Notturno, la recensione: la strumentalizzazione dell’orrore mascherata da “buone intenzioni”

recensione di Notturno

La recensione di Notturno, il nuovo documentario del regista Gianfranco Rosi, vincitore nel 2013 del Leone D’Oro con Sacro Gra e dell’Orso d’Oro nel 2016 con Fuocoammare, girato per tre anni sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. I “buoni intenti” di Rosi, però, non convincono, e l’orrore e il dolore mostrato delle terre e dei suoi personaggi finisce col diventare un mero strumento di ruffiana estetica.

Dopo Claudio Noce e il suo Padrenostro e Susanna Nicchiarelli con la sua Miss Marx, è il turno di Gianfranco Rosi rappresentare l’Italia nel Concorso del Festival di Venezia.

Regista documentaristico vincitore proprio a Venezia del Miglior Film nel 2013 con Sacro Gra, la recensione di Notturno ci porta lungo i confini del Medio Oriente, dove il regista racconta la quotidianità dietro la tragedia continua di guerre civili, dittature feroci, invasioni e ingerenze straniere, sino all’apocalisse omicida dell’ISIS.

Rosi ha passato gli ultimi tre anni tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano mostrando le vite distrutte di quelle persone in continuo bilico: bambini, donne, uomini. Un mondo esasperato dalle barbarie, dalla guerra, dalle notti lunghe e sempre più buie, dove si lotta tra l’incubo e la realtà cercando di scacciare disperatamente l’orrore che alberga in ognuno di loro.

 

 

 

 

La pornografia del dolore

Il Notturno di Rosi, in sala proprio da oggi 9 Settembre 2020, ci appare però fin da subito forzato, ammantato da uno stile registico che ricorda il documentario di fine anni ’80/inizio anni ’90 della prima serata sulla RAI. Narrativamente fuori tempo massimo, privo di contenuti, povero di intenti.

 

recensione di Notturno

 

L’intento del regista era quello di raccontare il quotidiano di chi ha perso tutto, di chi ha visto la morte in faccia e sopportato le più atroci torture

L’intento del regista – così come dichiara lui stesso in conferenza stampa – era quello di raccontare il quotidiano di chi ha perso tutto, di chi ha visto la morte in faccia e sopportato le più atroci torture; di chi combatte il vuoto che gli hanno lasciato nel cuore e i demoni che gli albergano nell’anima; raccontare di valori che la nostra società ha ormai perduto, dimenticandosi di chi vive come invisibili, anime in pena perse in un limbo fatto di brutti sogni e ricordi da dimenticare.

Eppure quello che traspare dallo schermo non è l’intimità, non è la fragilità, non è la disperazione, ma bensì l’uso improprio di una macchina da presa invadente e ruffiana che specula sugli orrori di un popolo che vorrebbe solo dimenticare, costringendolo a perdersi nei meandri dei loro ricordi più atroci per pura pornografia del dolore.

Una sofferenza portata allo stremo e strumentalizzata solo per ricattare chi sta guardando immagini dove l’estetismo si perde nel mero intento di far commuovere.

 

 

Un’emozione che tarda ad arrivare, soffermandosi unicamente sullo sguardo a disagio di chi viene forzatamente messo davanti ad una macchina da presa, costretto a recitare un copione, una pantomima fatta di bambini che disegnano teste mozzate, donne incatenate e ricordano piedi bruciati e botte o di madri a cui sono stati strappati i figli, torturati e massacrati, per poi portarle nei luoghi dell’orrore e metterle di fronte alla straziante realtà dei fatti.

 

 

 

Alla ricerca dell’immagine perfetta (a discapito del prossimo)

In questo esasperante scenario, dove viene appunto chiesto – in modo vergognosamente insistente – ai bambini le torture subite nei mesi di prigionia dell’ISIS (una rivoltante nenia di come, quando, per quanto, e le donne, che ti hanno fatto, come te lo hanno fatto, ci pensi ancora) o ad una madre di piangere, piangere sempre più forte davanti alla telecamera ascoltando i messaggi ritrovati di un figlio morto, sembra apparire lampante il tentativo grottesco, goffo e ruffiano di Rosi di acchiappare il benestare dei meno furbi, di chi si lascia commuovere in modo semplice dalle immagini della guerra, urlando al capolavoro e al coraggio (ma di chi?) senza rendersi conto che ogni singolo secondo mostrato viene barbaramente strumentalizzato ai fini di costruire la sequenza, la scena, l’immagine più esteticamente perfetta e sorprendente possibile.

 

recensione di Notturno

 

Notturno è una pellicola vergognosa, meschina e priva di buone intenzioni

Notturno è una pellicola vergognosa, meschina e priva di buone intenzioni; o per lo meno, un film che non riesce a trasmettere nulla, nulla di quello che lo stesso regista dice di aver voluto mostrare, dice di aver provato; e, forse, non essere capaci di esprimere certi sentimenti è ancora più grave di voler mascherare la spettacolarizzazione dell’orrore in buone intenzioni.

La pellicola dovrebbe farci riflettere, aprire gli occhi su di un mondo di cui spesso dimentichiamo l’esistenza (e questo è sacrosanto), ma invece con la sua cinica freddezza e morbosa volontà di estremizzare, esagerare, gonfiare, non fa altro che allontanare ancora di più da quell’immagine. Un documentario dovrebbe lasciare culturalmente pieni, appagati, arricchiti e portare alla riflessione, al pensiero, alla discussione. Notturno non fa nulla di tutto questo, se non il condurre verso un’unica e semplice domanda: perché?

 

 

 

Lupi mascherati da agnelli

È davvero di questo che abbiamo bisogno? Possiamo davvero accontentarci di così poco? No. Non in questo modo. Nuda e cruda pornografia dell’orrore senza un minimo di arte, di stile e di poetica, se non nelle scene in notturna che danno obiettivamente un qualcosa in più – esteticamente parlando – all’immagine, ma senza riuscire davvero a convincere, a dare un minimo di possibilità, di fiducia nei confronti del regista. E non sarà di certo un bel tramonto nel deserto a rendere meno insopportabile la visione di un lupo mascherato da agnello.

 

 

Ossessivo e morboso, per non dire irrispettoso nei confronti della sofferenza

Gianfranco Rosi con Notturno vorrebbe portare la luce, puntare i riflettori lì dove la guerra li ha spenti. Ma il suo intento viene tradito da un uso improprio del racconto cinematografico. Ossessivo e morboso, per non dire irrispettoso nei confronti della sofferenza, di chi quel male l’ha provato sulla pelle e non se lo può scrollare di dosso.

Al limite del plastico di Bruno Vespa quando c’è da speculare sull’ennesimo caso di cronaca nera italiana che darà da mangiare a tutti i teatrini da primo pomeriggio televisivo, in conclusione alla recensione di Notturno possiamo definirlo un documentario irrisolto. Un prodotto costruito a tavolino, dove si ha la pretesa di parlare di uno dei conflitti più aspri che continua a spargere distruzione e sangue attraverso lo sguardo di chi ha vissuto e vive tutto ciò, ma che alla fine lascia solo un’enorme tristezza e la grande sfiducia tanto nel prossimo quanto nell’arte.

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