SanPa, la recensione: la docuserie Netflix e l’irresistibile fascino del capo

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La recensione di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano, serie documentario prodotta da Netflix che racconta la nascita di San Patrignano, comunità di recupero per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli alle fine degli anni ’70. Ciò che emerge è il ritratto di un paese che spesso preferisce voltarsi dall’altra parte. E seguire un capo. Un inno al pensiero complesso.

Nello scrivere la recensione di SanPa: luci e tenebre di San Patrignano dobbiamo ammettere due cose: quando abbiamo cominciato a guardare la docuserie Netflix sapevamo poco della storia di San Patrignano, se non che sia, a tutt’oggi, una delle più grandi comunità di recupero per tossicodipendenti in Europa. Non ricordavamo quasi nulla dei processi e delle apparizioni in tv del suo fondatore, Vincenzo Muccioli, perché troppo piccoli o non ancora nati. Abbiamo quindi cominciato questo viaggio con occhi neutri, proprio quello che ogni persona impegnata in un’indagine o una ricerca dovrebbe avere. La seconda confessione è che da allora, da quando a Capodanno abbiamo divorato tutti e cinque gli episodi, ne siamo ossessionati. Sì perché il racconto di SanPa è complesso, stratificato, apre la porta a infinite domande e per molte è davvero difficile trovare una risposta univoca.

 

 

Probabilmente nemmeno gli autori di SanPa, prima docuserie originale italiana prodotta da Netflix, si aspettavano una materia così complessa quando hanno cominciato il loro lavoro. Creata da Gianluca Neri, che l’ha scritta insieme a Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, e diretta da Cosima Spender, parte come un’inchiesta, ma finisce per diventare una riflessione sul nostro paese e sulla natura stessa degli esseri umani. Chi si aspettava quindi uno spot pubblicitario di San Patrignano o una demonizzazione di Vincenzo Muccioli rimarrà deluso: SanPa non si piega alla semplificazione dello “schieramento facile”, al linguaggio impoverito di slogan e pensieri espressi in massimo 140 caratteri. In SanPa vengono esposti dei fatti e lo spettatore è lasciato libero di farsi una sua idea.

 

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Lo diciamo subito: una volta entrati nel vortice avrete voglia di sentire le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona quei fatti, documentarvi, vedere vecchi telegiornali, fare ricerche a vostra volta. Perché a fine visione è chiaro che molto sia rimasto fuori da queste cinque ore di racconto tanto appassionante quanto necessariamente snellito, in modo da arrivare a un pubblico più vasto possibile. In ogni caso SanPa è un prodotto che va visto, anche solo per trovarsi finalmente davanti a qualcosa che stimola il pensiero complesso.

 

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SanPa: le regole di Netflix e la retorica del “tu non c’eri”

In questi ultimi cinque anni Netflix ha offerto ai suoi utenti una produzione sempre più vasta e variegata. Tra le sue eccellenze figurano sicuramente i documentari: Making a Murderer, Wild Wild Country, Going Clear – Scientology e la prigione della fede, Tiger King, per citarne alcuni, sono tutti ottimi prodotti di approfondimento e intrattenimento, di cui il pubblico sembra non avere mai abbastanza. Forse perché oggi le informazioni che abbiamo a disposizione sono talmente tante che vederle messe in ordine e decodificate in qualche modo ci rassicura. Per realizzare queste docuserie la piattaforma di streaming ha stabilito regole precise: tutto ciò che finisce nel lavoro finito deve essere provato almeno da tre fonti diverse e attendibili. Non sono inoltre ammesse interviste non concordate.

 

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Tiriamo in ballo le linee guida di Netflix perché in questi giorni molto spesso, per togliere forza al lavoro svolto dagli autori, si sono sentite critiche che accusano SanPa di essere un prodotto di intrattenimento. Certo che lo è, sembra talmente ovvio da non esserci bisogno di sottolinearlo. A questo proposito il lavoro fatto al montaggio da Valerio Bonelli (che con Cosima Spender ha già lavorato al documentario Palio, montato diversi film del regista inglese Stephen Frears, ovvero Philomena, The Program e Florence, e L’ora più buia di Joe Wright) è davvero notevole. Ribadiamo l’ovvio: un’opera intenzionalmente avvincente non è per forza realizzata in mala fede o senza rigore.

 

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E proprio perché ci troviamo di fronte al frutto di ricerche, interviste e ricostruzione storica è assurda anche la presa di posizione di chi dice: “Voi non c’eravate, non l’avete vissuto, non ne potete parlare”. Certamente nessuno di noi sa che emozioni hanno provato i soldati in trincea durante la Grande Guerra, ma non per questo non se ne parla a scuola, nei libri, nei film. Se soltanto chi ha vissuto un fatto è autorizzato a parlarne allora non avrebbe senso studiare la storia. E non è detto che un racconto “di pancia” sia il migliore per capire davvero a fondo un argomento. Dipende, come sempre, dal contesto. Il problema non è chi o perché: ma come. Che poi è proprio il cuore di SanPa.

 

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L’Italia degli anni ’70 e l’arrivo dell’eroina

Certamente chi non ha un parente, un amico, o non è stato in prima persona tossicodipendente non può sapere davvero come si stia emotivamente e fisicamente in quella condizione. Le immagini di ragazzi giovanissimi buttati per strada, ridotti a ombre di se stessi, fanno però tremare i polsi di chiunque: è così che comincia SanPa, con i video di moltissime persone devastate da una droga nuova, l’eroina, arrivata all’improvviso in Italia a metà degli anni ’70. I Rolling Stones le hanno dedicato uno dei loro brani più controversi, “Brown Sugar”, così come i Black Sabbath: “Hand of Doom”, che si trova nell’album Paranoid, parla proprio di un uomo che muore di overdose. Derivato della morfina, in quegli anni ha preso d’assalto il mercato degli stupefacenti, gettando nella dipendenza un’intera generazione (dramma che sarebbe durato fino ai ’90).

 

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Usata dai soldati americani in Vietnam e arrivata in Europa praticamente in contemporanea alle proteste studentesche del Sessantotto, ai movimenti per i diritti civili degli afroamericani e ai nostri Anni di Piombo (il perché abbia avuto una diffusione così capillare e improvvisa meriterebbe una serie a parte: ci limitiamo a suggerivi di cercare informazioni sull’Operazione Blue Moon), l’eroina nel 1977 aveva creato un vero e proprio stato di emergenza. Impreparato a gestire questa quantità sempre più crescente di tossicodipendenti, il governo italiano offriva poche opzioni: il carcere e il SerT, in cui veniva somministrato il metadone, ma, non prevedendo un ricovero, a lungo termine non era efficace.

 

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Vincenzo Muccioli il fondatore di San Patrignano

È in questo clima di allarme sociale e impreparazione delle istituzioni che arriva Vincenzo Muccioli, l’uomo giusto al momento giusto: andando a riempiere un vuoto, ha avuto l’intuizione della vita, trasformare un casolare di sua proprietà, una collina a Coriano, in provincia di Rimini, e il terreno attorno, in una struttura per il recupero dei tossicodipendenti. Alto un metro e novanta, di corporatura robusta, baffi e capelli di grande effetto, Vincenzo Muccioli anche in video trasmette un grande carisma. Sicuro di sé, dal sorriso aperto, le mani enormi. Sembra assolutamente onesto e sincero quando dice che lui è pronto ad aprire le braccia a tutti i giovani che chiederanno il suo aiuto.

 

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Dotato di grande empatia (sono in molti a raccontare che sembrava sapere quasi sempre cosa pensasse la persona che gli stava davanti), Muccioli era sicuramente una persona dotata di intuito, in grado di capire il mondo che lo circondava. Nella serie viene inoltre fatto un breve cenno a presunte capacità “da guaritore”: su internet si possono trovare riferimenti alla sua passione per lo spiritismo (pare che credesse di avere un raggio benefico dentro di sé e di essere la reincarnazione di Gesù Cristo), faceva infatti parte di un gruppo, il Cenacolo, di cui era il medium. In un paese libero e democratico ognuno può credere in ciò che vuole: l’importante è non far del male agli altri e rispettare la legge. E all’inizio Vincenzo Muccioli ha effettivamente fatto del bene: ha trasformato il podere in un’azienda agricola e nel 1979 ha fondato la cooperativa di San Patrignano. Alla prima ragazza che ha aiutato a disintossicare sono seguite decine, poi centinaia e migliaia di giovani. Il fatto di vivere insieme a ragazzi con gli stessi problemi, mangiare insieme, lavorare insieme, imparare un mestiere e accudire piante e animali per tanti di loro ha funzionato. Muccioli fece anche costruire un ospedale, quando, a peggiorare le cose, negli anni ’80 arrivò l’HIV e l’AIDS cominciò a uccidere quasi quanto la droga. E questo è innegabile. Come innegabile è la riconoscenza eterna di genitori che hanno visto rinascere figli dati per morti, che nessun altro voleva o sembrava in grado di aiutare.

 

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Il bene fatto nessuno lo contesterà mai: però ogni storia ha diversi punti di vista e in questo caso, come dice il titolo di SanPa, a tanta luce corrispondono purtroppo tante tenebre. Se nel documentario Andrea Muccioli, figlio di Vincenzo, Red Ronnie e Antonio Boschini (medico ed ex ospite di San Patrignano oggi responsabile sanitario della comunità) difendono a spada tratta Muccioli e la sua creatura, altri testimoni hanno avuto un rapporto più conflittuale con la propria esperienza. Come Fabio Cantelli Anibaldi, ex ufficio stampa della struttura, o il giornalista Luciano Nigro, che suggerisce una lettura né bianca né nera dei fatti. Tra i testimoni figurano anche Walter Delogu (anche lui uno dei ragazzi di SanPa e per molto tempo braccio destro fidato di Muccioli, fino alla grande crisi tra i due) e sua figlia Andrea Delogu, nata nella struttura. Mano a mano che sentiamo i racconti di tutti la storia si trasforma più volte di fronte ai nostri occhi.

 

 

 

Il processo delle catene, i metodi forti e il lato oscuro di San Patrignano

Passare da poche decine di persone da gestire a 3mila non è facile: aumentano le spese, non si può seguire tutti allo stesso modo, l’attenzione mediatica cresce. E per un decennio Vincenzo Muccioli è stato una delle figure più discusse e in vista in Italia: vediamo come fosse spesso presente in televisione e come i partiti politici di ogni colore se lo contendessero. Oltre a tessere coperte e fare formaggio, a SanPa a un certo punto sono arrivati anche cavalli di razza (pagati con 300 milioni di lire in contanti), la vicinanza alla famiglia Moratti (che in 40 anni ha donato alla comunità 300 milioni di euro) e un reddito annuo di 30 milioni di euro (di cui metà devoluti da privati). Vediamo la figura di Muccioli lievitare davanti ai nostri occhi: più San Patrignano cresceva più cresceva l’uomo, sia fisicamente che come ego.

 

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Ed è qui che qualcosa è andato storto: quando la tua immagine diventa più importante della tua opera c’è qualcosa che non va, perché cominci a perdere i fili. Nel 1983 Muccioli fu condannato per sequestro di persona e maltrattamenti, per avere incatenato alcuni giovani della comunità (il cosiddetto Processo delle catene); per essere poi assolto in Corte d’Appello (1987) e in Cassazione (1990). L’immagine perfetta di San Patrignano si era incrinata: alcuni ragazzi furono incatenati, venne fuori che Muccioli in persona dispensava schiaffoni, addirittura qualcuno veniva chiuso in isolamento per giorni dentro a una vecchia cassaforte o a un tino. Si giustificò dicendo che erano i ragazzi stessi a chiederlo, per evitare di cadere di nuovo nella dipendenza. Lo stesso Fabio Cantelli Anibaldi racconta di essere stato messo in isolamento: un’esperienza che condanna, ma che allo stesso tempo è consapevole gli abbia salvato la vita.

Ed è qui il grande dilemma morale di fronte a cui ci mettono gli autori di SanPa: quanto male siamo disposti a fare per fare del bene?

Il come è più o meno importante del perché? Da millenni i più brillanti filosofi si interrogano su questi temi: non è certo la serie Netflix a dare delle risposte definitive. Ognuno le deve cercare dentro di sé.

 

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Violenza e società civile

Se sui metodi forti pur di salvare ragazzi in preda alle crisi di astinenza si può discutere, non c’è possibilità di appello sulla violenza che si è sviluppata all’interno della comunità. Nella docuserie è appena accennata la sistematicità degli stupri che avvenivano nella struttura (ci sono molte testimonianze, compresa quella di Piero Villaggio), commentata con la scena in cui Muccioli dice che “se un anello si muove, la matita non può centrare il buco”. Una frase per cui oggi chiunque affronterebbe, giustamente, una gogna mediatica infinita. Si parla invece a lungo delle botte date con generosità dai capisquadra di alcuni reparti.

 

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Comportamenti che portarono diverse persone a suicidarsi (come Natalia Berla, il cui fratello, Sebastiano, appare nella serie). Una violenza culminata, nel 1989, nell’uccisione di Roberto Maranzano: morto a causa di un pestaggio nella porcilaia di San Patrignano, fu ritrovato a 600 chilometri di distanza, in provincia di Napoli. Dell’omicidio si seppe solo nel 1993, quando l’ex ospite Franco Grizzardi confessò come erano andate realmente le cose. C’è stato un altro processo, nel 1994, in cui l’immagine di Muccioli subì un pesante colpo: Walter Delogu, suo autista, lo aveva registrato mentre diceva di eliminare il testimone scomodo, dimostrando che non soltanto sapeva dell’omicidio, ma era anche disposto a coprirlo con ogni mezzo. Delogu è stato poi condannato per estorsione (aveva chiesto al fondatore di San Patrignano dei soldi per non divulgare la cassetta), ma le parole agghiaccianti di quella registrazione rimangono.

Muccioli fu condannato a 8 mesi per il caso Maranzano (con sospensione condizionale) per favoreggiamento, mentre gli esecutori materiali ebbero condanne dai 6 ai 10 anni.

Sarebbe morto un anno dopo, il 19 settembre 1995, a 61 anni, per cause mai del tutto chiarite (forse AIDS, avrebbe contratto il virus HIV proprio in comunità).

 

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SanPa: Nascita, Crescita, Fama, Declino, Caduta

La comunità di San Patrignano si è dissociata da SanPa: per chi la gestisce e per i suoi sostenitori è “un’occasione persa”. Gli autori hanno detto che questo è positivo, perché vuol dire che “non hanno fatto un santino”. È vero che nel racconto ci si concentra soprattutto sull’uomo Vincenzo Muccioli e non su San Patrignano stessa, che è sopravvissuta ed è andata avanti senza di lui. Nei cinque episodi, intitolati Nascita, Crescita, Fama, Declino e Caduta, si racconta una figura quasi shakespeariana. Era impossibile non concentrarsi su Muccioli, perché Muccioli, per sua stessa volontà, era San Patrignano. E, in quanto uomo, ha commesso degli errori. Errori che non si possono negare: la stessa comunità da allora ha imparato da quegli errori, riorganizzandosi, prediligendo il lavoro nelle scuole e la prevenzione al culto della personalità del suo fondatore.

 

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Guardando la serie con gli occhi di oggi non si può non dire: ma come è stato possibile? Oggi siamo tutti più smaliziati, nutriti da anni di serie tv che ci hanno insegnato a ridere di sette e cospirazioni internazionali (impossibile non pensare a South Park o ai Simpson mentre si vede degenerare la comunità: grazie a puntate come quella del “fagiolo che sembra il leader” abbiamo imparato a diffidare di chi ti dice cosa puoi fare o non fare, leggere o no, mentre ti fa coltivare patate). Si doveva raccontare anche il lato oscuro di Muccioli. Perché rispecchia quello di un intero paese: un paese in cui molto spesso invece che affrontare i problemi si guarda dall’altra parte. Misogino, sempre pronto a seguire un capo, ineluttabilmente ammaliato dal carisma del leader che urla di più, che promette di più. Bisognava far sapere alla gente cosa è successo in una realtà che di fatto si comportava come uno stato a sé: questo in una società civile e democratica non è possibile. Altrimenti sarebbe il caos, sarebbe il far west. E non bisogna pensare che siano cose dimenticate, nel passato: la democrazia, come ci insegnano purtroppo i fatti americani di Capitol Hill, va protetta sempre. Perché può essere distrutta in un attimo.

 

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