La nostra recensione di High Score, il documentario di Netflix sull’epoca d’oro dei videogiochi: raggiungerà la Hall of Fame oppure rimarrà con un punteggio misero, senza sfiorare la top Ten con le sue iniziali sullo schermo?
Oggi con la recensione di High Score vi portiamo nel cuore pulsante del mondo nerd e dei videogiochi. Questa serie in sei parti è arrivata come un fulmine a ciel sereno, con una immagine di copertina che è un colpo al cuore, un trailer che è un viaggio spettacolare, e una sigla d’apertura da standing ovation.
Niente di meglio per accompagnare nerd vecchi e nuovi in questo ultimo, caldo squarcio d’agosto, per passare un po’ di ore in compagnia di un bella bibita ultra-zuccherata, caramelle gommose e tanti pixel sullo schermo.
Questo doc ha delle ambizioni non indifferenti, andando a toccare la storia che va dagli anni Settanta, con l’esplosione del fenomeno degli arcade, fino agli anni Novanta, con la rivoluzione tecnico/artistica dei pionieristici videogame degli albori e il trionfo di console e PC.
In mezzo, ascesa e caduta di imperi, personaggi improbabili e geni del marketing, visionari e guerre di pixel… e una grande celebrazione della creatività e della fantasia, ma anche dell’inclusione e dell’orgoglio nerd.
Troppo bello per essere vero? In parte sì, ma c’è molto di buono in questa operazione tutt’altro che nostalgica.
A seconda di quanto siete preparati sulla storia dei videogiochi, potreste conoscere già tutto, trovare delle sorprese oppure rimanere a bocca aperta davanti al materiale presentato.
Chi scrive appartiene alla prima categoria, ma sono anche abbastanza appassionato di storytelling da farmi abbindolare dalla strabiliante bravura degli autori nel mettere in scena gli eventi e i protagonisti.
Un affresco luccicante e colorato
Se c’è un grande merito che possiamo ascrivere a High Score, infatti, è il struttura del racconto: incalzante, appassionante, sempre capace di creare un’armonia tra live action e grafiche, musica e montaggio, materiale nuovo e documenti di repertorio.
Andare a recuperare figure meno note ed eventi poco conosciuti del mondo dei videogiochi evita l’effetto deja-vu che tanti superappassionati potrebbero avere, e aiuta a condurci per mano in un territorio che lambisce territori diversi dalla solita “cronaca”.
Non dirò troppo per non fare spoiler, ma ci sono tante piccole chicche che anche chi si ritiene esperto potrebbe essersi perso, ed è un peccato che molte di queste si perdano nel diluvio di informazioni e colori dopo pochi minuti.
Per chi ascolterà High Score in lingua originale, c’è il 1UP della voce narrante di Charles Martinet, voce storica di Super Mario.
Uno dei nomi della “scena” che presenta personaggi che stanno da varie parti della barricata, dai videogiocatori di 10 anni che vincono tornei nazionali, ai ragazzi queer che esaltano la serie di giochi Madden NFL, da “Donne Drago del marketing” che fanno impazzire i giapponesi a giocatori di ruolo che diventano programmatori.
Tutti, dai più famosi ai meno conosciuti, hanno dato il loro contributo alla storia dei videogiochi… e ancora di più, hanno donato ad un’intera generazione speranze, divertimento, esempi, luoghi sicuri in cui esprimersi.
Piccole grandi storie di Pixel
Ogni episodio di High Score prende in esame un capitolo importante della storia dell’arte videoludica o direttamente un intero settore.
Ho amato in particolare l’episodio sui giochi di ruolo, anche se decisamente trattato come se lo spettatore fosse un bambino di 5 anni (LOL)
Oltre a grandi affreschi storici come la nascita, lo sviluppo e il successo – a volte non senza polemiche – di capisaldi come Space Invaders e Pac-Man, ci sono anche leggendari flop come quello capitato al “povero” Howard Scott Warshaw, il programmatore del famigerato tie-in di ET che, nonostante il benestare di Steven Spielberg, face quasi fallire Atari. Storia solo parzialmente vera, ma comunque gustosissima.
Per inciso, se volete davvero vedere ben raccontata questa storia, andate a recuperare Atari: Game Over, un documentario che racconta con grande ricchezza di particolari questa incredibile vicenda.
Incontriamo poi alcune curiosità come il racconto di Naoto Ohshima sul perché Sonic sia nato e come sia diventato un riccio e altro ancora, oppure i ricordi di John Tobias, non certo il principale tra i creatori di Mortal Kombat, che ripercorre il difficile cammino del titolo, segnato da ruggenti polemiche politiche.
Il cuore di High Score sta però soprattutto nel racconto emozionante e umano di persone come Becky Heineman, videogiocatrice e game designer che mosse i primi passi all’Atari Video Game Championship nel 1980, quando ancora era un ragazzino curioso e introverso.
Un racconto fatto di sensibilità e che parla meglio di mille saggi e libri del valore dei videogiochi nello sviluppo delle proprie passioni e dell’identità.
Molto interessante anche il pezzo in cui il programmatore Ryan Best racconta la storia di GayBlade, uno dei primi videogiochi-parodia capaci di trattare un tema scottante e delicato come quello dell’AIDS, trasformandolo un GDR e mettendo alla berlina i politici che diffondevano disinformazione e odio.
High Score ha un bel modo di portare dentro la sua narrazione sogni videoludici e aule di tribunale, tornei a base di joystick e cause milionarie, lampi di genio e disumanizzante macchina industriale… a volte fin troppo.
Le puntate sono così scorrevoli e “pulite”, i fatti così ben raccontati e veloci nel loro susseguirsi, che a volte sembra quasi di assistere ad un bignami di cultura da assorbire per poter dire “adesso lo so”.
Ed è un peccato che alcuni personaggi straordinari, come Tōru Iwatani, papà di Pac-Man, siano utilizzati per così poco tempo.
Abbiamo però delle meravigliose narrazioni su Roberta Williams, nostra signora delle avventure grafiche, John Romero, creatore di Doom, e di altri piccoli grandi maghi dei videogames, che proprio attraverso quelli hanno capito di più su se stessi o hanno dato motivo agli altri di farlo.
Ogni episodio di 40 minuti di High Score, in pratica, contiene almeno tre/quattro argomenti dai quali si poteva ricavare un documentario di dure ore.
Vogliamo parlare anche dei difetti?
Perché High Score ne presenta diversi e non indifferenti.
Primo fra tutti quello di essere un racconto molto parziale e superficiale, un trionfo del “cherry picking” che raccoglie quello che gli fa comodo e si dimentica di mostrare persone, personaggi ed eventi fondamentali per l’argomento che tratta.
In seconda battuta, manca qualsiasi tipo di approfondimento su ogni minima cosa che si va a raccontare.
Per dirne alcune, ci giochiamo i disegni di Tomohiro Nishikado per Space Invaders e gli effetti sonori di Donkey Kong in una manciata di secondi peraltro sempre “raccontati” e mai approfonditi davvero.
In terza battuta, nonostante la mole di materiale interessante, manca sempre un vero “mordente” alle storie messe in scena, che si concludono esattamente come ti aspetti dal primo secondo in cui le vedi.
Un peccato per un prodotto che ha una confezione decisamente più interessante del contenuto.
Il risultato è che spesso quello che viene raccontato potrebbe risultare, soprattutto agli occhi di chi non ha vissuto o non ama l’archeologia dei videogame, eccessivamente macchiettistico oppure ovvio.
Ci sono moltissimi spunti interessanti, aneddoti poco conosciuti, figure degne di nota, eppure sembra sempre che manchi qualcosa, che serva un pezzo per completare un puzzle che rimane sempre senza qualche pixel.
In conclusione della recensione di High Score possiamo dire che è una bella passeggiata sul sentiero dei ricordi per alcuni e bel racconto strutturato da dio per altri.
Non si poteva certo chiedere di raccontare oltre vent’anni di scena videoludica con una eccessiva dovizia di particolari in 6 episodi, per carità, tuttavia la piacevolezza della visione non nasconde delle lacune profonde e anche alcune storture che possono essere colmate solo da un approfondimento serio della materia.
La speranza è che questa introduzione “vanilla” a uno dei pezzi di storia più importanti per la cultura nerd e pop si traduca in un interesse a saperne di più, sempre di più da parte degli spettatori che oggi hanno intorno ai vent’anni.
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