L’Everest è da oltre 150 anni una delle vette più famose e ambite al mondo. Ma qual è la sua storia? Quali le missioni più importanti e quali le difficoltà da affrontare per arrivare in vetta?

Da quando, nel 1854, la cima venne denominata con il nome di Peak XV, l’Everest è un mito e un desiderio di alpinisti, amanti della montagna e non solo, così presente nell’immaginario comune da essere conosciuta anche da chi di trekking non conosce nulla.

L’Everest è la sfida più incredibile che il nostro pianeta può offrire a chi lo calpesta: una sfida ad altissimo rischio. Ripercorriamone insieme la storia

 

La storia

Il mito dell’Everest nasce con la sua scoperta: la montagna è stata battezzata in onore di George Everest, direttore dal 1830 al 1843 del Survey of India, l’ufficio trigonometrico e geodetico dell’India.

Prima del nuovo nome la cima era conosciuta dai tibetani come Chomolungma, la “Dea Madre del Mondo”.

Da allora le spedizioni alla scoperta della vetta più alta del mondo si sono succedute per decenni, dai primi tentativi pieni di incognite e difficoltà, fino al 29 maggio 1953, quando il neozelandese Edmund Hillary, insieme allo sherpa nepalese Tenzing Norgay, arrivarono per la prima volta al mondo in vetta: la notizia fu data al mondo qualche giorno dopo, il 2 giugno 1953.

Arrivati in cima, i due vi rimasero all’incirca quindici minuti per scattare qualche fotografia e lasciare le bandiere delle Nazioni Unite, del Nepal, dell’India e della Gran Bretagna (tradizione che si ripete ancora oggi) oltre a biscotti e cioccolato, a disposizione di chi, dopo di loro, avrebbe raggiunto la vetta.

Dalla prima conquista sono numerosi gli alpinisti che hanno raggiunto la cima degli 8848 metri del monte Everest. Tra questi, troviamo l’italiano Reinhold Messner, il primo uomo a scalare il monte senza bombole d’ossigeno (nel 1978) e il primo uomo ad affrontare la scalata in solitaria (nel 1980).

Reinhold Messner prima di una delle sue missioni sull’Everest

Tra gli scalatori che hanno conquistato più volte la vetta dell’Everest troviamo i fratelli Damien e Willie Benegas, che nel 2010 hanno raggiunto per la decima volta la cima del monte più alto, ripetendosi poi altre tre volte. La prima scalatrice donna è stata la giapponese Junko Tabei nel 1975, mentre il primo scalatore non vedente è stato l’americano Erik Weihenmayer, impresa riuscitagli nel 2001.

 

 

L’Everest e i suoi numeri

L’immenso arco montuoso dell’Himalaya esiste da milioni di anni, è una delle conseguenze della deriva dei continenti e del movimento terrestre. È un’area di circa duemila e cinquecento chilometri di lunghezza per duecento chilometri di larghezza occupata dalle montagne più alte al mondo. Di queste montagne da record però, il mondo occidentale fino agli anni a cavallo della metà del XIX secolo ne sapeva ben poco se non addirittura nulla.

Fu solo nel 1830 che i cartografi inglesi del Survey of India – che all’inizio del 1800 avevano intrapreso una lunga e difficoltosa campagna di esplorazioni e misurazioni per conoscere e riportare sulle carte geografiche l’intero subcontinente indiano – raggiunsero le frontiere del Nepal. Erano arrivati ai bordi di uno degli scrigni del “tesoro” himalayano.

Erano allora moltissime le difficoltà da affrontare per riuscire ad accedere a quei territori veramente ai limiti dell’impossibile. I nepalesi poi, preoccupati di mantenere la propria indipendenza, non ammettevano intrusioni occidentali, soprattutto da parte dei colonialisti inglesi.

Così, operando e continuando le rilevazioni dai territori indiani, si osservò, al confine tra il Nepal e il Tibet, una montagna altissima che fu indicata nelle mappe con la lettera “b“. Successivamente, si era già nel 1854, tutti i rilievi vennero studiati e comparati, e la cima “b” fu rinominata con il toponimo di Peak XV.

Dopo due anni di calcoli proprio quella montagna risultò la più alta di tutto il comprensorio. Le misurazioni le assegnavano 8.839 metri d’altezza, 258 metri in più del K2, che con 8581 risultava secondo nella speciale classifica “delle quattordici vette più alte” oltre gli 8000 metri.

I topografi inglesi, nonostante la semplicità dei loro mezzi tecnologici, arrivarono alla meta e furono di una precisione stupefacente. Le misurazioni fatte circa un secolo dopo si sono discostate di pochissimo fissando l’altezza a 8848 metri.

 

 

Le spedizioni

Scalare “Chomolungma” come abbiamo detto prima è tra le imprese più straordinarie che l’uomo può compiere sul pianeta Terra. A parte le abilità richieste per affrontare una simile impresa, affrontare l’Everest significa spendere almeno 60 mila euro, una cifra che si possono permettere in pochi, da spendere tra i vari permessi, autorizzazioni delle varie nazioni coinvolte, l’attrezzatura, le guide e tanto altro ancora.

Dal punto di vista climatico bisogna ricordare le temperature molto rigide (quella media nel mese più freddo è di -27° a circa 7500 m) e l’aria estremamente rarefatta: dagli 8000 metri in poi insufficiente per la normale respirazione e infine le dieci settimane necessarie per arrivare in vetta.

L’Everest ci ha regalato in ogni caso tra le avventure più belle del mondo dell’alpinismo.

Lydia Bradey, la prima donna a scalare la cima più famosa al mondo senza ossigeno supplementare. Dieci anni dopo Messner, la ventisettenne neozelandese, dopo essersi spostata dal Campo 2 al Campo 4, è salita dal Colle Sud riuscendo, non senza fatica, a raggiungere la vetta senza utilizzare ossigeno supplementare e in gran parte in solitaria.

Uno Sherpa in azione sul Monte Everest

Attorno a questa impresa sono fioccate le polemiche, in primis perché la scalatrice aveva intrapreso la scalata senza le dovute autorizzazioni: per paura di essere interdetta, la Bradey inizialmente ritrattò di essere arrivata in cima. Dopo che le fu comunque proibita la scalata per due anni, però, la neozelandese ribadì di essere arrivata in cima: a mettere la parola fine alle polemiche fu il Club Alpino Neozelandese, che approvò in via ufficiale la sua impresa.

Nei sessant’anni che sono trascorsi dalla prima ascensione moltissimo è cambiato, dall’approccio, ai metodi di scalata, ma la cosa che non è mai cambiata è l’importanza dell’Everest: un simbolico punto di riferimento e di desiderio per tutti gli escursionisti.

Le spedizioni e gli alpinisti di tutte le nazionalità si sono incessantemente avvicendati sulle sue pareti e molti nuovi itinerari, anche difficilissimi, sono stati tentati e percorsi su tutti, o quasi, i versanti della montagna. Si è passati dalle grandi spedizioni nazionali, come quella italiana guidata da Monzino del 1973 (otto uomini in vetta) che fece uso di elicotteri per trasportare i carichi sopra l’Icefall, a quelle ‘leggere’ composte di pochi alpinisti, alle ascensioni solitarie, alle salite velocissime, alle discese con gli sci o con il parapendio.

Strada sterrata che conduce al Campo base nord, in Tibet, col primo scorcio del Monte Everest (©Gail Morrison)

Un altro aspetto che è venuto fuori in questi ultimi anni è quello delle spedizioni cosiddette “commerciali”, i cui organizzatori offrono ai “clienti-partecipanti” la possibilità di arrivare sulle cime più famose del mondo, anche senza allenamento e preparazione specifica per una simile esperienza. Sull’Everest nel 1996 nove partecipanti a due di queste spedizioni persero la vita scendendo dalla vetta. Lo scrittore americano Jon Krakauer (l’autore del libro Into The Wild che racconta la vita di Christopher McCandless) che partecipava ad una di quelle spedizioni come giornalista, nel libro Into Thin Air, (Aria Sottile nell’edizione italiana della Corbaccio) ha raccontato tutta la tragica vicenda sollevando il problema dell’utilizzo e della messa in “vendita” della montagna e delle aspirazioni di chi vuole raggiungerne la cima. Nel 2015 è stato realizzato un bellissimo film su questa spedizione, “Everest”, basato sul libro di Krakauer, diretto da Baltasar Kormákur con protagonisti Jason Clarke, Jake Gyllenhall, Josh Brolin e Keira Knightley.

 

 

Ma tutti, indistintamente, dobbiamo comprendere che la salvaguardia dell’Everest e del suo mito è una questione importantissima e ancora aperta. Una questione che, travalicando gli aspetti particolari dell’alpinismo, rende il Chomolungma, la Dea madre del mondo, un simbolo della difesa della natura, ma anche delle stesse sorti, presenti e future, del genere umano.

 

 

I campi

Per arrivare sulla cima dell’Everest ci sono due percorsi principali, ciascuno con il suo campo base. Il North Ridge, sul lato cinese-tibetano, è il più accessibile e raggiungibile con autoveicoli. Molte spedizioni partono da Katmandu, in Nepal, per poi attraversare il confine con la Cina e arrivare alla montagna.

Al percorso South Col si arriva invece dal Nepal, in genere dopo una settimana di trekking per raggiungere le pendici della montagna, anche se la possibilità di muoversi in elicottero ha reso questo luogo molto meno remoto. Entrambi i campi si trovano in due grandissime vallate glaciali. A Nord il campo base tibetano è subito sotto la morena terminale del ghiacciaio Rongok. A Sud il campo base nepalese si trova in cima al roccioso ghiacciaio Khumbu.

Dopo i campi base ogni percorso ha ovviamente dei punti intermedi nei quali ci si ferma anche per giorni per far sì che il corpo piano piano si abitui al clima e all’altitudine.

 

La mappa dei vari campi che portano alla vetta dell’Everest

L’élite dell’alpinismo, da quando nel 1980 si è iniziato a salire senza ossigeno, si confronta con questo modo di salire “leggero”, senza ossigeno supplementare e in velocità. È la filosofia del “by fair means”, dell’affrontare la montagna grande senza dispiego di mezzi, uomini e attrezzature e per alcuni anche del rispetto per la montagna stessa. Ma a questo modo di intendere l’alpinismo si contrappone un affollamento delle valli e delle montagne himalayane, ed in particolare dell’Everest, sempre più grande.

Da un lato troviamo alpinisti della statura di Hans Kammerlander, autore nel 1996 della salita più veloce (da solo e in meno di diciasette ore) e della prima discesa con gli sci dal versante Nord; dall’altro le moltissime spedizioni che ogni anno e in misura maggiore rendono il Campo Base dell’Everest simile ad una grande tendopoli. La situazione è così delicata, che molti descrivono l’Everest come la più alta discarica del Mondo.

Campo base Sud, versante nepalese.

 

Scalare la vetta più alta del mondo

Le dimensioni, la fama e purtroppo anche la storia macabra (è la vetta con più morti) di questa montagna sono talmente vaste sia dentro che fuori al mondo dell’alpinismo che il solo nome è abbastanza per far rabbrividire ogni persona che inizia a pensare alla missione.

Nell’ultimo secolo, più di 305 alpinisti sono morti scalando l’Everest.

La cifra record è stata raggiunta nel 2015, quando ben ventindue alpinisti sono deceduti sulla montagna (le valanghe sono responsabili del 29% dei decessi, mentre il 23% è dovuto a cadute e il 20% a congelamento o a malattie dovute all’altitudine).

Comunque scalare una montagna di questo tipo ti porta a dei rischi incommensurabili che l’esploratore britannico Matthew Dieumegard-Thornton vuole ricordare dopo essere stato, a ventidue anni, uno degli scalatori più giovani della storia a raggiungere la vetta.

L’interno di una Tea-Time nel campo base in Tibet (© Gail Morrison)

Iniziamo con l’ossigeno. La differenza tra l’Everest e le altre scalate ad altitudini elevate, è che per raggiungere la vetta è necessario un supplemento importante di ossigeno.

Un viaggio normale dura dalle cinque alle sei settimane, e la maggior parte di questo cammino è pensato per fare in modo che il corpo possa acclimatarsi e abituarsi a quell’altitudine.

L’area in cui non c’è aria a sufficienza è chiamata La Zona della Morte.

Se fossi caduto in un crepaccio, probabilmente non mi sarebbe successo nulla, dato che ero attaccato ad una corda in sicurezza.

Ma la parte peggiore è guardare gli sherpa, i famosi accompagnatori del Tibet. Vengono pagati a peso/carico, per cui più rotazioni riescono a fare, più vengono pagati, e quindi usano molte scorciatoie per fare più in fretta.

Dichiara l’alpinista Matthew Dieumegard-Thornton

Non si legano, non indossano caschetti, generalmente non si curano della sicurezza. Attraversano le scalette senza corda tenendosi aggrappati con le mani. Il giorno prima di raggiungere un grosso crepaccio oltre il Campo Uno, ci è stato detto che il giorno prima uno sherpa era caduto in quel crepaccio ed era morto.

Un team di soccorso ha riportato su il suo corpo, che ha continuato a sanguinare lungo tutta la parete di quel crepaccio squadrato. Non si sentiva nessun odore, ma la vista del sangue era abbastanza. Era più scuro di quanto mi aspettassi, e mi ha fatto stare fisicamente male. Mi ha aiutato a mettere la scalata nella giusta prospettiva

L’Everest è cosparso di cadaveri. Quando si lascia il campo quattro e si arriva al “summit day” (il giorno in cui si raggiunge la vetta), si è così in alto che si riesce a malapena a portare su sé stessi. Non si possono e non si devono portare carichi pesanti, perciò se si muore lì sopra, le possibilità che qualcuno possa riportare a valle il cadavere sono molto poche, quindi ecco spiegati i cadaveri in vista.

Addirittura in alcune zone della montagna viene chiamato la “Valle dell’arcobaleno”, sono i cadaveri che con i loro indumenti colorati segnano la parte giusta, o errata, della sentieristica da seguire. In generale tutti gli escursionisti evitano di parlarne, ma i corpi non si possono non notare. Si può scorgere della pelle scoperta, ma non teschi o ossa, dato che la pelle è talmente ghiacciata da essere quasi imbalsamata, come statue di cera.

Anche le dimensioni della montagna, e di conseguenza la l’impossibilità di vedere l’obiettivo finale, rendono la scalata difficilissima.

Quando si è abbastanza lontani da vederlo tutto sembra un dipinto, e da vicino è così grande che è impossibile anche solo capire cosa si sta guardando. Non si riesce a vedere il campo tre fino a quando non si raggiunge il campo due. E il campo quattro è visibile solo una volta che si gira attorno a un lato della montagna. Ed è sempre così, anche al giorno di arrivo alla vetta. Questo per uno scalatore è un blocco mentale importante, come del resto l’ansia da “prestazione”.

Come abbiamo detto all’inizio una spedizione sull’Everest costa decine di migliaia di euro, ed è per questo che moltissimi alpinisti ricercano dei piccoli sponsor che possano aiutare l’impresa. Da un lato si risparmia, ma dall’altro si ha una responsabilità non indifferente.

In quei momenti non si vuole deludere nessuno, tanto meno il tuo sponsor e questa ulteriore pressione, aggiunta al timore di non farcela, può giocare dei brutti scherzi allo stato mentale dello scalatore.