Abbiamo visto in anteprima la nuova splendida pellicola di James Mangold con Christian Bale e Matt Damon, già diretta verso l’approdo agli Oscar 2020. Al di là della rivalità tra Ford e Ferrari, vive nella storica vittoria a Le Mans una storia umana di impegno, onore e sacrificio.
Esistono alcune pellicole difficili da elaborare di primo acchito, quelle esperienze capaci con consapevolezza di depositare qualcosa alle proprie spalle, allontanandosi dal sentiero del didascalico ed affondando a piene mani in un approccio problematico.
Sono quei chiodi fissi che riempiono le riflessioni di una giornata, nella esplicazione del significato di un cinema che vive delle sue immense capacità espressive e ragionate. Il ruggito del motore tra intimità ed aspirazione, Le Mans ’66 – La grande sfida, nuova produzione di James Mangold – incarna a tutti gli effetti il vero nucleo della più profonda esperienza di sala, forse nelle vesti di uno dei migliori racing movie mai realizzati.
A seguito del successo di Logan, Mangold mette da parte l’universo dei mutanti (su cui aveva lavorato anche con Wolverine: L’immortale) e si concentra a pieno titolo – con una raffinatezza sorprendente – su una realtà storica praticamente nata per essere romanzata e raccolta, al limite tra caricatura e dramma.
La lotta per l’aspro terreno della pista di Le Mans non si chiude esclusivamente attorno alla competizione tra Ford e Ferrari (che definisce giustamente il titolo originale, “Ford V Ferrari”), ma si estende in primis su ciascuna conseguenza umana di un confronto tecnico, ma anche soprattutto psicologico ed esistenziale.
Se la corsa – appunto – agli Oscar non fosse quest’anno così folle, affollata e stravolta da interessi di parte ed isterie di massa che poco hanno a che vedere con il medium, potremmo tranquillamente mettere la mano sul fuoco sulla presenza dell’opera di Mangold tra i benedetti dall’Academy, e tuttora nutriamo una certa speranza.
Le Mans ’66 è un concerto orchestrale e roboante di polvere, sudore ed ingranaggi, rabbia, grinta e sacrificio, giustificato dall’eredità ineluttabile che racchiude ogni parabola agrodolce della vita.
Stazioni di partenza degli anni ’60. Ford, ben lontana dal lustro del passato, cerca disperatamente un modo per relazionarsi con una generazione che cresce direttamente da un dopoguerra le cui tendenze appaiono ben distanti dall’ottica di manager vetusti.
Ferrari, con il design accattivante e lussuoso delle sue auto, sommato alle continue vittorie nelle competizioni di racing, è diventata con il tempo un vero status symbol, dal quale economie di massa come quella americana devono necessariamente imparare radicali lezioni.
É su questo impianto macroeconomico che definiremmo quantomeno pittoresco, specie se comparato all’asetticità di quello attuale, che Le Mans ’66 stende la tela di un intreccio in verità estremamente umano, di alti e bassi che si accompagnano a caratterizzazioni sfaccettate e mai pedanti, soprattutto per merito della solita immensa interpretazione di divinità come Christian Bale e Matt Damon.
Henry Ford II, fallito un tentativo di acquisizione di Ferrari e relativa scuderia (poi entrata nell’orbita della FIAT del buon Agnelli) ed umiliato dalla stessa in diverse occasioni, decide – per una questione di principio – di competere con gli italiani in quella che è la maggiore gara di endurance esistente: la corsa francese di Le Mans, 24 ore di circuito.
Per assolvere al compito, Ford si affida da una parte al viscido Leo Beebe (Josh Lucas), manager di alto livello della compagnia, dall’altra invece al talento di Carroll Shelby (Matt Damon), pilota ritirato ed ora designer ed ingegnere. Il lungo tragitto verso la costruzione della celebre Ford GT40 passa anche per Ken Miles (Christian Bale), inglese incarognito e veterano della seconda guerra mondiale, assoldato da Shelby per una straordinaria abilità – anche analitica – nella guida.
Nel mezzo del binomio Shelby/Miles e la rigida struttura verticale di Ford Motor si instaura quindi uno dei temi principali del film, testo implicito del contrasto tra l’idealismo di una passione senza compromessi e il freddo cinismo di un marketing scandito da terribili gabbie corporative. Appare facile compiere un salto ed arrivare a fare un paragone allegorico con la situazione attuale di Hollywood, ma nel suo intimo Le Mans ’66 non si limita a trasporre con particolare enfasi la dialettica del piccolo contro il grande, configurandosi al contrario in una prospettiva caleidoscopica e polimorfa.
Al di fuori dunque della parabola complessiva, comunque piacevole e godibile lungo il minutaggio piuttosto corposo di due ore e mezza, la messa in scena si concentra e brilla interamente attorno a due focus centrali, la fisicità delle corse e l’introspezione del drammatico decorso di Ken Miles (la cui vita è fatto storico, ma eviteremo comunque anticipazioni in tal senso). Quest’ultimo, che – lo ribadiamo – trova le proprie fondamenta su una prova fenomenale di Christian Bale, raccoglie il nocciolo privato ed emozionale di tutto ciò destinato ad avvenire dietro la facciata.
Un uomo non disposto al compromesso, legato alla propria famiglia e poco avvezzo a qualsiasi fenomeno di costume; la figura di Bale scorre al limite di un’ironia sferzante e piacevole, che rende a contrasto il grigiore dei piani alti un qualcosa dai tratti decisamente grotteschi (come vedrete con l’Henry Ford II di Tracy Letts e l’Enzo Ferrari del bravissimo Remo Girone). Inevitabile che il Carroll Shelby di Matt Damon assuma forse un ruolo di supporto rispetto all’importanza capitale dell’altro co-protagonista, come forse un Brad Pitt poteva rubare la scena ad un Leonardo DiCaprio, se vogliamo usare l’esempio recente di C’era una volta a…Hollywood.
Le note malinconiche di una fotografia spesso degna di essere incorniciata (grande lavoro di Phedon Papamichael) oscillano in armonia con movimenti di macchina delicati e compassati, in grado di sottolineare il profondo sostrato dietro la relazione di Miles e suo figlio (Noah Jupe), marchio di un’eredità immortale al di là del senso di chiusura di vita e morte. Sì, perché prima di essere un immenso film di corse dinamiche, Le Mans ’66 è una lente di ingrandimento negli abissi del saliscendi dell’esistenza, attraverso ogni frame sospeso nella riflessione dello spettatore.
A fianco tuttavia di una prima metà (quasi) in toto dedicata all’esplorazione di quanto suddetto, si sviluppa una seconda in cui la dimensione tecnica esplode con un fragore assordante, sincronizzando il ritmo cardiaco del pubblico con ogni curva, ogni rettilineo, ogni sussulto del cambio della Ford GT40.
Le inquadrature di Mangold catturano la claustrofobia degli abitacoli, come precisi movimenti di macchina la convulsione delle fasi più concitate della gara, quella 24 ore di Le Mans instancabile dal sorgere del sole al tramonto, passando per una notte interminabili. Qui come naturale la pellicola raggiunge orizzonti tecnici davvero notevoli, specie per merito di un sound editing e mixing sinceramente da Oscar, elementi essenziali per una resa convincente di una riproduzione tanto dettagliata quanto catalizzante.
La nostra promozione per Le Mans ’66 è insomma assoluta, giustificata da interpretazioni in assoluto marmoree e da una direzione di Mangold che non smette di confermare il suo talento.
Vi ricordiamo che Le Mans ’66 arriverà nelle sale italiane con 20th Century Fox dal 14 novembre.