Una “variante indiana” di coronavirus sta emergendo nel mondo? Si, ma la cosa non piace affatto all’India, la quale, più che preoccuparsi della cosa in sé, trova sgradevole che la sua nazione venga ricollegata direttamente alla malattia e pretende che tutti i social media rimuovano ogni post che ne menziona l’esistenza.

Il documento girato a Facebook, Twitter e omologhi sostiene, non a torto, che il definire una variante del virus in base al Paese di rilevazione sia contrario alle linee guida fornite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e che quindi il ramo dovrebbe essere chiamato con il suo nome tecnico: B.1.617.

L’esistenza di una variante indiana, sostiene il Governo Modi “è completamente FALSA”, in quanto non tecnicamente puntuale, pertanto dovrebbe essere annoverata tra la disinformazione/misinformazione e, in quanto tale, ci si aspetta sia debellata dalla Rete.

Il caso solleva un ennesima situazione insidiosa per i giganti del web: da una parte, la richiesta dell’India è formalmente ineccepibile, dall’altra è innegabile che vi sia la convenzione di citare le varianti con la loro etichetta geografica. Un po’, inutile negarlo, perché aiuta a fare audience, un po’ perché è legittimamente complesso il ricordare delle sigle alfanumeriche.

Ovviamente la Cina non ha mancato di sibilare veleno. I rapporti tra Cina e India sono infatti tutt’altro che semplici e non di rado le due parti si contendono i confini a manganellate, occasionalmente ci scappa qualche morto, quindi non sorprende che il Paese comunista abbia colto l’occasione per ingiuriare il vicino sottolineandogli la sua tendenza a tenere in considerazione la faccenda pandemica con due pesi e due misure: l’India ha sempre sottolineato che il virus sia nato in Cina e ora la Cina non manca di sottolineare che l’India ha generato una variante.

 

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