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La Pepsi, i Comunisti e i Sottomarini

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Alla fine degli anni ’80 Pepsi si trovò per breve tempo ad avere la sesta flotta militare più grande al mondo per numero di sottomarini da guerra. Una vicenda bizzarra, dovuta a molti fattori, tra cui Nixon, la scommessa di un giovane manager, il mercato valutario e la complessità dell’economia sovietica.

La nostra storia parte nel 1959, all’American National Exhibition, vera e propria Expo dello stile di vita americano organizzata a Mosca, nel cuore dell’Unione Sovietica.

La nostra storia parte nel 1959, all’American National Exhibition, vera e propria Expo dello stile di vita americano organizzata a Mosca, nel cuore dell’Unione Sovietica. È qua che si terrà quello che è destinato a diventare uno dei più accesi e iconici confronti trai leader di due nazioni: più combattuto di un incontro di Boxe, avrebbe detto qualcuno; più pilotato, almeno nell’esito, di un match di wrestling, nella realtà dei fatti, anche se l’artificio è tutto opera degli americani, e i russi ne sono state vittime ignare.

Ma ci arriviamo.

 

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Pochi mesi prima a New York si tenne una Expo completamente speculare, dedicata alle meraviglie dell’ingegno sovietico.

Pochi mesi prima a New York si tenne una Expo completamente speculare, dedicata alle meraviglie dell’ingegno sovietico. Eventi come questi dovevano servire a rafforzare le relazioni trai due Stati. Di fatto le due potenze speravano anche di impressionare le popolazioni dello Stato rivale, convincendole vuoi della bontà del sistema capitalistico, o di quello sovietico , sulla base dei prodigi ottenuti dai rispettivi sistemi economici e valoriali.

L’American National Exhibition venne sponsorizzata dal Governo statunitense, con la partecipazione delle migliori aziende del Paese, oltre 450: da IBM a Kodac, passando per Disney, General Motors e la protagonista del nostro articolo, Pepsi.
Gli americani non esitarono a giocare sporco

Fu un successo strepitoso. L’Expo venne visitato da oltre tre milioni di sovietici, tutti stregati dalle TV americane a colori di ultimissima generazione, dalle auto sportive di GM e Ford, dalle pellicole hollywoodiane e anche dai futuristici… robot aspirapolvere.

Già, perché gli americani non esitarono a giocare sporco. Il russo medio non conosceva nulla dello stile di vita americano, la totalità delle aziende americane in mostra all’Expo non erano presenti nell’URSS. Così furono mostrate almeno una mezza dozzina di oggetti Hi-tech patacca, assolutamente inesistenti, troppo sofisticati e avveniristici perfino per lo stile di vita americano. A partire da un primo concept di robot-aspirapolvere.

Per non parlare del fatto che molti dei prodotti di mostra erano beni di lusso, ben lontani dalle disponibilità dell’uomo qualunque americano.

Dire che queste sono le tipiche case di un lavoratore americano, equivale a dire che il Taj Mahal è la dimora tipica del classico lavoratore tessile di Bombay

puntualizzava stizzita in quei giorni la Pravda, il giornale del regime comunista.

 

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Se c’è stato un momento in cui i russi si sono ritrovati in massa a dubitare per la prima volta del comunismo, probabilmente questo è avvenuto proprio durante la permanenza dell’American National Exhibition a Mosca.

 

L’American National Exhibition fu anche accompagnata da una spiacevole polemica. Durante l’esibizione dovevano venire esposte anche alcune illustrazioni ed opere d’arte di americani. Alcune pubblicazioni di destra ne chiesero il ritiro di una buona parte, accusando alcuni artisti selezionati di essere a loro volta comunisti. Un’indagine dell’House Committee on Un-American Activities portò alla conclusione che, effettivamente, era proprio così: dei 75 artisti in mostra, 34 avevano preso parte ad un qualche tipo di movimento comunista. Eisenhower si schierò contro la censura, e vennero comunque esposte tutte. L’America degli anni 50 non era nemmeno un paradiso per i diritti civili, quantomeno se eri afroamericano. Ci fu anche un acceso dibattito sul modo in cui dovevano venire rappresentati i neri nelle opere d’arte in mostra.

 

 

 

 

Il Kitchen Debate e
Krusciov che beve la Pepsi

Ma ad incuriosire particolarmente i russi, furono anche le moderne cucine iper-accessoriate delle aziende americane. E proprio davanti ad una di queste, con repliche da esposizione di frigoriferi, forni, e lavastoviglie, si tenne uno scontro di opinioni tra Nikita Krusciov e Richard Nixon, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti. Il duello passò alla storia come il Kitchen Debate.

 

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Il dibattito ha ritmi insoliti, le stoccate dei due leader vengono filtrate dai rispettivi interpreti in un primo momento divertiti, poi sempre più in imbarazzo. Krusciov si prende gioco dell’America, dice che l’Unione Sovietica ha ottenuto in pochi decenni quello che l’America ha fatto in secoli, dice che presto verranno sorpassati. Anzi, che lo hanno già fatto con i loro razzi e il loro programma di esplorazione spaziale.

Nixon ride alle battute dell’istrionico leader sovietico, poi però si fa serio e risponde punto per punto.

Capitalismo vs Comunismo, è in gioco la reputazione dei due sistemi economici e sociali destinati a farsi la guerra per altri 30 anni.

 

 

 

 

I due leader escono dal dibattito provati, Krusciov è visibilmente affannato e sudato. Ed è in questo momento che si avvicina un uomo affabile: «gradisce della Pepsi?». Il leader dell’Unione sovietica non ci pensa due volte ed afferra il bicchiere di carta in formato fast-food, trangugiando la bibita gassata.

 

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Insomma, il leader di quello che qualche decennio più tardi sarebbe stato chiamato L’impero del Male si ritrova a bere la bevanda più americana la seconda bevanda più americana del mondo. In realtà, come accennavamo più sopra, il fatto che il leader sovietico abbia bevuto la Pepsi davanti alla stampa è stato tutto fuorché fortuito.

Fu Nixon a condurre Krusciov davanti allo stand della Pepsi subito dopo il dibattito, e lo fece perché un dirigente dell’azienda glielo chiese espressamente.

Donald M. Kendall, che non a caso sarebbe passato alla storia come l’uomo che rese Pepsi il primo bene di consumo americano distribuito in massa in terra sovietica.

Il fatto è che il risultato era tutto fuorché scontato, e molti alla Pepsi non avevano ancora capito come mai fossero stati spesi tutti quei soldi per portare uno stand promozionale dell’azienda in un Paese in cui, molto probabilmente, non avrebbero mai venduto nemmeno una lattina.

Sapete, per quella cosa del comunismo e della guerra fredda.

 

 

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Non tutti alla Pepsi pensavano che spendere soldi per promuovere la bibita in un Paese comunista fosse un’idea molto sveglia

Kendall all’epoca era uno dei giovani astri nascenti della Pepsi, e con l’affare russo aveva deciso di giocarsi letteralmente tutto. La sua idea era quella di avere un enorme stand all’esposizione americana a Mosca, uno che desse l’idea di Pepsi come bevanda in grado di unire i popoli.

Non a caso, allo stand erano presenti due distributori distinti. Uno con la miscela di Pepsi mischiata ad acqua americana, l’altro con acqua russa. Bella idea Donnie! Peccato che il dirigente avesse organizzato tutto, così pare, scavalcando quasi completamente la dirigenza senior di Pepsi America.

Ora Kendal si trovava nella brutta situazione di dover giustificare i suoi sforzi alla dirigenza di Pepsi, e l’idea che si era fatto era che o avrebbe trovato un modo per far bere la bevanda al N.1 del regime sovietico, ovviamente davanti ai fotografi, o la sua missione sarebbe stata un disastro. E di questo ne avrebbe dovuto rispondere ai suoi capi.

Così Kendal il giorno prima approcciò il vicepresidente Nixon, spiegandogli la sua posizione.

Andai da Nixon la sera prima, all’abasciata, e gli dissi che ero nei casini in America perché gli altri pensavano che io stessi bruciando i soldi dell’azienda portando il brand in un Paese comunista. Gli dissi che, in qualche modo, dovevo mettere una Pepsi nelle mani di Krusciov.

Avrebbe raccontato qualche decennio più tardi al New York Times.

Krusciov provò tutte e due le versioni della Pepsi, e ovviamente dichiarò quella russa la vincitrice del confronto. Non si era accorto di aver appena regalato un’importante vittoria sia a Nixon che ad una delle aziende più grandi dell’America capitalista.

Fu senza dubbio uno degli stunt pubblicitari più luciferini della storia.

 

 

 

 

Scambiasi vodka per Pepsi, no?
Allora facciamo una ventina di sottomarini

Sei anni dopo, nel 1965, Kendall diventa CEO di Pepsi, e poco dopo riesce a concordare con i russi la concessione di un’esclusiva nella vendita di cole nell’Unione Sovietica. Un accordo, anche questo, reso possibile soprattutto grazie all’immutata amicizia tra il N.1 di Pepsi e l’uomo che ormai era diventato il N.1 del mondo libero, Richard Nixon.

Mentre americani e sovietici si facevano la guerra nei campi della geopolitica e dell’esplorazione spaziale, Pepsi stava conducendo la sua personale guerra fredda contro un altro colosso americano: Coca Cola.

L’URSS è l’unico mercato chiave dove Pepsi è riuscita a mettere in ginocchio l’azienda rivale, che poté sbarcare in Russia solamente dopo diversi anni.

 

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Non solo Pepsi si era aggiudicata l’Unione Sovietica con un accordo di esclusiva ventennale, battendo la Coca Cola, ma bruciò sul tempo tutte le altre aziende americane.

La Pepsi divenne il primo prodotto del capitalismo a venire distribuito nell’URSS.

Peccato che ci fosse un piccolo problema: i rubli non venivano mica scambiati nel mercato internazionale delle valute e l’Unione Sovietica non aveva certamente accesso a chi sa quali riserve di dollari per poter pagare la Pepsi.

Che fare? Si optò per un baratto: Mosca avrebbe pagato la Pepsi con Stolichnaya Vodka e, successivamente, anche conserva di pomodoro. Un affarone, anche contando che all’epoca Pepsi possedeva Pizza Hut e tutta quella conserva andava più che benone. A questo si aggiunge la possibilità per PepsiCo di mettere piede per la prima volta nel mercato degli alcolici.

Prosit.

 

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In realtà le leggi americane impedivano a Pepsi di vendere direttamente alcol, così venne siglato un accordo con un’azienda terza, la Monsieur Henri Wines Ltd. L’accordo viene siglato nel 1972, con il primo stabilimento a Novorossisk, sul Mar Nero. Lo sciroppo alla base della bevanda viene importato direttamente dagli Stati Uniti: «Pepsi non si fida di dare la sua ricetta ai sovietici», sintetizza la stampa dell’epoca. 

Inizialmente la fabbrica produce circa 80.000 bottiglie al giorno, poi la produzione passa a 190.000 bottiglie. Nei primissimi giorni i locali, ma soprattutto i turisti, incuriositi vuoi dalla novità, vuoi dall’inedita versione della bevanda con logo in caratteri cirillici, sono disposti a pagare la bibita una somma esagerata: le prime bottiglie vengono vendute a 31 kopek, più del doppio dei 15 kopek che erano stati pattuiti.

Ma presto la bevanda arriva ovunque. Nei ristoranti sovietici, nei distributori delle stazioni e degli edifici pubblici, e ovviamente nei bar. Allo stabilimento di Novorossisk se ne affiancano altri venti. Insomma, l’asse Pepsi-Mosca va a gonfie vele.

Per tutti gli anni 80 i russi consumeranno circa 1 miliardo di bevande Pepsi ogni anno, mentre PepsiCo nel 1988 sarà la prima azienda a far trasmettere una pubblicità a pagamento sulle televisioni locali — complice il fatto che anche Coca Cola pochi anni prima aveva trovato il modo per entrare in punta di piedi nel mercato.

Ben cinque spot da 60 secondi l’uno, due dei quali con Michael Jackson, e un’audience stimata di 160 milioni di spettatori.

 

 

 

 

In realtà i profitti di PepsiCo nell’URSS non schizzarono mai alle stelle

In realtà, nonostante fosse uno dei Paesi più strategici per l’azienda, i profitti nell’URSS non andarono mai alle stelle. Pepsi doveva mantenere uno staff monumentale a sostegno di un business che non aveva un volume altissimo: John Swanhaus, che negli anni 80 era a capo del dipartimento vini e liquori di Pepsi, in un’intervista spiegò che le vendite in URSS erano grossomodo paragonabili a quelle della sola area metropolitana di Orlando, escludendo dal conto Disney World (dove peraltro Pepsi non operava, l’esclusiva se l’era accaparrata Coca Cola).

 

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Nel 1987 l’accordo giunge al termine, e Mosca non ha la minima intenzione di rinunciare alla bevanda americana. Inizia una trattativa per un secondo patto PepsiCo-Mosca, che prevede anche l’aumento degli stabilimenti dell’azienda nel territorio sovietico.

Un accordo dal valore di 3 miliardi di dollari, ma, indovinate un po’? I sovietici non hanno ancora risolto il problema della convertibilità dei rubli. L’invasione sovietica in Afghanistan iniziata nel ’79, peraltro, aveva creato anche un movimento di protesta contro i russi negli USA che aveva azzerato le vendite della vodka, e per Pepsi continuare ad importare un brand così manifestamente sovietico in patria non aveva più così tanto senso. Un bello stallo.

Fortuna vuole che l’URSS si ritrovasse giusto qualche dozzina di navi da guerra di troppo come regalo della guerra fredda ormai vicina alla conclusione. «Non è che vi interessano?». Nel 1989 l’accordo viene chiuso.

Pepsi si ritrova in possesso di 17 sottomarini da guerra sovietici alimentati a diesel, oltre che di un incrociatore, una fregata e un cacciatorpediniere.

Acquista così la sesta flotta militare del mondo. Nel 1990 si aggiungono alcune navi cisterna e diversi aerei da trasporto.

A quanto pare stiamo disarmando i sovietici più rapidamente di quanto siate in grado di fare voi

avrebbe detto in quei giorni il nostro Kendal ad uno dei membri dello staff di George H.W. Bush. Gli stabilimenti della Pepsi sarebbero dovuti diventare 50, mentre l’azienda avrebbe anche iniziato ad usare le lattine in alluminio e le bottigliette di plastica per confezionare la bevanda, riducendo la centralità del vetro che, per la sua fragilità, non permetteva viaggi troppo lunghi: tendenzialmente una Pepsi in bottiglia di vetro non veniva distribuita oltre le 20 miglia dallo stabilimento in cui era stata prodotta.

Tornando alle navi da guerra, per chi stesse già immaginando scenari distopici fatti da immense mega-corporation che si fanno la guerra non più a colpi di beni e servizi ma con eserciti privati… no, quelle navi da guerra non salparono mai i mari issando la bandiera di PepsiCo.

Contestualmente l’azienda strinse un accordo con un’azienda svedese, che acquistò la flotta per smantellarla e rivenderne le ingenti tonnellate d’acciaio. Il primato della Pepsi durò solamente poche settimane.

Con il crollo dell’Unione Sovietica da lì a pochi mesi, Pepsi perse il suo accordo multimiliardario, che pure sarebbe dovuto durare fino al 2000. La comfort zone che si era costruita con relazioni di durata decennale scoppiò improvvisamente, e all’improvviso non solo non c’era più un’unica entità sovietica con cui trattare, sostituita da 15 distinti Stati con i loro rispettivi Governi, ma era venuto a meno anche il dirigismo economico.

Con l’avvento del libero mercato anche in quella parte del mondo, Coca Cola colse immediatamente la palla al balzo per prendersi tutto quello che Pepsi aveva costruito fino ad allora. Se la guerra fredda era appena giunta al termine, quella tra Coca Cola e Pepsi per diventare la bevanda preferita degli abitanti delle ormai ex repubbliche sovietiche si era appena riaccesa. Ma questa è un’altra storia.

La Russia continua ad essere uno dei mercati più importanti per Pepsi, il secondo subito dopo l’America, con l’8% delle vendite globali. Pepsi non ha più scambiato bibite in cambio di sottomarini o navi da guerra, quantomeno per quel che ne sappiamo.

 

 

 

 

 

 

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