Il linguaggio politicamente corretto non più solo al bar o all’interno delle opere multimediali, ma anche nella programmazione informatica. È l’ennesimo effetto scatenato dalla proteste del movimento “Black Lives Matter”.
E così Linus Torvalds, l’ideatore di Linux, ha pubblicato quella che è una sorta di linea guida di programmazione con la quale chiede ai programmatori di non utilizzare più termini come master o slave (padrone e schiavo), ma anche blacklist o whitelist nelle righe di programmazione dei software.
E, ovviamente, sono state proposte delle alternative che non veicolano alcun tipo di messaggio (seppur non esplicito e solo intrinseco) razzista. E così nei codici sorgente dei software gli informatici potranno usare primary/secondary oppure leader/follower (qui termini evidentemente mutuati dal mondo social) invece di master e salve per indicare un hardware principale e uno secondario legato al primario.
Per quanto riguarda blacklist/whitelist – quindi le liste di chi può o non può accedere ad una risorsa – si è invece pensato a soluzioni come denylist/allowlist o blocklist/passlist. Una scelta, quella di Linux, che va di pari passo a quella già prese da altri colossi del mondo tech come Google e Microsoft, in linea con quello che sta accadendo un po’ in tutto il mondo e in diversi settori, dalla gastronomia allo sport, dove brand con riferimenti razzisti si sono dovuti adattare a questo vento di cambiamento.
L’obiettivo di queste scelte è ovviamente quello di rendere i prodotti e gli ambienti IT più accoglienti e amichevoli per gli utenti di colore, tuttavia – come scrive ZDNet – alcuni membri della comunità tecnologica hanno criticato il Black Lives Matter perché promuove azioni di etica piuttosto superficiale mentre sarebbe più importante passare ad iniziative che aiutino le persone di colore contro il razzismo dell’intero sistema.
Linux team approves new terminology, bans terms like ‘blacklist’ and ‘slave’ (ZDNet)