Dopo quattro anni di dibattiti, i Paesi del G7 hanno trovato una quadra con cui strutturare una tassa minima che andrà a influenzare molto da vicino le Big Tech, le quali stanno sempre più finendo nel mirino dei Governi di tutto il mondo. Tenendo conto della portata dell’aliquota in questione, non si tratta di una svolta particolarmente audace, ma comunque di un avvenimento storico.
Come spesso capita in questi contesti, un ruolo da leoni lo hanno avuto gli Stati Uniti, i quali hanno di fatto guidato le trattative tra le nazioni coinvolte per partorire infine l’idea di una “corporate tax” universale che parta dal 15 per cento. Una percentuale non particolarmente coraggiosa, soprattutto se si considera che inizialmente si era parlato del 21 per cento, ma digeribile a molti.
Per realizzare il suo pieno potenziale, il progetto dovrà quindi essere accolto dai Paesi del G20, cosa che potrebbe effettivamente dimostrarsi più complessa. Diversi Governi potrebbero trovarsi nella posizione per cui la standardizzazione dei costi vada a demerito della loro “concorrenzialità” sul mercato, ovvero li spingerebbe a non essere più in grado di attrarre le multinazionali con dei prezzi stracciati.
Stando a quanto fatto trapelare dal Tesoro britannico, la tassa minima avrà ramificazioni particolarmente degne di nota per le Big Tech, poiché “le maggiori imprese globali, con margini di profitto di almeno il 10%, vedranno il 20% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocato e tassato nei Paesi dove effettuano vendite”. Altresì non è ancora chiaro come verranno calcolati i guadagni delle aziende internettiane nelle varie nazioni.
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