La recensione di La Terra dei Figli, film di Claudio Cupellini (Gomorra – La Serie) tratta dal graphic novel di Gipi, è un compito arduo per chiunque sia appassionato dell’opera originale.
Sì, perché da una parte c’è una pellicola di ottima fattura, originale e coinvolgente, qualcosa che raramente si vede nel cinema italiano; dall’altra c’è un’opera a fumetti che con la sua potenza minimalista ha trionfato al festival fantascientifico Utopiales e ha vinto il Grand prix de la critique al festival internazionale di Angoulême.
Confrontare le due opere potrebbe essere esercizio sterile: il film di Claudio Cupellini rispetta quasi totalmente il lavoro di Gipi, tanto che gran parte delle tavole disegnate possono essere considerate come uno storyboard.
Sono stati però operati dei cambiamenti sostanziali che rendono la storia del film differente e peculiare.
Diciamolo subito in apertura della nostra recensione di La Terra dei Figli: il film è assolutamente da vedere al cinema, un po’ perché è un prodotto visivamente curatissimo e ricco di dettagli, un po’ perché operazioni del genere sono rare nel cinema italiano e merita di essere premiato con un grande sostegno.
Per chi non conoscesse l’opera originale, ecco la sinossi:
La fine della civiltà è arrivata. Non sappiamo come. Un padre e suo figlio, un ragazzino di quattordici anni, sono tra i pochi superstiti: la loro esistenza, su una palafitta in riva a un lago, è ridotta a lotta per la sopravvivenza. Non c’è più società, ogni incontro con gli altri uomini è pericoloso. In questo mondo regredito, il padre affida a un quaderno i propri pensieri, ma quelle parole per suo figlio sono segni indecifrabili. Alla morte del padre, il ragazzo decide di intraprendere un viaggio verso l’ignoto alla ricerca di qualcuno che possa svelargli il senso di quelle pagine misteriose. Solo così potrà forse scoprire i veri sentimenti del padre e un passato che non conosce.
Dunque ci troviamo di fronte ad un film post-apocalittico ambientato in un’Italia grigia, umida, nebbiosa, dove pochi sopravvissuti vivono lontani dagli altri, guardandosi con sospetto.
Un mondo che vediamo a pezzi, spesso microscopici: tanto è vero che ogni nucleo umano che incontriamo vive in modo autonomo e si muove solo – controvoglia – per necessità.
Ci sono un padre (Paolo Pierobon) e un figlio (Leon de La Vallée aka Leon Faun), che abitano in una palafitta in mezzo ad un lago, dal rapporto conflittuale e severo, che vivono solo grazie ad estrema cautela e relazioni limitatissime con il mondo esterno.
I loro “vicini di casa”, raggiungibili solo dopo minuti di traversata del lago in barca sono Aringo (Fabrizio Ferracane), uno scorbutico nostalgico del passato e “La Strega” (Valeria Golino), una donna cieca ed enigmatica.
Tutto è destinato a cambiare in seguito ad alcuni avvenimenti inaspettati, e il figlio, a cui è stato insegnato a scuoiare animali ma non a leggere, dovrà cercare di capire cosa contiene il misterioso quaderno a cui il padre si dedicava ogni sera.
Un’impresa che richiede di affrontare il mondo esterno, un mondo che non ha mai visto e che potrebbe dimostrarsi una trappola mortale… per colpa dello stesso genere umano sopravvissuto.
Un’opera di alto livello per una fine del mondo mai vista
La fine del mondo è arrivata e non è come ce l’aspettiamo.
Con un mood molto rarefatto, quasi disperato, Claudio Cupellini porta sullo schermo un’umanità allo stremo, inondata dall’acqua e dalla nebbia, preda della paura e della diffidenza.
Una fotografia spettacolare e dei colori desaturati trasformano il delta del Po in uno squarcio d’Italia che potrebbe essere ovunque, e dove la vita non sorride a nessuno.
Leon de La Valée è bravo a infondere rabbia e carattere selvaggio al suo personaggio, così come Paolo Pierobon ci regala un padre duro per necessità, scontroso per amore, condannato a crescere un ragazzino preparandolo al peggio.
Valeria Golino mette la sua recitazione al servizio della “strega”, un personaggio forse depotenziato rispetto al fumetto, ma ugualmente fondamentale per il cammino del ragazzo.
Un plauso particolare a Maria Roveran, nel ruolo fisicamente più difficile (chi ha letto il fumetto può intuire) e delicato: una prova importante che la giovane e promettente attrice porta a casa con successo.
Il cast è certamente importante ai fini della riuscita della pellicola, ma anche le musiche originali composte da Motta non sono da meno: l’atmosfera che si respira è azzeccata ed evocativa.
Il classico “viaggio” del personaggio è qui un’odissea di formazione che insegna al ragazzo a non fidarsi di nessuno, ma al tempo stesso anche di non perdere la speranza nell’umanità che in fondo alberga ancora anche negli individui più provati dalla vita.
Dire di più sarebbe spoiler, quindi dovrete vederlo da soli…
Apocalisse tricolore dalla pagina allo schermo
L’inconfondibile tratto di Gian Alfonso “Gipi” Pacinotti ci trasportava in un’Italia selvaggia e in rovina ma dai contorni quasi favolistici nella sua brutalità: non è un caso che alcuni personaggi siano caricaturali e sopra le righe, riuscendo però magicamente a mantenersi credibili e in linea con la sottile critica sociale dell’autore.
Nella pellicola di Cupellini si fa piazza pulita degli aspetti più grotteschi e fantascientifici per puntare ad un realismo quasi esasperato: ecco che ad esempio i fratelli Testagrossa non sono più letteralmente dei mutanti macrocefali ma due uomini di mezza età fisicamente quasi “a posto”.
Anche nell’ultima parte, quella più drammatica, si è scelto di cancellare del tutto l’aspetto della neo-religione e persino del linguaggio tribale distorto dallo “stile social media”: una scelta ponderata, perché avrebbe cozzato troppo con il tono dell’opera cinematografica.
Certo, spiace per l’assenza di questi aspetti che sicuramente stavano a cuore a Gipi, ma il film decide di puntare molto di più al “cuore” della storia, quel quaderno dove il padre ha deciso di racchiudere, forse per nessun altro, i suoi ricordi sul mondo passato e i suoi sentimenti per il figlio.
Una scelta che rende il racconto più compatto e lineare, forse meno spettacolare e graffiante, ma comunque forte: in questo senso, l’interpretazione di Valerio Mastandrea nei panni del boia, il misterioso cacciatore solitario, riesce a regalare emozioni forse più della sua controparte stilizzata su carta.
E proprio per questa volontà di andare dritti al punto probabilmente si è scelto il cambiamento più radicale, quello di cambiare il numero dei “figli” protagonisti: laddove nel fumetto la storia era quella di due fratelli, diversi ma complementari, qui la scena è riservata a uno solo di loro, quello più impulsivo e risentito nei confronti del padre.
Decisione che alla luce di quello che vediamo, e del finale modificato ad hoc – che ovviamente non vi diciamo! – dona al titolo stesso dell’opera una luce diversa, forse più ottimista e meno disperata.
In conclusione della nostra recensione di La Terra dei Figli, il consiglio è uno solo: andate al cinema a godere di questo film coraggioso e potente, e poi se non lo avete ancora fatto leggete l’opera di carta edita da Coconino Press.
La Terra dei Figli è un film che unisce coraggio e voglia di sperimentare, prendendo un grande fumetto e trasformandolo in qualcosa di leggermente diverso ma unico nel panorama del cinema italiano. Reparto tecnico di ottimo livello e interpretazioni puntuali regalano emozioni che lasciano il segno in un panorama nazionale che ha bisogno di pellicole come queste.
- Graphic novel di Gipi rispettato e rielaborato per rendere il film qualcosa di unico e complementare
- Regia di Cupellini molto suggestiva
- Interpretazioni molto sentite da parte del cast
- Atmosfera molto rara nel nostro panorama cinematografico
- Rappresentazione di un'Italia post-apocalittica spietata e senza compromessi
- Alcuni cambiamenti effettuati nel passaggio fumetto-film potrebbero non andare giù agli appassionati dell'opera di Gipi
- Mood triste e disperato che potrebbe spiazzare alcuni spettatori