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Rifiuti Spaziali: cosa viaggia nello spazio?

Quando si formò il sistema solare, frammenti di roccia e ghiaccio crearono corpi di varie dimensioni e i più grandi divennero poi pianeti. Alcuni frammenti rimangono oggi sotto forma di meteoroidi, asteroidi e comete che talvolta cadono sulla Terra. Oltre a questi frammenti ci sono milioni di oggetti artificiali che vagano nello spazio.

Forse non tutti sanno che il problema “rifiuti” c’è anche nello spazio: possiamo quindi parlare di spazzatura spaziale? assolutamente sì, la spazzatura spaziale è composta principalmente da rifiuti o, meglio, da detriti abbandonati in orbita.

Con le espressioni detriti spaziali, detriti orbitali, spazzatura spaziale o rottame spaziale si indica tutto ciò che orbita attorno alla Terra, creato dall’uomo e non più utile ad esso.

Ricadono in questa definizione ovviamente gli stadi dei razzi lanciatori, frammenti di satelliti, polveri, materiale espulso dai motori dei razzi, liquido refrigerante rilasciato dal satellite nucleare RORSAT ed altre piccole particelle (se parliamo di solo quelle artificiali). Come abbiamo detto molti detriti “artificiali” vengono prodotti dal disuso di satelliti in orbita, da sonde, pannelli solari, razzi, frammenti, parti di navicelle o utensili andati perduti durante missioni spaziali.

Alcuni detriti invece si trovano in orbita bassa, vicini alla Terra, e “ricadono” dissolvendosi il più delle volte con l’impatto con l’atmosfera. Altri, invece, sono troppo lontani per rientrare sulla Terra e rimangono in orbita per moltissimi anni.

Ad oggi il livello di questi detriti nello spazio sembra ammontare a più di ottomila tonnellate.

(siamo dei fenomeni per quanto riguarda la produzione dei rifiuti)

Giusto per dare qualche numero: 25.000 satelliti, pezzi di satelliti, portelloni, razzi, pezzi di astronavi, propulsori, pezzi di propulsori e rottami spaziali di ogni genere continuano a orbitare sopra le nostre teste.

È stato scoperto uno strato di rottami che si estende tra le 200 e le 500 miglia nei nostri cieli, detriti prodotti dalle missioni spaziali umane di cui nessuna agenzia e nessun governo ha intenzione di occuparsi. Un dato abbastanza allarmante se consideriamo soprattutto le nuove missioni che da qui al 2030 ci vedranno protagonisti di nuovo alla conquista dello spazio.

Ma cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sui vari tipi di “rifiuti spaziali” e specificare che ci sono effettivamente anche rifiuti “naturali” che invece possono creare soltanto della nuova materia.

Meteoroidi

I meteoroidi sono frammenti di asteroidi o comete. Questi piccoli corpi rocciosi o metallici hanno in genere le dimensioni di un granello di sabbia o di un ciottolo, ma possono raggiungere la grandezza di un metro di diametro.

Quelli che attraversano l’atmosfera di un pianeta, diventando incandescenti nella caduta, sono detti meteore, mentre i frammenti che riescono a raggiungere il suolo sono i meteroiti.

Fra il 90 e il 95% delle meteore brucia del tutto durante il passaggio nell’atmosfera terrestre.

Per la Terra, le velocità di ingresso in atmosfera dei meteoroidi appartenenti al Sistema solare sono comprese fra gli 11,2 e i 72,8 km/s. L’attraversamento dell’atmosfera normalmente distrugge totalmente il meteoroide lasciando come residui solo polveri meteoritiche, che cadono molto lentamente verso il suolo in tempi dell’ordine dei giorni/settimane.

La loro luminosità in cielo è dovuta più alla velocità di transito che alle dimensioni. Ricordiamo anche che quando le meteore cadono diventano così calde che lo strato esterno evapora o al più si stacca per ablazione.

Asteroidi

Gli asteroidi sono oggetti rocciosi o metallici che ruotano attorno al Sole, situati principalmente fra le orbite di Marte e di Giove nella cosiddetta fascia degli asteroidi. Gli asteroidi composti per la maggior parte di ghiaccio sono conosciuti invece come comete. Alcuni asteroidi sono il residuo di vecchie comete, che hanno perso il loro ghiaccio nel corso di ripetuti avvicinamenti al Sole, e sono adesso composti per lo più di roccia.

Per quanto riguarda la grandezza la maggior parte degli asteroidi ha un diametro inferiore a un chilometro, ma alcuni (come il pianeta nano Cerere) superano i 100 km di diametro ed esercitano un’attrazione gravitazionale importante. Dato che parliamo di gravità è proprio quella del pianeta Giove che impedisce agli asteroidi di unirsi e formare altri pianeti.

I detriti artificiali

I detriti spaziali come abbiamo specificato comprendono sia meteoroidi naturali che detriti orbitali artificiali. I meteoroidi sono in orbita attorno al sole, mentre la maggior parte dei detriti artificiali è in orbita attorno alla Terra motivo per cui sono chiamati orbitali.

I detriti spaziali costituiscono un pericolo per i viaggi e per la permanenza nello spazio. Dobbiamo considerare infatti che anche il più piccolo pezzo, come una scaglia di vernice, può essere pericoloso e può danneggiare un satellite o un veicolo spaziale. La crescente popolazione di detriti spaziali aumenta il potenziale pericolo per tutti i veicoli spaziali, inclusa la Stazione Spaziale Internazionale e altri veicoli spaziali con umani a bordo, come la Crew Dragon di SpaceX.

Qualche numero

Spesso sono proprio i detriti orbitali di dimensioni millimetriche quelli che rappresentano il più alto rischio di fine missione per i veicoli spaziali che operano nell’orbita terrestre bassa.

Ci sono circa 23.000 pezzi di detriti più grandi di una palla da baseball in orbita attorno alla Terra. Viaggiano a velocità fino a circa 28.000 km/h, e sono abbastanza veloci da consentire a un pezzo relativamente piccolo di danneggiare un satellite o un veicolo spaziale.

Se andiamo sempre a sviscerare numeri, ricordiamo che ci sono mezzo milione di pezzi di detriti delle dimensioni di una biglia o più grandi fino ad un centimetro e circa cento milioni di pezzi di detriti di circa un millimetro. Ci sono poi detriti ancora più piccoli di dimensioni micrometriche.

Attualmente circa 27.000 oggetti, ufficialmente catalogati, sono in orbita e la maggior parte di essi è di 10 cm o più. Utilizzando speciali sensori a terra e ispezioni delle superfici satellitari, la NASA determina statisticamente l’estensione della popolazione per oggetti di diametro inferiore a 10 centimetri.

 

I rischi di collisione

I rischi di collisione sono suddivisi in tre categorie a seconda dell’entità della minaccia. Per oggetti di dieci centimetri o più, le valutazioni di congiunzione e le manovre di prevenzione delle collisioni sono efficaci nel contrastare gli oggetti che possono essere tracciati dallo Space Surveillance Network, la rete di sorveglianza spaziale degli Stati Uniti che rileva, traccia, cataloga e identifica gli oggetti artificiali in orbita attorno alla Terra.

Gli oggetti più piccoli di solito sono troppo piccoli per essere tracciati per valutazioni di congiunzione e per evitare collisioni. Ci sono poi gli schermi di cui sono dotati le navicelle e i satelliti che possono essere efficaci nel resistere agli impatti di particelle inferiori ad un centimetro.

Nel 2001 il rientro della stazione spaziale MIR fece molto discutere e pose l’attenzione su un problema spesso ignorato almeno fino a quel momento. Lanciata il 20 febbraio 1986 nello spazio la stazione fece il suo rientro distruttivo programmato in atmosfera il 23 marzo 2001. La stazione spaziale orbitante russa ha visto il passaggio di più di cento astronauti di tutto il mondo ed è rimasta in orbita per ben quindici anni.

Il programma di caduta verso la Terra era stato calcolato e previsto dal Centro di Controllo della missione di Mosca.

Grazie a tre accensioni dei retrorazzi frenanti dell’ultima navicella di trasporto del tipo Progress che era rimasta agganciata alla stazione spaziale, venne avviata la manovra di rientro. Il rientro calcolato prevedeva che la stazione bruciasse a contatto con l’atmosfera, ma la preoccupazione di alcuni Stati interessati dal percorso di caduta era molto forte. La maggior parte della stazione per fortuna si è fusa e le ultime parti e componenti metalliche che non si erano consumate mentre rientravano in atmosfera precipitarono nella zona precedentemente calcolata nelle acque del sud dell’Oceano Pacifico.

La MIR sarebbe stata soppiantata dalla Stazione Spaziale Internazionale e mantenerla in uso era abbastanza costoso, quindi si è deciso di dismetterla.

Si decise così di farla disintegrare nell’atmosfera e di farla cadere in modo controllato per evitare che lo facesse per conto proprio senza la possibilità di prevedere dove sarebbero caduti i vari detriti.

L’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, già allora si fece portavoce di questo problema. Era necessario ci fosse un accordo che riconoscesse il problema dei detriti spaziali come uno dei problemi che riguardano tutta l’umanità e che quindi fosse regolamentato di conseguenza. L’idea era quella di convincere i vari paesi, sopratutto Russia e USA, a prendere i provvedimenti per evitare il più possibile la diffusione di detriti spaziali.

Nel suo piccolo ESA, pur essendo responsabile di una piccola percentuale dei detriti, già prendeva provvedimenti scegliendo di far rientrare i satelliti al termine della loro vita operativa in modo da provocarne la totale distruzione, oppure facendo in modo di spingerli verso orbite molto alte in modo da lasciare spazio ad altri satelliti. Tra queste soluzioni poi sempre ESA puntava a svuotare sistematicamente i serbatoi dei razzi così che una volta che questi avessero svolto il loro compito si sarebbero ridotte al minimo le conseguenze e in caso di impatto si sarebbe potuto ridurre il numero di detriti spaziali.

La NASA nel frattempo istituì le pratiche standard di mitigazione dei detriti orbitali del governo degli Stati Uniti (ODMSP) per affrontare il problema dell’aumento dei detriti orbitali.

Un sistema nato con l’obiettivo di limitare la generazione di nuovi detriti controllando quelli rilasciati durante le normali operazioni, ridurre al minimo i detriti generati da esplosioni accidentali, selezionare il profilo di volo sicuro e la configurazione operativa per ridurre al minimo le collisioni accidentali. Il Debris Program Office (ODPO) situato presso il Johnson Space Center ancora oggi continua a sviluppare tecniche e misure da adottare per limitare la crescita dei detriti.

Con l’aggiornamento del 2019 il protocollo incluse migliorie agli obiettivi originali, chiarimenti e pratiche standard aggiuntive per alcune classi di operazioni spaziali con il fine di promuovere pratiche di sicurezza spaziale efficienti ed efficaci anche per altri operatori nazionali e internazionali.

Il problema è che le collisioni con i detriti possono portare a scoppi e alla produzione di altri detriti, generando così un problema a catena come lo scenario descritto dalla sindrome di Kessler.

 

La sindrome di Kessler

Era il 1978 quando lo scienziato della NASA Donald J. Kessler ipotizzò uno scenario alquanto inquietante. La presenza di detriti in orbita bassa intorno alla Terra porta a delle collisioni ed ogni collisione può generare altri detriti creando una reazione a catena incontrollata di collisioni e di aumento del volume dei detriti stessi.

Questo scenario è noto come sindrome di Kessler dal nome dello scienziato che per primo ha proposto il problema, ed è noto anche come cascata collisionale (collisional cascading).

L’attenzione della NASA sul problema di queste reazioni a catena si pose per la prima volta negli anni ’70 quando i razzi Delta abbandonati in orbita hanno iniziato a esplodere creando nuvole di schegge.

La conseguenza diretta se si realizzasse questo scenario è che l’aumento del numero di detriti in orbita renderebbe impossibile per molte generazioni l’esplorazione spaziale e anche l’uso dei satelliti artificiali.

Kessler infatti dimostrò che una volta che la quantità di detriti in una particolare orbita raggiunge la massa critica inizia una catena di collisioni. Una reazione che una volta iniziata aumenterebbe il rischio per i satelliti e i veicoli spaziali fino al punto in cui l’orbita diventerebbe inutilizzabile.

In un articolo del 2016 la NASA riportava che secondo le previsioni di Kessler ci sarebbero voluti dai trenta ai quarant’anni per raggiungere una tale soglia, ma alcuni esperti già ritenevano che si era già giunti alla massa critica nell’orbita terrestre bassa a circa 900 – 1.000 chilometri.

Per ora i viaggi nello spazio e il lancio dei satelliti non si è fermato, ma è chiaro che con l’aumento del numero di satelliti in orbita e la presenza dei vecchi apparecchi obsoleti e non operativi il rischio di uno scenario come quello della sindrome di Kessler cresce di continuo. All’altezza delle orbite basse che sono quelle più usate, la resistenza residua dell’aria produce la combustione degli oggetti in caduta, una situazione che aiuta quindi a mantenere sgombra questa area. Le collisioni che avvengono a queste altitudini di conseguenza non costituiscono un problema dato che la perdita di energia nella collisione portano i frammenti ad orbitare al di sotto di questa quota.

Ad altitudini superiori invece la persistenza dei rifiuti prima del decadimento dell’orbita risulta molto maggiore.

Come e dove finiscono i rifiuti spaziali?

In un futuro ormai non troppo lontano potremmo ritrovarci nel 2075 a bordo del Toy Box a raccogliere rifiuti spaziali.

Come lo ha rappresentato Makoto Yukimura nel suo manga fantascientifico Planetes, con una cura nei dettagli e una rappresentazione realistica della vita nello spazio.

Gli appassionati di fumetto lo sanno e magari i curiosi si appassioneranno alla storia dei protagonisti che vivono tra il 2075 e il 2080 quando la Luna è una stazione permanente e punto di partenza per la colonizzazione di Marte e degli altri pianeti del Sistema Solare.

Il comandante della nave Fee Carmichael insieme Yuri Mihalkov e  Hachirota Hoshino durante il loro lavoro si trovano a fronteggiare un attacco del Fronte per la difesa stellare. Il Fronte per la difesa stellare è un gruppo terroristico che mira a provocare la sindrome di Kessler per impedire all’uomo di continuare ad espandersi nello spazio. Il comandante dovrà sacrificare la DS-12 , nota come Toy Box, per far cambiare rotta ad un satellite dirottato dal gruppo terroristico che avrebbe potuto creare delle collisioni a catena.

Una storia che poi tanto fantascientifica forse non è. Con il passare del tempo il problema dei detriti ha chiaramente assunto una rilevanza globale. Oltre all’ESA anche il Dipartimento di meccanica e ingegneria aerospaziale dell’Università di Kyushu in Giappone nel 2015 aveva iniziato a lavorare alla definizione di un modello teorico della distribuzione dei detriti e allo sviluppo di sensori ottici per la scansione dei pannelli solari dei satelliti e per rilevare segni di impatti.

Nel dicembre del 2019 poi l’ESA commissiona la prima rimozione dei detriti spaziali al mondo grazie al progetto ClearSpace-1.

Sulla base del nuovo programma di Sicurezza Spaziale, con questa missione l’agenzia si pone l’obiettivo di contribuire attivamente a ripulire lo spazio.

Questo è il momento giusto per questo tipo di missione. La questione dei detriti spaziali è più urgente che mai. Oggi abbiamo circa 2.000 satelliti attivi nello spazio ed oltre 3.000 non funzionanti.

E nei prossimi anni il numero di satelliti crescerà con un ordine di grandezza, con mega-costellazioni multiple composte da centinaia o addirittura migliaia di satelliti progettati per l’orbita terrestre bassa per fornire telecomunicazioni e servizi di monitoraggio ad ampia copertura e bassa latenza.

È evidente la necessità che un carro attrezzi rimuova i satelliti non operativi da questa regione altamente trafficata.

ha dichiarato Luc Piguet, fondatore e Amministratore di ClearSpace.

La start-up svizzera ClearSpace è una società fondata da un gruppo di ricercatori esperti di detriti spaziali con sede nell’istituto di ricerca Ecole polytechnique fédérale di Losanna.

La ClearSpace-1 sarà una missione di test che dispiegherà in orbita un satellite dimostrativo con lo scopo di testare le tecnologie per il rendez-vous, la cattura e il rientro dei satelliti giunti al termine della loro vita e la spazzatura spaziale. Il satellite sarà fatto rientrare e l’impatto distruttivo eliminerà sia i satelliti catturati che lo stesso ClearSpace-1.

Il progetto utilizza una rete pieghevole che si allinea e poi si richiude su un satellite.

La missione viene acquisita da ESA come un contratto di servizio per aiutare a stabilire un nuovo mercato per i servizi di manutenzione in orbita così come della rimozione di detriti.

 

Articolo scritto a quattro mani con Margherita Farella.

 

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