Una delle penne più odiate e geniali di Hollywood, imprigionata per l’eternità in un walzer di colpe che ne ha distorto e mutilato il ricordo. La storia di Herman Mankiewicz.
Nell’irrefrenabile ciclo della Storia si incappa a volte in dei buchi neri, capaci di inghiottire tutto quello che è nella loro prossimità logica e temporale. Finanche, loro malgrado, eventi e personaggi protagonisti che sarebbero dovuti passare (alla storia, appunto) per ben altri motivi. In quella cinematografica, una di queste più importanti “deformazioni gravitazionali” è l’eterna questione sospesa della paternità della sceneggiatura di Quarto Potere, Il Film, uno dei più importanti della storia del cinema, contesa da Herman Mankiewicz e Orson Welles.
Ne parleremo il meno possibile per non cadere anche noi nel tranello, ma qualcosa sull’ultimo straordinario originale Netflix e sulla natura di questo eterno contendere deve essere spesa. Ci perdonerete.
Il mistero intorno a quello che è successo durante la produzione del film è stato svelato, se vogliamo, anche prima del famoso articolo “chiarificatore” pro Mankiewicz in due parti della critica Pauline Keal. Parliamo di Raising Kane, pubblicato su The New Yorker nel 1971. Il quale, invece, non fece altro che alzare i livelli della disputa, forse anche perché la ricerca della verità fu una motivazione solo dichiarata alla sua stesura.
Ad esso risposero con stroncature e risposte indignate firme illustri come Andrew Sarris, lo storico Robert L. Carringer e, soprattutto, Peter Bogdanovich con il suo The Kane Mutinity su Esquire. Un articolo che smontava pezzo per pezzo ogni singolo passaggio di una ricostruzione a cui mancava più che qualche elemento fondamentale, facendolo così bene che si vociferò fosse stato scritto da Welles stesso. Ma il ping pong era partito.
La Kael fu accusata di essersi macchiata dello stesso peccato di cui era accusatrice (non menzionò tra le fonti il lavoro d’indagine fatto da Howard Suber) e il buco nero cominciò ad allargarsi sempre di più. Welles fu profetico quando disse “Dopo Miss Kael ci vorrà molto per fare pulizia.“, evidentemente non ci si è ancora riusciti. Quello che paradossalmente ne uscì peggio fu però proprio Mankiewicz, anche se entrambi non meritano di essere ricordati per quello che c’è stato tra loro al di fuori dell’ambito artistico.
Mank di Fincher (o dei Finchers) è quindi solo l’ultimo dei capitoli di questa eterna disputa, arrivato in un momento in cui la verità era già sfociata in ideologia e per altro senza aver nessuna intenzione (lui certamente no) di ricercarla. Anzi, sarebbe a dir poco fuorviante parlare del film riducendolo a questi termini.
Noi qui proveremo (sottolineato in rosso) a ripercorrere la vita di Herman Mankiewicz, non per simpatia o altro, ma perché di Orson Welles le cose sono lì, firmate, disponibili e indelebili, con buona pace dei buchi neri. Mentre di Mank non si sa praticamente niente e questo non può certo essere. Forse il primo scopo della Kael, praticamente 50 anni fa, era proprio porre rimedio a questo. Forse.
Herman ‘Mank’ Mankiewicz
Herman J. Mankiewicz, come tantissimi grandi altri geniali ed iconici personaggi, ha avuto un rapporto ossessivo con il suo talento, che invece di aiutarlo a trovare il suo dignitoso posto nella società (come accaduto al fratellino Joseph) ha finito per diventare l’ultimo ingrediente per il suo cocktail da outsider autodistruttivo, prima in famiglia e poi con il mondo. In un tempo, tra l’altro, che quelli come lui non si faceva pregare di rifiutare.
Mank nacque a New York City nel 1897 da genitori immigrati ebrei tedeschi e si laureò alla Columbia University nel 1917, dove era già impegnato ad amoreggiare con il mondo delle parole come editore del giornale studentesco.
Finiti gli studi non tardò molto prima che “tornasse” in Europa, prima con un volo militare da cadetto dell’esercito degli Stati Uniti e poi con uno privato come Marines. Le sue avventure nel Vecchio Continente parlano di un’attività da direttore di un giornale parigino e di un lavoro come corrispondente da Berlino per il Chicago Tribune. Un matrimonio in mezzo.
Era un “bambino amante dei libri e introspettivo che, nonostante la sua intelligenza, non è mai stato in grado di ottenere l’approvazione dal suo esigente padre“, noto per sminuire costantemente i suoi successi. A detta di diversi storici e del suo biografo ufficiale, il motivo principale delle sue tendenze autodistruttive sfociate, col passar del tempo, in alcolismo e ludopatia.
Coast to Coast
Fu mentre era in Germania che iniziò a scrivere di teatro per il New York Times, attività che, tornato in East Coast, ampliò scrivendo per New York World, Vanity Fair, The Saturday Evening Post e numerose altre riviste. Siamo nella prima metà degli anni Venti, fate i vostri conti. Il ragazzo non era male.
“Scrittore dotato e prodigioso“, Mankiewicz divenne il primo critico del The New Yorker. La sua scrittura attirò l’attenzione del produttore cinematografico Walter Wanger in forze già da qualche anno alla Paramount, che lo portò ad Hollywood (Land), ma non solo come sceneggiatore.
Il quel periodo conobbe il leggendario George S. Kaufman, con cui collaborò nell’opera teatrale The Good Fellow, 1926. L’amicizia con il regista gli aprì le porte del vicious circle, la Tavola rotonda dell’Algonquin, uno dei circoli artistici e letterari più importanti ed esclusivi della New York dell’epoca e dell’America in generale. Tra i suoi membri, tanto per dire, c’erano personalità come lo stesso Kaufman, Harpo Marx, Dorothy “Dot” Parker, il Premio Pulitzer Marc Connelly, sua maestà Ben Hecht e Charles Lederer, una figura decisiva per la vita futura di Mank perché nipote di Marion Davies, moglie di Hearst e madame di San Simeon.
“Scrittore dotato e prodigioso“, Mankiewicz divenne il primo critico del The New Yorker. La sua scrittura attirò l’attenzione del produttore cinematografico Walter Wanger in forze già da qualche anno alla Paramount, che lo portò ad Hollywood (Land), ma non solo come sceneggiatore.
Oltre a sfilare soldi a Von Berger (a poker, per carità), a scrivergli didascalie e far girare la testa a David O. Selznick, Mank divenne infatti uno dei talent scout di scrittori (passateci la semplificazione) più pagati al mondo e non tardò molto prima che chiamasse a raccolta tutta la sua vecchia banda newyorkese. “Scrittori a proprio agio con l’iconoclastia delle redazioni delle grandi città che avrebbero presentato la loro sardonica mondanità al pubblico dei film“, come li descrive lo storico Scott Eyman.
Naturalmente a modo suo.
Il telegramma che inviò loro recitava più o meno: “The are millions to be made and your only competitions is idiots.”
Herman Mankiewicz a Hollywood
Stando a Pauline Kael “a partire dal 1926, Mankiewicz ha lavorato a un numero incredibile di film” e “probabilmente nessuno ha dato un contributo più grande del suo”. Soltanto tra il 1927 e nel 1928 (l’anno dell’uscita de Il cantante jazz, canonicamente indicato come il film che segnò l’avvento del sonoro nel cinema) realizzò dialoghi e didascalie per almeno venticinque film tra i più di successo in fatto di pubblico e con alcune delle star più amate di quegli anni e per la maggior parte di essi non ricevette alcun credito.
All’alba degli anni 30 fu uno dei sceneggiatori più pagati in assoluto e diede il suo contributo a commedie poi riconosciute come le più importanti sfornate da Tinseltown negli anni della Grande Depressione (sempre senza essere accreditato). Tra gli altri, collaborò a titoli come Laughter, Monkey Business, I fratelli Marx al college e Gambe da un milione di dollari, financo co-scrivere, nel 1933, Pranzo alle otto, basato sull’opera teatrale di George S. Kaufman ed Edna Ferber. Tutte quante caratterizzate da un nuovo modo di concepire e scrivere i dialoghi.
Eppure la sua poetica spesso non incontrò i gusti delle major, che tante volte non sopportavano né il suo modo di scrivere né la sua ironia pungente e dissacrante. E la sua reiterata indisciplina certo non aiutava.
Famoso l’aneddoto secondo cui gli fu assegnato come punizione la sceneggiatura di un episodio di Rin Tin Tin (all’epoca non proprio l’ultimo dei personaggi), che Mank trasformò in una storiella provocatoria in cui il protagonista canino scappava spaventato da un semplice topo e con una scena finale in cui trascinava un bambino in una casa in fiamme.
Le cose non migliorarono quando passò alla Metro Goldwyn Mayer, dove divenne oggetto di una censura richiesta direttamente da Joseph Goebbels, allora ministro dell’Istruzione e della Propaganda del Terzo Reich, che vietò ai film scritti dallo sceneggiatore di essere mostrati nella Germania nazista. A meno che il suo nome non fosse rimosso dai titoli di coda, cosa a cui era purtroppo, come avrete capito, abituato. Chissà cosa sarebbe successo se si fosse prodotta la storiella di Mank con Hitler protagonista.
Ci fu poi la vicenda legata al Mago di Oz, in cui fu lo sceneggiatore newyorkese, l’unico tra i dieci ingaggiati, a doversi battere per inserire la sequenza iniziale in Kansas e a passare dal bianco e nero al colore.
Questo rapporto con, di fatto, i suoi datori di lavoro e con il suo mondo lavorativo in generale fu causa ed effetto della sempre più grave frustrazione con cui Mank dovette fare i conti per tutta la sua vita: incapace di migliorarlo per il suo temperamento, ma anche incapace di accettarlo date le sue ambizioni.
La corte dei miracoli
Mank trovò “rifugio” per molto tempo alla corte di San Simeon, la sontuosa dimora del magnate della stampa William Randolph Hearst, uno degli uomini più potenti d’America, diventato mecenate neanche troppo segreto della MGM dopo essersi legato all’attrice Marion Davies.
Del rapporto con Hearst invece è giusto dire che fu una figura che Mank amò e odiò per tutto il corso della sua vita.
Qui torniamo alla questione del legame con Orson Welles e a tutto quello su cui, da incipit, ci siamo ripromessi di non soffermarci troppo (non ci siamo riusciti granché). Diremo solo in proposito che il sodalizio tra i due iniziò per il programma radiofonico del genietto ventiquattrenne, The Campbell Playhouse, e che non è un caso che i due più grandi outsider dell’epoca trovarono un’affinità artistica di un certo tipo.
Del rapporto con Hearst invece è giusto dire che egli fu una figura che Mank amò e odiò quasi contemporaneamente. Fonte di ispirazione non solo per il personaggio di Charles Foster Kane, ma già più volte citato in maniera meno diretta in altri scritti dallo sceneggiatore newyorkese. Il suo legame con lui, manco a dirlo, si interruppe bruscamente dopo l’uscita di Quarto Potere, apice di un percorso che di fatto esigé la fine del percorso stesso, da lì il buco nero. Nota a margine: anche la struttura di Quarto Potere si può trovare in lavori precedenti di Mank.
Herman Mankiewicz morì nel 1953 per un avvelenamento uretico. Dieci anni prima rilasciò una malinconica dichiarazione su se stesso e la sua condizione, senza venir mai meno all’ironia che l’ha sempre contraddistinto: “Mi sembra di diventare sempre più un topo in una trappola di mia costruzione, una trappola che riparo regolarmente ogni volta che sembra esserci pericolo di qualche apertura che mi permetta di scappare. Non ho ancora deciso se renderlo a prova di bomba. Sembrerebbe comportare un sacco di lavoro e spese non necessarie”.
Herman, il Mankiewicz rivoluzionario
Quello che fu Mankiewicz per la storia del cinema ci è stato raccontato dalla Kael e da altri storici prima e dopo di lei, ma nulla più delle opere a cui ha preso parte lo possono testimoniare.
Nel passaggio all’epoca del suono la sua scrittura divenne lo strumento perfetto per dare per la prima volta voce ai protagonisti sul grande schermo. Grazie ad essa, in grado di intrattenere, commuovere e far riflettere il pubblico, Mank contribuì alla creazione della commedia classica americana e, nonostante le sue pellicole fossero considerate dai produttori facili e immorali, in esse egli riuscì a parlare di tematiche umane, sociali e politiche così importanti da essere attuali anche oggi, 80 anni dopo.
I suoi meccanismi e le sue trovate drammaturgiche si sono incastonate con quelle dei grandi maestri americani che tengono ancora sotto scacco gli attuali autori d’oltreoceano, affaccendati come scolaretti ad analizzare, approfondire e scandagliare quelle stesse tematiche. Come ci insegna, ancora, Quarto Potere e come ha insegnato, oggi come dieci anni fa, David Fincher.