L’ex presidente degli Stati Uniti fa parlare di sé anche quando non è presente. A metà gennaio il Procuratore Generale del Texas, il Generale Ken Paxton, ha chiesto che Twitter, Google, Facebook, Apple e Amazon fornissero al suo ufficio tutti i file, contatti email e messaggi compresi, relativi al come si siano state decise le varie censure nei confronti di Trump (e del social network di estrema destra Parler). Ora, nel tentativo di bloccare l’indagine, Twitter fa causa all’uomo di legge.

I documenti che sono stati presentati al tribunale della California inquadrano l’atteggiamento di Paxton come una “condotta di rappresaglia che viola la Costituzione”. Il diplomatico avrebbe infatti richiesto un simile volume di dati sensibili con il solo intento di infastidire e danneggiare le aziende tecnologiche.

Il timore avanzato da Twitter è che il rendere note le modalità di moderazione del portale semplificherebbe la vita a tutti quei malintenzionati che non vedono l’ora di circumnavigare i sistemi di controllo per postare le peggiori amenità. Twitter sostiene inoltre che l’indagine del Texas vada a punire una scelta censoria che sarebbe parte delle libertà di parola, libertà protette per diritto dal Primo Emendamento.

La Big Tech sostiene anche di essere giunta a una simile soluzione draconiana solo dopo che i tentativi di cercare compromessi con Paxton si sono infranti contro la sua immobilità. La Big Tech avrebbe cercato di proporgli un’analisi superficiale che non scoprisse tutti i retroscena e lui ha rifiutato.

Per quanto Paxton si sia mosso deliberatamente con intenzioni campanilistiche, è facile che vedremo negli anni un numero crescente di indagini simili, se non altro perché le piattaforme digitali, viste da fuori, danno sempre più l’impressione di applicare le policy con una severità che è incostante.

 

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