La recensione di Malcolm & Marie di Sam Levinson, duello rusticano in bianco e nero tra cinema e vita di coppia con Zendaya e John David Washington. Su Netflix.
La carriera di Sam Levinson come regista è fondamentalmente spaccata in due: con una prima parte consumata avidamente nell’anno domini 2011 e una seconda iniziata nel 2018 e portata avanti con altrettanto vigore. L’anno dopo infatti il regista figlio d’arte dà vita a quello che (finora) è il suo prodotto più riuscito, Euphoria, e adesso non sembra più volersi fermare, tant’è che decide di girare anche durante la pandemia. Per la precisione gira due episodi per lo speciale della serie TV HBO e un film che trovate su Netflix, continuando ad attirare le attenzioni di pubblico e critica.
Il che ci porta alla recensione di Malcolm & Marie, duello rusticano tutto parlato, ambientato in una sola location e in una sola notte e con soli due attori: John David Washington e Zendaya. Film importante per Levinson, espressione di una continuazione autoriale (Marie sembra una versione alternativa della Rue con la quale condivide la splendida interprete), biografica (il vissuto di Malcolm pare essere ispirato sia a quello del regista che a quello di Washington stesso) e, allo stesso tempo, di una voglia di rottura e di svolta. Di dire qualcosa sul proprio mondo (il cinema) e sulla vita.
Netflix continua a dimostrarsi casa accogliente per ogni vena autoriale e dunque dà il benvenuto anche Levinson (e ci mancherebbe), ma qualcosa da dire il film ce l’ha sul serio?
Le splendide case delle società di produzione
Malcolm e Marie sono una giovane coppia di artisti: lei modella ed ex attrice e lui sceneggiatore e regista. Li conosciamo di ritorno da una serata di gala nella splendida casa di Malibu che la società di produzione ha fatto loro dono. La stessa società di produzione che ha finanziato il film di Malcolm. Film che ha appena fatto il suo trionfale debutto in anteprima davanti alla stampa, composta dalle terribili e sanguinarie penne delle testate di cinema americane (vengono nominati IndieWire, Variety e LA Times). Ovvero, la serata da cui i due sono appena tornati.
Lui è su di giri, mette su un po’ di musica e comincia a ballare in giro per lo splendido soggiorno della splendida casa: urla, salta sui davanzali e invoca mac and cheese per festeggiare. Lei appare invece contrariata sin da subito e preferisce uscire a fumarsi una sigaretta, commentando sarcastica e lapidaria le autocelebrazioni del compagno. Strutturato come un crescendo tensivo, l’intro scelto da Levinson fa da lungo prologo all’imminente scoppio di una bomba nucleare, rimandato solo dal silenzio ribadito di Marie, mentre “cucina” il pasto per il suo Lui. Il primo e l’ultimo (di già? Si) momento di non detto tra i due.
Raccontata secondo una narrazione che riprende la durata di ciò che narra, la serata diventa un gioco al massacro strutturato, quasi scientificamente, come un incontro di boxe. Scandito da round separati da silenzi prolungati e momenti di erotica e dolce empasse, nei quali, ogni volta, la tensione si carica e si scarica, a causa di una piena di parole e discorsi che depaupano la scena da ogni tipo di gustoso sottosuolo. Elemento vitale per costruire un corpus filmico che altrimenti rischia davvero di non nascere mai.
I due litigano, si insultano, urlano, sbracciano, si baciano, mangiano, si struccano, fanno pipì e poi si tacciono. E poi riprendono a rincorrersi, a mordersi, a fuggire, a rifare e disfare, in una danza selvaggia che invade ogni ambiente della splendida casa che ha dato loro la produzione. Suo malgrado contenitore di una battaglia anarchica e non altrettanto splendida.
Quello che non c’è
Levinson pensa al suo Malcom & Marie come un film da cinema indie americano, con tanto di bianco e nero, e decide di fondare tutto sul dialogo. Una visione accattivante e sicuramente coraggiosa, ma che rischia di divenire un boomerang se non si riesce a giustificare il format scelto con un contenuto adeguato. Altrimenti è solo una lezione di stile.
C’è un’assenza evidente nel film di un costrutto complessivo che renda le due ore di discorsi
C’è un’assenza evidente nel film di un costrutto complessivo che renda le due ore di discorsi, accuse e dichiarazioni di amore qualcos’altro che non una cannibalizzazione di ogni possibile accenno ad un filo conduttore per lo spettatore, condannato, suo malgrado, a guardare e ad ascoltare i continui cambi di fronte alla ricerca di un modo per entrare in sintonia con il mondo dietro tante parole.
Paradossalmente i due personaggi di per sé funzionano: Marie è una ragazza sofferente, giovane, ma matura (spesso più di lui), fragile e risoluta. E Zendaya è straordinaria; al contrario di Washington, in overacting anche quando mangia. Il suo Malcolm è virilmente docile, nato per essere il contrario di quello che secondo Levinson è l’artista dalla vita difficile: quello che viene dal ghetto e che ha qualcosa da dire o che almeno dovrebbe secondo i critici. Ecco, i critici, poltergeist operanti in absentia in un film che da quello che non c’è è condizionato, pronti ad impossessarsi dei corpi dei due contendenti.
Il cinema come metafora
Per tutta la serata si parla del film di Malcolm. Noi non lo vediamo mai, ma esso è sempre presente, terreno di scontro tra i due amanti/duellanti e occhio attraverso il quale parlano della loro relazione, della condizione del cinema attuale, della comunicazione che c’è intorno ad esso e intorno a coloro che ci lavorano.
Marie ha ispirato il film, il suo compagno lo ha girato, attraverso di esso e in funzione di esso i due rileggono la loro vicenda insieme e da soli: il loro passato, le loro scelte, le loro ambizioni e i loro torti. Eppure uno di loro è rimasto tagliato fuori dalla sua celebrazione, dal suo riconoscimento intimo ed esteriore. Quindi, prima di dire che uno dei due è insopportabile, come reagireste voi se foste rimasti esclusi da ciò che per voi è l’unica espressione positiva della vostra vita?
La riaffermazione della propria identità passa attraverso una predominanza nella coppia e il film e il cinema e la visione critica sono le armi di fortuna scelte. Il loro uso comporta però il rischio di macchiarsi dello stesso peccato di saccenza di chi scrive di cinema (ci viene detto dopo neanche 5 minuti), che dall’alto della sua arroganza ha la pretesa di conoscere e giudicare cosa ci sia dietro il film, compreso il vissuto di chi l’ha realizzato. Una denuncia che Levinson fa disconoscendo le regole secondo cui la comunicazione cinematografica sentenzia su ciò che rende un regista di successo o meno, ridefinendone la figura e, in qualche modo, mettendo le mani avanti. “Alla fine un film è solo un film” ci dice.
Ennesimo giro a vuoto.
In conclusione della recensione di Malcolm & Marie, perché se un film è solo un film cosa lo eleva ad avere un’importanza tale da diventare arbitro esistenziale delle vicende umane e amorose di una coppia?
A completamento della sua di critica, Levinson individua nel mistero l’elemento essenziale per il film, proprio ciò di cui nessuno si preoccupa mai di scrivere. Lo stesso mistero che manca nel racconto della sua coppia e in questo film qua. Dell’altro non possiamo dire nulla. Anche se una recensione ce l’abbiamo.
Chissà cosa avrebbe scritto la white bitch del LA Times di Malcolm & Marie.