La recensione di Nomadland, la pellicola diretta dalla regista Chloé Zhao chiude ufficialmente il concorso di Venezia e fa già pensare al Leone D’oro della serata.
C’è chi non ha scelta ed è costretto a vivere in strada; c’è chi, invece, è proprio nella strada che trova casa e non potrebbe mai rinunciare all’orizzonte, ai tramonti nel deserto, alle nevicate sull’asfalto, al conoscere persone di passaggio che ritroveranno tra un mese o forse un anno.
La recensione di Nomadland ci porta proprio nel mondo di chi sceglie la strada, per un ragione o per l’altra e lo fa con la storia di Fern (Frances McDormand), una donna vittima del crollo economico di una città aziendale nel Nevada rurale, che dopo la morte del marito decide di far diventare casa il suo van e, carica i bagagli, si mette sulla strada alla ricerca di una vita al di fuori della società convenzionale, come una nomade dei tempi moderni.
C’è una parte di Fern che, in fondo, vorrebbe una vita diversa. Una vita non costretta dalla costante ricerca di un nuovo posto di lavoro passeggero; una vita che non la costringa a cambiare campeggio dopo campeggio, parcheggio dopo parcheggio, instabile, sola, triste e con il peso del tempo che segna ogni ruga sul suo volto. Eppure, dall’altra parte, Fern non può fermarsi. Sarebbe come smettere di respirare.
Fern non può fermarsi
Le è insopportabile l’idea di dormire in un letto vero, un letto che non sia un mezzo materasso consunto sul fondo del suo furgone. Fern non può non continuare a viaggiare, a spostarsi, a vivere la sua vita da nomade e a farsi contaminare dalle persone che incrocia sulla sua strada.
La strada come scelta di vita
Per quanto l’inverno sia rigido, la notte buia e l’estate solitaria, Fern ha bisogno della strada, di quel van tutto rotto, delle sue piccole cose che le riempiono la giornata, la testa, i ricordi. La realtà è che Fern affronta un percorso di accettazione, un percorso di crescita quasi arrivata alla terza età. Vivere da sola, senza l’uomo della sua vita, accettando la sua scomparsa, la perdita della loro vita insieme, della loro casa del loro piccolo mondo, forse non perfetto, ma sicuramente speciale per lei.
Nomadland ci porta sulla strada dei cambiamenti. Quella strada dove le persone vanno e vengono, le città si creano e si distruggono, il tempo passa impavido ed imparziale; ma al tempo stesso ci porta lungo terre che non possono non emozionare.
La bellezza selvaggia della natura che strazia il cuore, appesantisce il petto e rende lucidi gli occhi. È così che, infondo, Fern si sente e fa sentire anche noi. Il cuore pesante di fronte alla bellezza devastante della strada ma che non può condividere con nessuno, se non con le persone come lei. Nomadi che vanno e vengono, cercando qualcuno o qualcosa all’orizzonte.
Un po’ come i veri nomadi Linda May, Swankie e Bob Wells, che hanno preso parte alla riprese dando al racconto della Zhao qualcosa in più. Un’immagine veritiera ancora più forte. Lo sono la guida di Fern nel corso della sua ricerca attraverso i vasti paesaggi dell’Ovest americano. Sono le ancore quando il mare è in tempesta. I pilastri che la guidano e la mantengono in piedi. Le danno la forza, la motivazione per andare avanti, per continuare il suo cammino.
Non è un cammino facile, ma è un cammino che lascia carichi, arricchiti
Non è un cammino facile, ma è un cammino che lascia carichi, arricchiti, consapevoli che, in fondo, la vita stessa è un viaggio, bellissimo e al tempo stesso dolorosissimo. Chloé Zhao ci fa intraprendere assieme alla sua Fern questo viaggio, tra i meravigliosi paesaggi del Nevada, catturando una luce, assieme al direttore della fotografia Joshua James Richards, un’immagine che strizza volutamente agli immaginari e scenari di Terrence Malick. Suggestivi, evocativi, metaforici. È qualcosa di quasi metafisico quello costruito da questa straordinaria regista mentre non sono tanto le parole ad avere importanza, quanto lo sguardo, profondo e solitario; i movimenti lenti, misurati e pure sicuri del corpo di Fern, la sua tenacia nel non fermarsi, nel continuare imperterrita anche quando distrutta e sfiancata dalla stanchezza.
In questo grande merito ha l’interpretazione di una straordinaria Frances McDormand che abbandona i ruoli più ruvidi e cinici a favore di una donna buona, fragile, ferite. Una donna dalla bellezza d’animo devastante. Una donna che non vorrebbe mai dare fastidio, chiede il permesso per ogni cosa e ci fa sentire un po’ piccoli, un po’ stupidi, un po’ fragili.
Scivola la McDormand in questo ruolo con un’eleganza che toglie il fiato, chiedendo di essere scoperta, di scoprire il suo personaggio man mano che il viaggio va avanti. Un viaggio meravigliosamente accompagnato dalle soavi note di Ludovico Einaudi che sanno così perfettamente far vibrare le più sottili corde dell’animo umano.
Nelle terre selvagge del cuore
Nomadland è senza ombra di dubbio un film di scoperta. Un film che ha bisogno del suo tempo, che cresce dentro minuto dopo minuto, probabilmente visione dopo visione.
Un film molto – forse addirittura troppo – intimo e delicato dove i veri rivoluzionari sono un gruppo di anziani che non hanno mai smesso di fermarsi, non hanno mai smesso di viaggiare. Una storia intima, dolorosa e silenziosa, che lentamente si insinua nell’animo di chi la guarda, lasciando senza ombra di dubbio meravigliati.
La meraviglia di scoprire un tipo di vita completamente sconosciuta, una vita che forse potremmo avere anche difficoltà a comprendere, eppure sono proprio tutte le persone che Fern incontra sul suo percorso, reali nomadi che donano piccole perle di saggezza ed esperienza al racconto, a cedere qualcosa in più del loro vissuto, della loro scelta di vita, allo spettatore.
Proprio per questa sua estrema particolarità, per l’uso di un linguaggio evocativo, più sottile e anche più maturo, che Nomadland è una di quelle pellicole dalla rappresentazione incredibilmente soggettiva.
Andando oltre il merito della regista, la bravura di questa cineasta che alla sua terza opera confeziona una pellicola straordinaria, dalle sfumature da Sundance Film Festival ma che va oltre il “semplice” film indie, e sembra più volersi soffermare sul più profondo significato emotivo di ogni singolo secondo di questo viaggio compiuto da questa donna che ha disperatamente bisogno di sentirsi ancora viva, disperatamente bisogno di trovare la sua ragione di vita in fondo all’orizzonte.
Ci troviamo su un territorio pericoloso, quello selvaggio dei sentimenti che, un po’ come la strada, è soggetto ad inevitabili cambiamenti. Inevitabili sconvolgimenti del tutto personali. E quindi Nomadland è una di quelle pellicole che dovrebbe parlare dritta al cuore di chi le guarda, di chi le osserva in religioso silenzio e si perde nella sfumature di un’immagine intensa e profonda.
Ci troviamo su un territorio pericoloso, quello selvaggio dei sentimenti che, un po’ come la strada, è soggetto ad inevitabili cambiamenti.
In conclusione della recensione di Nomadland, la sensazione che abbiamo addosso non è tanto quello della folgorazione da Festival. Non siamo di fronte ad un capolavoro e neanche ad un film che aveva la pretesa di esserlo. Piuttosto siamo di fronte ad una storia in movimento, dove ancora una volta in questa edizione del Festival di Venezia centrale è l’elaborazione della perdita, dell’importanza dei legami e della radici e del valore della memoria.