Smart Clothing: abbigliamento per un futuro tech e cyberpunk

Nel 1989 la trilogia de Ritorno al futuro ci aveva promesso, tra le altre, scarpe autoallaccianti, indumenti capaci di ridimensionarsi in base alle necessità e capi d’abbigliamento in grado di tornare asciutti in pochi attimi. I lungometraggi erano inoltre accompagnati da una squisita estetica tech decisamente over-the-top, palesemente figlia di una visione del futuro plagiata dalle mode degli anni ‘80. Sfortunatamente quasi nessuna delle previsioni stilistiche offerte dal classico cinematografico si è avverata, almeno non nel campo della larga distribuzione.

Esistono infatti progetti in corso di ricerca e prodotti segregati all’interno di nicchie di mercato che non stonerebbero affatto in un universo sci-fi, qualora riuscissero a diventare d’uso comune. Questi strumenti integrerebbero la tecnologia nella nostra esistenza al punto che nessuno si troverebbe mai più a guardare uno smartphone, visto che saremmo tutti coperti da capo a piedi da device pronti a soddisfare ogni nostra necessità.

Ecco una selezione di capi d’abbigliamento tech che potrebbero rivoluzionare la vita ai Marty McFly del futuro, magari aggiungendovi pure dei genuini toni cyberpunk offerti dall’ibridazione tra uomo e macchina.

Il Jacquard di Google

Il futuristico non dev’essere necessariamente collocato in un’ipotetico futuro remoto. Google ce lo dimostra con una semplicissima idea che, a ben vedere, potrebbe tecnicamente già essere implementata senza grandi problemi della nostra quotidianità: Jacquard.

Richiamando esplicitamente l’omonimo telaio di tessitura, il progetto vuole già a partire dal suo stesso nome far capire come elettronica e indumenti possano diventare con poco sforzo un unico elemento, “intessendo” tra di loro un rapporto tanto stretto da finire con l’esistere simbioticamente.

Alcuni, tra le altre, potrebbero aver già visto Jacquard in azione: durante una TED talk del 2019, il relatore Ivan Poupyrev ha continuato per tutta la presentazione a toccarsi un lembo della giacca di jeans, un “tic” che si è presto scoperto essere null’altro se non il suo modo per far avanzare le slide alle sue spalle. Il capo d’abbigliamento, infatti, conteneva al suo interno un circuito che di fatto si sostituiva ai cosiddetti clicker, evitando all’uomo la presenza di un oggetto che alcuni considerano ansiogeno.

Ivan Poupyrev in giacca di jeans.

Ivan Poupyrev presenta il suo abbigliamento di jeans hi-tech.

Nel senso più banale e immediato, Jacquard funziona come una versione discreta e mimetica del – ahimè fallimentare – Dash Button di Amazon, ovvero funziona componendosi di minuscoli circuiti preprogrammati per eseguire una funzione ben definita.

Le possibilità sono virtualmente infinite: attivare un assistente vocale, rispondere alle chiamate, inviare una chiamata verso un numero rapido, far partire un cronometro, impostare dei punti di interesse sul GPS e così via. Ovviamente nulla impedisce che in uno stesso indumento siano intessuti diversi sistemi, ovvero che si possano indossare dei “device” multifunzione.

L’eventuale diffusione di Jacquard stravolgerebbe i concetti quali “giacca da lavoro” o “tuta da ginnastica”, con i completi che inizierebbero progressivamente ad assumere una dimensione situazionale predominane. Ci troveremmo, insomma, a scegliere cosa indossare anche in base alla sua funzione tecnologica.

Google sta correntemente testando questo suo nuovo strumento presso la struttura Champions Place ad Atlanta, permettendo a giovani persone diversamente abili di controllare direttamente attraverso loro vestiti una serie di funzioni più o meno importanti, dalle chiamate d’emergenza alla selezione dei brani musicali della propria playlist.

Le scarpe traccianti

Che servirebbe mai una scarpa con un sensore GPS installato nella suola, in un’epoca in cui chiunque ha un cellulare con Google Maps in tasca? Semplice, servirebbe a tenere traccia di tutti coloro che potrebbero finire con il perdersi, ma senza che questo controllo appaia invadente.

Le insidie di un simile sistema sono evidenti, ma le intenzioni originali sono tutt’altro che sospette. Il progetto, che è stato concretizzato senza troppe fanfare, è infatti scaturito nel 2009 per idea della GTX Corp., un’ azienda specializzata in prodotti miniaturizzati per il tracciamento GPS, per venire incontro a parenti e centri clinici che faticavano a monitorare i pazienti affetti da Alzheimer.

Il prodotto, sviluppato con un professore della George Mason University e fabbricato dall’azienda calzaturiera Aetrex, si poneva come stratagemma discreto con cui badare a quei soggetti che si sentono soffocati dalle premure di infermieri e familiari, considerandole eccessive e soffocanti.

Le scarpe non sono ora più in commercio, ma solo perché il progetto è ulteriormente evoluto e ora il GPS viene direttamente installato in delle “SmartSole” che possono essere adagiate sul fondo di qualsiasi calzatura.

smartsole

Con SmartSole lo stile va in secondo, se non in terzo, piano.

C’è tuttavia chi può avere il problema opposto e che vorrebbe mantenere traccia dei suoi movimenti senza essere in possesso di una connessione GPS. In questo senso esiste un progetto, purtroppo mai realizzato, dell’Università della Carolina del Nord, la quale ha lavorato a delle scarpe contenenti al loro interno un’unità inerziali di misurazione (IMU) capace di calcolare la forza di accelerazione e decelerazione di ogni singolo passo compiuto.

Si tratta di un accessorio “radar” pensato come un sostitutivo high-tech delle briciole che Hansel e Gretel hanno favolisticamente adoperato per ritrovare la propria dimora. Ogni singolo passo creerebbe infatti un tracciato di movimento e velocità con cui tenere sott’occhio il percorso lasciatosi alle spalle.

Pensato per coloro che esplorano caverne, tunnel, fitte boscaglie o altri posti privi di servizi satellitari, questi device IMU permetterebbero alle persone smarrite di tornare sui propri passi, così da poter raggiungere nuovamente il loro punto di partenza e, si auspica, un luogo dotato di una copertura telefonica migliore.

Abiti digitali

Rimanendo nella sfera favolistica, molti ricorderanno I vestiti nuovi dell’imperatore, fiaba danese nel cui il titolare sovrano, truffato da un sarto incredibilmente convincente, si presenta nudo davanti ai suoi sudditi, convinto di star vestendo un abito quanto mai raffinato. Ebbene, una scena simile sarebbe oggi ancora più verosimile, vista l’esistenza degli indumenti digitali.

Nel 2018, la casa di moda norvegese Carlings ha infatti lanciato la sua prima collezione interamente virtuale: 19 capi d’abbigliamento in vendita da 9 a 35 euro sotto forma di modelli 3D da “photoshoppare” sul corpo dei clienti. Dopo aver effettuato l’acquisto, gli utenti inoltravano all’agenzia di moda un proprio scatto e questi vi costruivano sopra l’immagine finita.

Fu un successo disarmante, ma soprattutto fu un fenomeno in grado di arginare gli impatti nefasti del fast fashion, offrendo ai compratori la possibilità di dimostrarsi l’appartenenza a uno stile trendy senza che questi dovessero indugiare in un consumismo distruttivo e modaiolo.

A partire dall’anno seguente, Carlings ha compiuto un ulteriore passo verso la digitalizzazione dei capi d’abbigliamento: ha creato delle magliette su cui può potenzialmente proiettare in realtà aumentata potenzialmente ogni genere di illustrazione.

La AR è in effetti la strada su cui stanno puntando molti di coloro che hanno a che fare con il mondo tech e sempre più aziende sembrano pronte a partorire nuove idee che respirino questo posizionamento a metà tra fattuale e digitale.

Un esempio d’alto profilo ci viene fornito da Gucci, noto brand di moda che ha sviluppato per le proprie calzature un sistema try-on su base Snapchat con cui gli utenti possono vedersi addosso le ambite scarpe griffate.

Non solo, con il progetto The Gucci Virtual 25, l’azienda ha recentemente iniziato a sviluppare un nuovo fenomeno, quello del collezionismo di moda puramente digitale. Gucci ha infatti messo in commercio delle sneakers virtuali per cui non è prevista, a oggi, la fabbricazione fisica.

Una simile strategia è forse un azzardo, tuttavia se c’è un settore di mercato in cui questa manovra potrebbe attecchire è proprio quello degli aficionados di scarpe da ginnastica. La sottocultura di questo genere di compratori è estremamente viva e complessa, un trampolino di lancio fenomenale con cui lanciare una novità che potrebbe entrare presto nell’uso comune.

Vestiti pratici e di supporto

Ovviamente non tutti puntano con altrettanta veemenza sull’estetica, altre persone preferiscono affidarsi a vestiti che siano pragmatici, ovvero che si focalizzino sul semplificare la vita di ogni giorno.

Solamente il mese scorso, il MIT ha pubblicato i risultati di una ricerca che ambisce a cucire all’interno dei normali capi di abbigliamento un sensore tech che controlli in tempo reale i segni vitali dell’indossatore: temperatura, respirazione, battiti cardiaci. Una soluzione che potrebbe tenere sempre sott’occhio individui dalla salute ballerina, ma anche atleti e astronauti.

I ricercatori hanno creato dei filamenti epossidici dotati di sensori che possono essere tessuti nella trama di una normale maglia, così che il solo indossarla si tramuti automaticamente in un monitoraggio capace di tenere in considerazione il feedback di intere parti del corpo.

A onor del vero, di soluzioni simili ne esistono a bizzeffe, ma quasi tutte finiscono con l’assumere la forma di piccoli “cerotti” da tenere a stretto contatto con la pelle. Il progetto pensato dalle menti del MIT garantisce invece una maggior libertà di movimento, con i sensori che, essendo distribuiti su tutta la superficie del vestito, riescono a dimostrarsi funzionali in qualsiasi condizione.

sensori tessili

Per l’occasione, i ricercatori ci propongono il modello “cugino di Freddy Krueger”.

Il materiale resiste ai lavaggi e può trasmettere i dati raccolti anche in via remota, in più i sensori sono altamente personalizzabili e possono coprire un range di analisi molto ampio.

Monitorare non è tuttavia sempre sufficiente, alle volte gli acciacchi sono già presenti e bisogna porvi rimedio. Ecco dunque che entra in scena un progetto dell’Università di Bristol, la quale vuole portare nelle dimore britanniche un modello miniaturizzato degli esoscheletri che vengono occasionalmente adoperati dalle cliniche specializzate nella riabilitazione.

L’idea del Professor Jonathan Rossiter, leader della ricerca, è infatti quello di far sì che i vecchietti possano scoprire le gioie del cyberpunk, indossando pantaloni robotici che li aiutino a muoversi indipendentemente e a preservare la propria autonomia.

Nel pensare al pantalone robotico Rossiter si è lasciato ispirare da un corto d’animazione che è la quintessenza del britannico, Wallace and Gromit. Nel suddetto un bislacco inventore inventa proprio dei calzoni meccanici, i “Wrong Trousers”, i quali vengono poi manomessi da un pinguino per far compiere una rapina a un uomo addormentato. Si, si trattava di un programma televisivo trascendentale.

A differenza delle loro controparte filmica, i “Right Trousers” di Bristol non sono strumenti rigidi e goffi, piuttosto sono composti da muscoli artificiali soffici che si tendono per accompagnare il movimento di chi li indossa, di fatto alleggerendone lo sforzo muscolare.

Non solo, l’apparecchio è dotato di una guaina termosensibile che risulta flessibile fintanto che viene riscaldata dal movimento, ma che si irrigidisce durante i lunghi periodi di sosta, permettendo al proprio utilizzatore una maggiore stabilità nel reggersi in piedi da fermo.

Il progetto dei pantaloni robotici era stato presentato nel 2018, al pari di un prototipo che abbisognava ancora di una quantità estrema di lavoro, tuttavia da allora le cose sono evolute e il team, sempre guidato da Rossiter, si è virtuosamente concentrato sul creare le singole componenti che servono a rendere possibile l’obiettivo finale.

Solamente questo febbraio, infatti, l’Università di Bristol ha presentato una pompa elettro-pneumatica che è soffice, elastica ed economica da produrre e che in futuro potrebbe essere la base di muscoli artificiali che siano alla portata di tutti.

 

 

The Gateway è il magazine settimanale di Lega Nerd che vi parla del mondo della tecnologia e dell’innovazione.

 

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