La sonda “Hope” degli Emirati Arabi Uniti ha raggiunto Marte e si prepara a un paio di anni di voyerismo fotografico del Pianeta Rosso.

“Missione compiuta”, ha twittato il vice presidente degli Emirati Arabi Uniti (EAU). In verità la missione è solamente all’inizio, ma bisogna riconoscere che la parte più insidiosa sia stata superata con successo, senza contare l’alto valore politico di un simile raggiungimento.

 

 

La sonda Al-Amal – chiamata comunemente con il suo corrispettivo inglese, Hope – ha infatti dovuto affrontare una frenata turbolenta, inchiodando di colpo da una velocità di crociera di 120.000 km/h per scendere ai “soli” 18.000 km/h che le hanno permesso di insediarsi nell’orbita marziana.

Per riuscirci ha dovuto però accendere in contemporanea sei propulsori e lasciarli accesi per ben 27 minuti. Uno sforzo non indifferente che avrebbe potuto far collassare la macchina a ogni minimo inconveniente.

L’inserimento in orbita è stato il momento più critico, la parte più pericolosa del nostro viaggio verso Marte, poiché ha esposto la sonda Hope a uno sforzo e a una pressione che non aveva mai dovuto patire prima.

Avendo superato questa gigantesca pietra miliare, ci stiamo ora preparando alla transizione verso la nostra orbita scientifica, così da cominciare la raccolta dei dati,

ha dichiarato il direttore della missione, Omran Sharaf.

Gli Emirati Arabi Uniti vivono il loro viaggio su Marte, oltre che come un traguardo scientifico, come un atto simbolico capace di collocare il Paese del Golfo in una posizione comparabile a quella di superpotenze quali gli Stati Uniti e la Cina.

Un bella soddisfazione, in effetti, se si considera che il programma spaziale degli EAU sia stato sviluppato da zero in soli sei anni.

 

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