Stardust, recensione: David Bowie meritava di meglio

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La recensione di Stardust, film on the road di Gabriel Range ambientato nel ’71: racconto del viaggio in USA di David Bowie per promuovere l’album The Man Who Sold the World, che lo porterà a creare l’alter ego Ziggy Stardust. Nel ruolo del cantante Johnny Flynn. La pellicola riesce nell’impresa di essere tutto quello che Bowie non è mai stato: banale e dimenticabile.

L’onestà intellettuale ci costringe a fare una premessa nello scrivere la recensione di Stardust, film dedicato al tour promozionale su suolo americano fatto da David Bowie nel 1971, per promuovere l’album The Man Who Sold the Word: chi scrive pensa che l’artista inglese sia stato il più grande cantautore di tutti i tempi.

 

 

Non soltanto perché sapeva suonare un numero incredibile di strumenti (in principio fu il sassofono, poi la chitarra, il pianoforte, il basso, l’armonica, la viola, il violoncello, l’organo e molti altri, come il koto). O perché ha scritto moltissime delle canzoni più belle della musica leggera (la stessa The Man Who Sold The World, la title track del disco di cui si parla nel film, o Space Oddity, Heroes, Life on Mars?, Starman, Rebel Rebel, Moonage Daydream, Lady Stardust e tante altre). O perché è diventato un’icona di stile, della moda che ancora oggi artisti di ogni campo saccheggiano (pensiamo a Lady Gaga sempre in ambito musicale).

 

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È il più grande di tutti perché era un vero genio, di quelli rinascimentali: musica, pittura, arti sceniche, letteratura, poesia, moda si fondono insieme in tutta la sua opera.

David Bowie era un artista poliedrico e complesso, che ha saputo trasformarsi negli anni, rimanendo sempre coerente con se stesso e la sua arte. In più era un uomo illuminato anche dal punto di vista sociale: è sempre stato un simbolo di libertà, che spinge ad accettare il prossimo e se stessi. È celebre una sua intervista di inizio anni ’80, in cui si indigna con MTV perché non trasmetteva quasi nessun video musicale di artisti di colore, o se lo faceva li relegava a orari improbabili, come le sei del mattino. E stiamo parlando di 40 anni fa.

 

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David Bowie era un artista poliedrico e complesso, che ha saputo trasformarsi negli anni, rimanendo sempre coerente con se stesso e la sua arte

Quindi sì: realizzare un film su Bowie è un’impresa difficilissima. Ha vissuto cento vite in una, ha realizzato cose incredibili, lui stesso si è definito un alieno (e probabilmente in questo momento ci sta guardando dallo spazio profondo, speriamo in modo benevolo). Potevano esserci quindi mille spunti e modi per approcciare un’esistenza straordinaria come la sua. Soltanto una cosa sarebbe stata davvero imperdonabile e Stardust di Gabriel Range, presentato alla 15esima Festa del Cinema di Roma e distribuito prossimamente nelle sale italiane da I Wonder Pictures, è riuscito nell’impresa di fare proprio quella: essere tutto quello che Bowie non è mai stato. Ovvero banale e dimenticabile.

 

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The Man Who Sold The World e il tour americano del 1971

Fin dai titoli di testa si capisce che qualcosa è andato storto: Duncan Jones, figlio di David, non ha dato permessi, si è dissociato dal film e ha specificato che tutto ciò che si vede nella pellicola non rispecchia la realtà. Questa cosa non è un problema, il cinema spesso deve tradire la materia originale. Anzi, a volte più lo fa più ne giova. È molto strano però realizzare un film su David Bowie senza la musica di David Bowie.

Il disastro totale se si realizza un film su David Bowie senza la musica di David Bowie e senza David Bowie. Stardust è proprio questo.

Siamo a Londra, nel 1971: David Robert Jones si faceva chiamare da qualche anno Bowie (come il coltello), aveva già realizzato due album, di cui il secondo, Space Oddity, aveva avuto un buon successo grazie al brano omonimo, uscito praticamente in contemporanea con lo sbarco sulla Luna. Dopo, 12 singoli divenuti flop: una spirale negativa che avrebbe scoraggiato chiunque. Il terzo disco, The Man Who Sold The World (opera incredibile, seminale, ancora oggi un capolavoro) sembrava destinato a fare la stessa fine.

Troppo cupo, strano, sperimentale, difficile rispetto a musica più commerciale, come quella dei T. Rex di Marc Bolan, collega e rivale per il titolo di icona del glam rock. Per salvare la sua carriera, Bowie parte per gli Stati Uniti, dove Ron Oberman (interpretato da Marc Maron, Sam nella serie tv Glow), publicist della Mercury Records, lo porta in giro per locali e stazioni radiofoniche per promuovere il disco.

 

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Visto il budget praticamente inesistente fornito dalla casa discografica, Ron offre al cantautore inglese locali di serie B, radio di provincia, giornalisti di testate molto distanti dal lustro e dal prestigio di Rolling Stone. E l’artista inglese sembra fare di tutto per vendersi male: i suoi studi da mimo non impressionano per niente il pubblico americano, che lo trova ridicolo, i suoi capelli lunghi e abiti da donna fanno il resto. E poi c’è qualcos’altro che sembra frenare l’artista di Brixton: un oscuro segreto, un “seme cattivo”.

 

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David Bowie e lo spettro della follia

Gabriel Range e lo sceneggiatore Christopher Bell hanno deciso di concentrarsi su un aspetto della vita di Bowie meno noto al grande pubblico, ma che chiunque abbia letto una biografia del cantate conosce: la sua lunga frequentazione con la pazzia.

Il fratellastro Terry, più grande e importante per la sua formazione musicale (fu grazie a lui che David conobbe la musica di Little Richard, che lo spinse a diventare un cantante a sua volta), in quegli anni era stato chiuso in un istituto psichiatrico a causa della manifestazione precoce di schizofrenia, patologia ricorrente nella linea materna della famiglia. Anche tre zie di Bowie ne avevano sofferto. Ecco perché The Man Who Sold The World è così cupo e inquietante: si parla di pazzia, di uomini che…

…sono morti da soli molto molto tempo fa.

 

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Affrontare questo aspetto abbastanza inesplorato della vita del cantautore poteva essere interessante: in mano però a uno sceneggiatore e un regista dotati di talento e personalità. Non è questo il caso: interpretato da Johnny Flynn, sudafricano, cantante a sua volta, questo David Bowie, truccato, vestito e inquadrato in un certo modo, a volte ricorda molto l’originale visivamente, ma non è che un’ombra scolorita. Johnny Flynn non ha il carisma necessario e più che interpretare Bowie sembra averne assorbito tutti i tic e gli atteggiamenti per farne una macchietta. La voce bassa, le dita che si toccano i capelli: tutto è esagerato e appartiene al territorio dell’imitazione invece che dell’interpretazione.

Johnny Flynn non ha il carisma necessario e più che interpretare Bowie sembra averne assorbito tutti i tic e gli atteggiamenti per farne una macchietta.

Questo Bowie insicuro e incerto non ci trasmette nulla, anzi, sembra quasi qualcuno che non si capisce bene come sia potuto diventare la grande star che è stato. Stupido, prevedibile, banale: praticamente sembra che Ron Oberman e il suo pragmatismo americano gli abbiano insegnato tutto, portandolo a nascondersi dietro a maschere come quella di Ziggy Stardust, perché il semplice David Robert Jones non aveva poi molto da dire. Un po’ come quando, davanti a un quadro di Picasso, arriva il fenomeno di turno a dire: “Questo lo potevo disegnare pure io”.

Perdonali David, perché non sanno quello che fanno.

Il piattume dell’interpretazione di Flynn è riflesso della scrittura, così come la regia: non c’è un’idea, non c’è un guizzo, solo un encefalogramma piatto. Uno dei più grandi artisti, di cui abbiamo avuto la fortuna di essere stati contemporanei, avrebbe meritato tutt’altro trattamento. Per fortuna la sua grandezza non è scalfita da questa pellicola. Speriamo che, se si dovesse tornare a trattare la sua vita, questa volta ci pensi qualcuno all’altezza.

 

 

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