Se c’è una cosa che la storia del cinema ci ha insegnato, è che, come in ogni ambito, anche in quello cinematografico si attraversano periodi in cui particolari filoni vengono particolarmente sfruttati. È successo con il noir, con i gangster movie, con il western… oggi sta accadendo con i cinecomic.
Dopo il successo del Marvel Cinematic Universe, ogni major che possedesse i diritti di almeno un supereroe ha provato a farne un adattamento cinematografico, nella speranza di poter attirare il pubblico. E, come spesso accade, ecco che si creano quasi spontaneamente variazioni sul tema.
Così come autori stimati, in passato, portarono in alcuni filoni contaminazioni da altri generi, come accadde ad esempio con il Django di Sergio Corbucci, che introduceva una violenza che sarebbe stata più propria degli horror all’italiana di qualche anno successivo, ci pensa James Gunn, oggi, a produrre un film di ispirazione chiaramente fumettistica con connotazioni completamente diverse. È così che Brightburn ha visto la luce.
Contrariamente a quanto la maggior parte del pubblico ha pensato, questa pellicola decisamente fuori da certi schemi non è diretta dal visionario regista di Guardiani della Galassia, ma da David Yarovesky.
James Gunn ha supervisionato il progetto e ha partecipato come produttore e la sceneggiatura è stata scritta dal fratello Brian Gunn e dal cugino Mark Gunn. tutto in famiglia, o quasi.
Del resto Gunn non è nuovo alla creazione di film supereroistici, avendo diretto Super e i due già citati film sui Guardiani, ma in ognuno aveva saputo pensare trasveralmente, condendo il primo di una violenza quasi surreale, ben più efferata e cartoonesca del Kickass di Matthew Vaughn, che però proveniva direttamente dal fumetto di Mark Millar disegnato da John romita jr.
Quanto ai secondi, è riuscito a creare una space opera ai limiti della perfezione, attingendo a piene mani dalla cultura pop. va da sè che, circondandosi Gunn molto spesso dei suoi familiari per le proprie creazioni (il motion capture di Rocket è stato interpretato per il 90% delle sue apparizioni dall’altro fratello di James, Sean), anche Brian e Mark qualcosa devono averlo imparato.
Brightburn non è propriamente un cinecomic, perchè il protagonista Brandon Breyer, interpretato dal giovane e inquietante Jackson A. Dunn, di fatto non esiste in alcun fumetto. E, a dirla tutta, non è nemmeno un supereroe, ma l’esatto opposto, un supervillain.
L’idea che sta alla base del film nasce da una semplice domanda: cosa sarebbe accaduto se Superman fosse stato uno squilibrato? Il risultato è un film che gioca con il filone dei cinecomic, ma è un horror puro, con tutti gli stilemi del caso. Nella fattispecie si avvicina di più allo slasher, accompagnato da scene tipiche del filone, in cui la vittima viene sadicamente braccata fino alla morte da un pazzo violento.
L’unica differenza è che dove un Leatherface o un Mike Myers userebbero motosega o coltello per massacrare le proprie vittime, Brandon utilizza i propri poteri alieni, che guardacaso consistono per lo più nella super forza o nella vista laser (o calorifica, se vogliamo), o, meglio ancora.
Già in altri media abbiamo visto opere simili, lo stesso Ultraman nei fumetti è una versione malata di Superman, ma per la prima volta abbiamo un film che segue di pari passo le origini dell’uomo d’Acciaio, modificandole, rendendole inquietanti e, per questo, anche più interessanti.
La regia di Yaroveski è attenta a mantenere lo stretto legame con l’estetica dei cinecomic che avrebbero voluto essere introspettivi, come lo stesso Man of Steel di Snyder, ma non smette mai di rivelare ad ogni inquadratura la sua naturapiù radicata nel genere horror, offrendo momenti di tensione eccezionali, con primi piani puliti e angoscianti, ma anche momenti action sbalorditivi.
Anche la fotografia si ostina ad ostentare quella tipica patinatura sbiadita, desaturata, ma a prestare particolare attenzione non riesce difficile notare quanto le immagini diventino sempre più fredde mano a mano che Brandon prosegue la sua discesa nell’oscurità.
Quello che però manca a Brightburn è la limatura dei dettagli: per quanto possa essere affascinante la riscrittura apocrifa delle origini di un personaggio tanto amato (per quanto il legame tra i due prodotti sia solo ideologico e non ufficiale) alcune cose sono date per scontate e, soprattutto, non è chiaro il motivo della follia di Brandon.
Da un certo punto di vista si potrebbe pensare che sia condizionato da un elemento esterno, da un altro che segua semplicemente la propria natura aliena. Manca un reale approfondimento psicologico del personaggio, il che può anche non essere visto come un difetto, dato che, di fatto, il protagonista è più simile al maniac di un qualunque film slasher. In quanto tale, non è importante che la sua psicologia sia approfondita, quanto piuttosto che emerga la sua malvagità, qualunque sia il motivo.
Brightburn è un film che ci prova con tutte le sue forze, che prova a regalare qualcosa di diverso allo spettatore e per buona parte ci riesce.
Al di là di qualche ingenuità perdonabile, la pellicola offre infatti un intrattenimento degno di tale nome, oltre a offrire un punto di vista diverso sul filone che più viene sfruttato commercialmente in ambito cinematografico.
È interessante poi l’idea di far coincidere il protagonista con l’antagonista, che per tutta la durata del film viene percepito come tale, ma non solo: ancora più peculiare è il fatto che si tratti di un bambino.
Nonostante la madre di Brandon, interpretata da una Elizabeth Banks più che mai in parte, sia senza dubbio un personaggio importante e determinante, il protagonista assoluto è il ragazzino.
Non accade mai però che si empatizzi con lui o si capiscano le sue ragioni: Brandon è il cattivo, fatto e finito. Spietato, inarrestabile, inquietante: probabilmente un personaggio ben più affascinante di quanto si sarebbe potuto pensare.
Questo, unito ad un finale ben congegnato, con tanto di perla citazionista che potrebbe lasciar sperare nella creazione di un piccolo microcosmo di cui questo film sarebbe solo il seme, rende Brightburn un prodotto godibile e apprezzabile, al netto di tutti i suoi difetti.
Per concludere, questo film dimostra che creare una trasposizione del personaggio di Superman soddisfacente, in epoca contemporanea, è più facile del previsto, se si ha dalla propria una sceneggiatura supportata da un’idea forte: si respira di più l’atmosfera supereroistica in questo what if apocrifo che in tutto Man of steel, a mio parere.
Questo perchè l’atmosfera dark è giustificata dal racconto stesso, mentre è semplicemente assurdo avanzare la pretesa di riscrivere il personaggio in chiave introspettiva e tormentata, vista la sua natura intrinseca di simbolo di speranza.
Va ricordato: Superman non è Batman. Dopo questa filippica amara non si può far altro che consigliare il film, nella speranza che possa divertire, ma anche inqueitare.
Non sarà poi così difficile che accada.
L’angelo del male – Brightburn è nei cinema italiani dal 23 maggio