Tra i film più chiacchierati degli ultimi mesi spicca senza dubbio Jojo Rabbit, film diretto, scritto e interpretato da Taika Waititi – regista di Thor: Ragnarok – che mette in piedi una visione surreale e satirica di una Germania nazista vista dagli occhi di un bambino. Il risultato è un gioco di contrasti che va ben oltre la semplice caricatura.

Fatta premessa di avere evitato di leggere praticamente ogni recensione/parere ed ogni descrizione di Jojo Rabbit, eccetto il materiale promozionale pubblicato nel corso dei mesi, avevo una certa idea in mente del film di Taika Waititi prima di entrare in sala. Poco meno di un paio d’ore consumate nello svilire attraverso una satira più che chiara ed evidente, con qualche elemento impegnato sì, ma di raccordo rispetto all’insieme. E invece no, non potevo essere più in torto.

Jojo Rabbit nasconde a primo acchito quello che lo rende a tutti gli effetti degno di nota, ovvero la sua dualità tra risata e riflessione, con la prima in un certo senso solo in funzione della seconda. É un film sfaccettato che parte in un modo e finisce in un altro, carburando piano nelle sue intenzioni, percepibile come un proiettile nelle improvvise inversioni di tendenza.

Di un bambino nazi (ma non troppo) che a dieci anni ancora non riesce ad allacciarsi le scarpe, di una madre ottimista e coraggiosa e di una ragazza ebrea faccia a faccia con amore, malinconia e intolleranza.

Storia di formazione delicata nel trattare temi in realtà tutto meno che inediti, Jojo Rabbit è un moderno gioco di contrasti capace di stupire.

Prima di iniziare, vi ricordo che Jojo Rabbit – protagonista sia ai Golden Globe che all’imminente notte degli Oscar – arriva finalmente anche nelle sale italiane da giovedì 16 gennaio.

 

 

 

 

Esattamente come è stato presentato, il racconto di Jojo Rabbit – scritto da Taika Waititi e adattato dal romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens – mette al centro il piccolo Jojo Betzler (Roman Griffin Davis), bambino di dieci anni pronto ad entrare nella Gioventù hitleriana e completamente fanatico di ogni singolo aspetto della ideologia nazista, almeno sulla carta. Per dire, Jojo ha posto così a riferimento la sfera nazionalsocialista tedesca che addirittura il suo amico immaginario è un buffo Adolf Hitler (Taika Waititi), a cui il ragazzo si ispira nella sua visione semplicistica, ridotta/indotta e infantile della realtà.

Un giorno però Jojo scopre che nella propria abitazione si nasconde Elsa (Thomasin McKenzie), una giovane ebrea, e tutte le sue convinzioni incominciano a vacillare, in un viaggio di formazione che nasconde più di qualche sorpresa.

Come da premesse, Jojo Rabbit parte quindi come un film che fa della Germania nazista una grossa bolla satirica e caricaturale, filtrata attraverso i colori vivaci e i toni gonfiati ed esplosivi di quanto possibile vedere dagli occhi di un bambino.

L’ingresso goffo dell’Hitler di Waititi e la divertente sequenza del campo di addestramento della Gioventù Hitleriana (vista e rivista nei trailer) sono su questo emblematici, e se da una parte già costruiscono le premesse per i personaggi di Jojo e del comandante Klenzendorf (Sam Rockwell), dall’altra illudono con la loro relativa semplicità su quello che poi sarà la successiva ora e mezza.

 

 

Jojo Rabbit è prima di tutto un film drammatico

Sì, perché Jojo Rabbit è prima di tutto un film drammatico. Ciascun momento di risata, sollievo e commedia nera esiste esclusivamente per fare da contraltare alle parentesi cupe, delicate ed introspettive della scrittura di Waititi. La cosa diventa evidente mano a mano che si prosegue nel crescendo della trama, con l’alternarsi tra questi due “volti” opposti che diventa cronico e di conseguenza fondamentale.

Dallo scontro tra le due spinte creative viene fuori la tipica volontà di toccare gli aspetti più subdoli dell’assimilazione di una dottrina, fino alla dimostrazione della sua fragilità una volta guardata negli occhi la spietata violenza del mondo reale, ben lontano da fantasticherie ingenue.

 

 

 

 

Mi spiego meglio, l’evoluzione di Jojo su questo piano è classica, prevedibile, quasi didattica, e il suo rapporto cardine con Elsa segue un canovaccio relativo alla discriminazione che mille volte siamo stati abituati a vedere nell’intrattenimento al completo, e questa è una grossa macchia, che perdono in primis per il registro doppio che Waititi gestisce alla grande.

L’Hitler del regista neozelandese è a proposito una rappresentazione perfetta della schizofrenia (nel senso più positivo del termine) del film, esattamente come la Rosie interpretata da una grandissima Scarlett Johansson è il volto dell’ottimismo positivo, sincero, dolce e marmoreo che nonostante tutto permea ogni virgola di Jojo Rabbit.

 

Scarlett Johansson Jojo Rabbit

 

La Johansson è essenziale al film quanto il protagonista Roman Griffin Davis

Da bravo caratterista, Taika Waititi è capace di passare dall’interpretazione di un innocuo amico immaginario – con poco a che vedere con la sua controparte storica – a quella di una presenza isterica, invadente e pervasiva, che con la presa di coscienza di Jojo si separa col tempo dalla mente del ragazzino.

La Johansson regala invece una performance di una sensibilità impressionante, personaggio forte nel suo affetto verso il mondo e la libertà, nel suo affetto verso il figlio, nel suo coraggio di alzare uno sguardo verso orizzonti nuovi e luminosi. Nei dialoghi sia con Elsa, sia con Jojo, emerge una donna essenziale all’anima del film come il piccolo Roman Griffin Davis.

Parlando di Griffin Davis, classe 2007 (sì, è un numero che fa specie anche a me), è al suo debutto con il film di Waititi, e lo fa nel migliore dei modi, tanto da cucirsi addosso Jojo Betzler nella sua scoperta dell’amore, nella sua eccentricità, gioia, entusiasmo e fantasia, dando pure vita praticamente da solo alle due scene drammatiche più intense e memorabili, rabbiose, cieche e disperate.

Una menzione la merita anche il solito Sam Rockwell, sempre capace di lasciare il segno su ogni produzione toccata (si pensi a Tre Manifesti e all’imminente Richard Jewell), e che qui si piazza – al netto della caricatura e del ruolo minore – come quasi una figura paterna per il protagonista, non priva di contraddizioni e specie sul finale meno lineare e sempliciotta di quanto sembri.

 

Sam Rockwell Jojo Rabbit

 

La regia decisamente riconoscibile di Waititi tiene insieme le redini di un film che, oltre a giocare per bene tra gli opposti con un cast eccellente, vanta un proprio stile fotografico, abbinato al meglio ai colori dei paesini quasi sospesi nel tempo della Repubblica Ceca, ospiti delle riprese in esterno, delle autentiche chicche che mantengono tuttora una forte integrità storica.

É una cura artigianale e sopra le righe che si nota tanto nei costumi quanto nella musica, con un accompagnamento costante che si disinteressa completamente del concetto di anacronismo (i Beatles e Bowie che cantano in tedesco nel ’45? Si può fare!).

Jojo Rabbit è un film che funziona e si distingue nel suo alternare con fluidità generi opposti, con un linguaggio sensibile e un cast semplicemente inattaccabile.

Un racconto con un canovaccio visto e rivisto non permette il definitivo salto di qualità, ma non annulla di certo il valore totale dell’ultimo parto di Taika Waititi.