La storia cinematografica legata agli squali è una senza dubbio una delle più fruttuose di sempre. Dall’indimenticabile capolavoro di Spielberg fino alla creatività trash di Sharknado, firmata dai folli ragazzi dell’Asylum. Ma gli squali sono davvero così pericolosi?
Nonostante il grande schermo voglia convincerci dell’aggressività di questa specie marina, la realtà risulta ben diversa. Se considerate che negli ultimi cinquant’anni solo un paio di dozzine di persone sono morte a causa di un attacco di squalo, vi risulterà semplice comprendere come l’incidenza sia sotto alla soglia del ridicolo.
Questo è dovuto soprattutto al fatto che delle centinaia di specie esistenti, solo una decina sono effettivamente aggressivi e pericolosi per l’uomo, tra cui ovviamente il grande Squalo Bianco, reso famoso in tutto il mondo dalla pellicola del 1975. Ciò che effettivamente fa così presa sul pubblico, è la consapevolezza della morte e l’efferatezza dell’azione. Ricorda un po’ ciò che succede con gli incidenti aerei.
Il mostro dei cieli è notoriamente e statisticamente il mezzo più sicuro del mondo e non si può certo dire che ne volino pochi ogni giorno sopra le nostre teste. Il motivo per il quale è in grado di generare così tanta paura è presto detto: la capacità di generare tensione, causata un po’ dall’idea di non avere i “piedi per terra”; un po’ da un certo tipo di cronaca e rappresentazione, anche sempre appartenente al cinema, che ne amplia fortemente l’incidenza psicologica.
Allo stesso modo funziona per gli animali. Pochi sanno che il più grande killer tra la fauna terrestre, seppur in maniera indiretta, è la zanzara, che causa centinaia di migliaia di morti ogni anno. Per restare su qualcosa di più esotico troviamo l’ippopotamo, che incredibilmente si piazza nei primi posti per cause di morte umana provocata da un animale. Difficile quindi dare la colpa agli squali per il gran numero di morti violente.
Ciò che davvero funziona della figura dello squalo, è la sua capacità di affascinare e allo stesso tempo incutere timore.
La sua fierezza nei mari, quando nuota a pelo d’acqua con la sua pinna in superficie, rappresenta un’immagine potentissima, in grado di attrarre e repellere lo spettatore allo stesso tempo. Questa sensazione è ciò che esiste alla base della capacità di rapire e narrare. Ben lo hanno capito registi come Spielberg e Turteltaub, autori rispettivamente del primo e dell’ultimo film appartenenti ad un genere che conta decine di titoli all’attivo e milioni di appassionati.
Il primo Jaws del regista di E.T., sue secondo lungometraggio cinematografico, rappresenta anche in qualche modo il suo stesso manifesto. È proprio da quella capacità di fascinazione, generata anche solo nella prima sequenza sulla spiaggia e nel modo in cui viene narrata la dipartita della prima vittima, che si esemplifica tutta la sua poetica. Certamente virata in seguito più sull’avventura vera e propria, quella grande capacità di coinvolgere e stregare, anche con movimenti e scelte poco naturali, ben si sposava con la voglia del pubblico di emozionarsi.
Lo stesso Spielberg, in più di un’occasione, ha affermato come la lavorazione de “Lo Squalo” lo abbia portato ad un passo dall’esaurimento nervoso, ma che allo stesso tempo gli abbia permesso di crescere e scegliere la strada da seguire in futuro. Un merito non certo da poco, considerata la carriera del regista di Cincinnati.
La sua potenza fu talmente devastante che, dopo la visione, tantissime persone smisero di recarsi a fare il bagno in mare, mentre altre, volendo sfidare la sorte, furono invece spinte alla ricerca di questa creatura marina. Probabilmente nessun successivo film sugli squali è mai stato in grado di raggiungere quel livello di splendore artistico e di risonanza, a partire dai suoi stessi sequel, non a caso orfani del proprio regista.
Certamente ricordiamo Profondo Blu, Open Water, The Reef, fino addirittura all’avventura tridimensionale Shark 3D.
Lì dove il primo di questi sfruttava l’idea degli studi genetici per regalarci degli squali super intelligenti; gli altri due si concentrano su storie molto più verosimili. Soprattutto Open Water narra, romanzandola, la vera storia di una coppia abbandonata accidentalmente nel mezzo dell’oceano.
Sfruttando il found footage e mettendo al centro della vicenda il rapporto personale tra i due protagonisti, si delinea una pellicola quasi vicina al cinema da camera, seppur ambientato nell’infinito blu dell’oceano. L’ultimo dei film dedicato alla figura degli squali: The Meg (arrivato da noi come Shark – il Primo Squalo), unisce in qualche modo i due aspetti analizzati poc’anzi.
La voglia di raccontare un film che possa fare leva sulla verosimiglianza degli eventi, si scontra con la fantasia dedicata alla rappresentazione di un megalodonte, antenato preistorico del nostro attuale squalo. Questa creatura, vissuta probabilmente fino a circa due milioni e mezzo di anni fa, rappresenta quanto di può vicino allo squalo si possa ricercare tra le specie marine ormai estinte da tempo. In questo panorama, Jason Statham interpreta un sub appartenente alla Marina degli Stati Uniti, il quale si ritrova a distanza di cinque anni da un primo fugace incontro, ad avere a che fare con questo gigante dei mari.
Il film di Jon Turtletaub non raggiunge certamente l’eccellenza del capostipite del genere, ma è in grado di rendere ancora attuale l’esaltazione che il pubblico prova per le pellicole dedicate agli squali. Con la consapevolezza di poter andare a fondo nel sentimento di terrore dello spettatore, ciò in cui Shark meglio riesce, è generare empatia per la distruzione e la sofferenza che un incontro disatteso è in grado di produrre.
Nessuno può dire con certezza se l’entusiasmo nei confronti di queste pellicole potrà durare in eterno, e certamente tutti avremmo bisogno di un nuovo capolavoro del genere dopo più di quattro decadi, ma ciò che è certo è che lo squalo, suo malgrado, è ancora oggi una delle creature ingiustamente ritenute più spaventose, che l’uomo ha la (s)fortuna di incontrare sul proprio cammino.