Google non é soddisfatta sul come le nuove leggi USA identificherebbero la posizione dei droni e chiede che il tutto sia fatto via internet.
Wing, azienda sotto il controllo di Alphabet, ditta a sua volta nota per essere la proprietaria di Google, ha manifestato in questi giorni un forte discontento nei confronti dei nuovi piani di sorveglianza che colpirà i droni americani.
Secondo la nuova norma, per questioni di sicurezza nazionale, sia il drone che il pilota devono sempre essere localizzati e identificati attraverso continue trasmissioni di onde radio, una pratica che la Big Tech sostiene finirà con l’avere “conseguenze inattese sui consumatori americani”.
Le comunità americane non accetterebbero questo tipo di sorveglianza per le loro consegne o per i loro viaggi in taxi. [Quindi] non dovrebbero accettarla neppure in cielo,
scrive criticamente la Wing.
Ogni volta che una nuova forma di vigilanza viene introdotta, la questione della privacy viene giustamente sollevata: in favore di una promessa di sicurezza, non sempre veritiera, si baratta la propria libertà.
Dall’11 settembre, gli Stati Uniti hanno calcato la mano, sulla questione del controllo, e sembrano pronti a introdurre costantemente nuove risoluzioni emergenziali per proteggere i cittadini da minacce che, secondo alla narrazione dominante, vengono quasi sempre dal di fuori.
Il timore attuale é che l’aumento sregolato del traffico di droni possa condurre a un uso improprio dello strumento, ovvero che gli apparecchi volanti possano essere adoperati per eseguire rapine o attacchi terroristici.
Google, tuttavia, più che lamentarsi del controllo governativo in sé, ha da ridire sulle sue modalità e propone che il check costante degli ID dei droni sia eseguito attraverso la Rete.
Il progetto di legge, a ben vedere, era nato proprio con la Rete in mente, ma più di 50.000 commenti pubblici hanno sollevato criticità innegabili: i costi di dover aggiungere modem agli apparecchi volanti, il salasso mensile per garantirsi il servizio telefonico necessario a supportare il traffico dati, nonché il fatto che un servizio simile dovrebbe appoggiarsi a terze parti. Ad Alphabet, per esempio.
Per qualche motivo, nell’era della normalizzazione delle fughe di dati, i cittadini statunitensi non si fidano al dover far gestire le proprie informazioni ad aziende che non sono capaci di preservarle. Piuttosto preferiscono rischiare di essere intercettati una tantum da qualche radioamatore.