenza religiosa che apre le porte ad un minaccioso sovrannaturale che ammette più di quanto sia lecito aspettarsi. In questa terra di umidità, grigiore e verità sussurrate viene invitato un inerme agente esterno, che (come fu per per il restauratore di Lino Capolicchio, presente anche in questo film, nel cult sopracitato) deve destreggiarsi in una dimensione oscura, tra logica e superstizione, dove il diavolo è in grado di nascondersi dove vuole.
Disponibile su Netflix.
Suspiria (2018)
Continuiamo con un altro nome importante, anche se per nulla legato alla tradizione orrorifica italiana, (nonostante il titolo del film abbia un peso leggermente specifico nel genere), ovvero Luca Guadagnino, che nel 2018 decide di prendere Suspiria di Dario Argento e di farne un remake, motivo per il quale qualcuno potrebbe storcere il naso. “Ma come? Una classifica degli horror italiani degli anni 2000 con in mezzo un titolo di più di 30 anni fa? Quanto meno una furbata.”
Per rispondere in modo fresh posso fare riferimento alle parole dello stesso regista siciliano, il quale ha spiegato come il suo sia in realtà un omaggio alla “potente emozione” provata quando vide il film originale. Parafrasando Tilda Swinton posso anche dire che si tratta più di una cover che di un remake. Per rispondere invece in modo pedissequo dirò che la pellicola di Guadagnino ha una dignità assolutamente indipendente dall’originale, nonostante parta ovviamente del materiale, anche concettuale, che ne è alla base. Ne parliamo tra poco ad ogni modo, prima la trama, anche se forse è esercizio superfluo, ma sapete… le regole…
1977, Autunno tedesco. A Berlino giunge Susie Bannon, un’aspirante ballerina americana, per un’audizione nell’accademia di Helena Markos, una delle più prestigiose di tutto il mondo. La sua abilità attira subito l’attenzione di Madame Blanc, una delle insegnanti di rilievo della struttura, con la quale, in un escalation di avvenimenti, si troverà ad avvicinarsi sempre di più. Intanto uno psicoterapeuta con il cuore sanguinante e i capelli bianchi trova opportuno cominciare ad interessarsi di magia oscura dopo la scomparsa di Patricia, sua giovane paziente.
Guadagnino insiste molto sul senso politico tracciato da Argento, decidendo di allargare il discorso sullo scontro tra Vecchio e Nuovo Mondo, rappresentato da America e Vecchio Continente, spostando la storia in una Berlino catturata verso la fine della Cortina di Ferro, ma ancora divisa in Ovest ed Est, situazione specchio di quella all’interno dell’accademia, in procinto di decidere per la tradizione o il rinnovamento. A fare da ponte la figura del dottore (uno dei volti della Swinton, una e trina). Abbandonando dunque la dimensione di magico incubo del primo film, Guadagnino approfondisce il quesito sulla femminilità e, perché no, sulle potenzialità narrative del corpo femminile: patria sacra, madre tossica, angelo demoniaco, terribile speranza. Fa anche paura comunque. Scusate, mi sono lasciato andare.
Disponibile su Prime Video.
The End? L’inferno fuori (2017)
Esordio cinematografico di Daniele Misischia prodotto dai fratelli Manetti (stessa formula per il suo prossimo film, Il mostro della cripta, in uscita ad agosto), The End? L’inferno fuori è un horror del 2017, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma di quell’anno.
Claudio è un uomo d’affari pomposo, pieno di sé, cinico e anche un po’ ignorante. Ne sa qualcosa il suo autista, già comprensibilmente innervosito dal traffico romano. Eppure i suoi modi narcisisti nascono delle miserie in ambiti personali, stavolta basta ascoltare le risposte della sua amante alle sue rinnovate attenzioni. I segnali della giornata non lasciano presagire nulla di troppo buono, ma il giorno è però troppo importante, non c’è tempo per seccarsi con la compagna o infastidirsi per la reazione della segretaria. Tempo, curioso. Di tempo il protagonista ne avrà in quantità una volta rimasto bloccato nell’ascensore. Unico avvenimento veramente fortunato della sua giornata tra l’altro, dati gli ospiti del palazzo.
Facendo riferimento a pellicole dal setting simile, come L’ascensore o The Elevator (sono due film diversi, semplicemente non hanno avuto grande fantasia), Misisichia si diverte a costruire un horror apocalittico ambientato in uno spazio solo, ponendo la macchina sul suo protagonista e non staccandosi più. Una pellicola che gioca molto bene con il genere, divertendosi anche ad estremizzare le rese narrative fino a fondersi con un elemento più comico, partendo proprio dalla destrutturazione e dal capovolgimento della figura di Claudio (c’è pure un filo di splatter). Una storia più ampia raccontata da un punto di vista su misura di una persona.
Noleggiabile su Prime Video.
Oltre il guado (2013)
Horror del 2013, presentato al Taormina Film Festival e tutt’oggi ultimo lungometraggio realizzato da Lorenzo Bianchini, Oltre il guado è il coronamento di un percorso artistico di un autore che è riuscito a trovare un linguaggio orrorifico fortemente legato alla sua terra di origine, il Friuli-Venezia Giulia, che ben si presta per luoghi, dialetto e realtà sociali ad una estraneità magnetica e suggestiva.
La storia racconta della gita fuori porta di un etologo che decide di recarsi in un villaggio abbandonato in mezzo alla natura, dopo aver recuperato dei filmati del luogo effettuati da una camera legata ad una volpe. Arrivato sul posto l’uomo è costretto a guadare un fiume appena prima che un violento e improvviso rovescio si abbatta su di lui. La quantità della pioggia ingrossa però di molto la marea del corso d’acqua, finendo col rendere impossibile al protagonista tornare sui proprio passi. Costretto a rimanere tra i ruderi e le macerie il nostro si accorgerà presto che il fatto che non ci siano più vivi in loco, non esclude che non si possa trovare aggirarcisi comunque qualcuno, o qualcosa, di altro.
Il low budget diventa un elemento determinante nella riuscita di una pellicola che vive di fotografia, ambienti e sonoro. Girato con una visione fortemente minimalista, il film punta sul folklore, sull’orrore come idea e sui silenzi (ci si dimentica facilmente la voce del protagonista talmente poco si ode), spezzati improvvisamente dall’esterno, ospite ambiguo e intriso del, solito, realismo sovrannaturale.
Disponibile su Prime Video.
Shadow (2009)
Chiudiamo la nostra classifica dei 10 migliori film horror italiani degli anni 2000 con Shadow (2009) di Federico Zampaglione (si, il cantante dei Tiromancino). Un diamantino, un oggetto di culto per gli appassionati del genere, girato con un alta sapienza nell’uso della tensione, paradossalmente successivo ad una commedia di un paio di anni prima (per chi si è incuriosito, lavoro ampiamente tralasciabile). Pellicola, tra l’altro, ispirata ad un episodio realmente accaduto al regista e alla sua compagna (ovviamente da contorni meno drammatici).
David, reduce della guerra in Iraq ed esperto biker di alta montagna, decide di riappropriarsi della propria vita intraprendendo un viaggio in bici in solitaria in giro per le sue adorate vette. Durante la traversata di una di questa si imbatte in una donna che si ritrova a dover proteggere dalla violenza di due cacciatori che decidono di prenderli di mira. La situazione degenera e i quattro si ritrovano proprio nei pressi di una zona della montagna da cui gli stessi indigeni sono notoriamente spaventati. Scopriranno presto il motivo.
In quello che sembra, a tutti gli effetti, un omaggio ai film horror italiani anni ’70/’80, ritroviamo diversi degli archetipi del cinema di genere, come il mistero del folklore, la tensione primordiale, la scomodità emotiva del setting e la contrapposizione tra uomo e Natura. Seppur alla fine la storia prenda decisamente una strada diversa rispetto al tono del film e, per certi versi, può addirittura dare un senso di posticcio. Una menzione per la colonna sonora, vincitrice di un Nastro d’argento.
Noleggiabile su Google Play.
Bonus: Il Cartaio (2003)
Poteva il nome di Dario Argento rimanere come semplice evocazione in una classifica del genere? Certamente no, più che per rispettosa devozione direi per puro interesse. Perché se è vero che è complicato trovare una pellicola del maestro inseribile in questa lista, c’è comunque un titolo che può meritare due righe. Un modo per rimanere ancora un po’ attaccati alla tradizione e un po’ per far storcere il naso a tutti voi che leggete.
Il Cartaio racconta la vicenda del killer omonimo, che si diverte ad uccidere le sue vittime seguendo i dettami del (video)poker. La storia inizia dopo il rapimento di una turista inglese e con la telefonata del carnefice stesso, che decide di mettersi in contatto con la polizia per un gioco perverso a carte. L’esito non sarà dei migliori, ma porterà i due agenti a trovare l’aiuto di un profiler irlandese. La cosa più curiosa sarà il ritrovamento di un seme nel corpo della vittima, anche se c’è ben poco tempo per pensarci su.
La pellicola ha mille e più difetti. Personaggi stereotipati, sceneggiatura abbastanza banale, dei tempi non proprio azzeccati nella gestione della tensione (anche se qualcosa da salvare c’è) e un naufragio pressoché totale nello scioglimento. Sulla recitazione non mi tratterrei neanche. Allora perché la scelta di questo film? Perché è bonus? Si, anche, ma soprattutto perché ci mostra un Argento che tenta di uscire dai canoni dei suoi film, sperimentando un linguaggio non consueto, soprattutto in campo visivo, e avventurandosi coraggiosamente su un terreno a lui ostico già nel momento di massimo splendore e all’epoca del film non più neanche praticabile. Argento inedito, per chi vuol provare.
Incluso con Infinity su Prime Video.
Vi rinnoviamo infine l’invito per l’appuntamento con They Talk, la nuova fatica di Giorgio Bruno, disponibile al cinema dal 28 luglio con Vision Distribution.