La cultura dello stupro nel mondo moderno, dalla tragica difficoltà maschile a comprendere il significato della parola “no” passando per la letteratura fino ai prodotti audiovisivi più recenti, con il primo rape & revenge movie diretto da una donna, Revenge.

Le parole d’ordine del 2018 sono state, senza ombra di dubbio, #MeToo e abuso, a partire dal caso Weinstein scoppiato a fine 2017 fino ad arrivare ai casi più recenti, da quelli più piccoli a quelli dalla risonanza mediatica più importante, compreso lo scandalo che vede coinvolta ancora Asia Argento, questa volta in veste di carnefice (accuse che l’attrice e regista ha subito respinto e dichiarato infondate).

Non è un caso se negli ultimi anni sia la serie tv, per esempio con The Handmaid’s Tale, serie più necessaria che mai che rappresenta un mondo dove si condanna in tutto e per tutto la figura della donna, disumanizzandola, confidandola a mero oggetto sforna prole “per il bene dell’umanità”, che con il cinema, come il più recente Revenge, si stiano occupando ancora di più dell’argomento.

 

Revenge

Revenge (2018) Coralie Fargeat

 

La violenza sessuale, lo stupro, è un argomento più controverso che mai. Non solo per ciò che rappresenta per le sue vittime questo gesto efferato, ma soprattutto per il suo essere preso ancora così sottogamba, così minimizzato e svilito, a tal punto da – per lo più involontariamente – incoraggiare la sua pratica, venendo bombardati costantemente da messaggi sbagliati e mal filtrati dai media dove la vittima diventa sempre più un’ignara carnefice fautrice del suo destino.

Perché la domanda non è più: “chi è stato?”, ma “come eri vestita?”

Automaticamente una minigonna diventa un “si”, quel viaggio per il mondo da sola diventa un “si”, l’essere troppo amichevole e disinvolta diventa un “si”, un drink di troppo diventa un “si” e tutto è giustificato, quasi giusto perché sì, se ti sei vestita in quel modo hai invitato lo sconosciuto incrociato sulla strada a violentarti; se hai bevuto te la sei cercata e quei ragazzi avevano il pieno diritto di capire che tu volessi essere stuprata e poi abbandonata in un angolo di strada.

I due poliziotti volevano solo darti un passaggio, sei tu che hai fatto capire loro di volere altro, giustificando la violenza. Non si viaggia da sole, ma sempre con le amiche, anzi meglio con un fidanzato o un marito, altrimenti è inevitabile finire stuprate, picchiate e uccise su una spiaggia.

 

Revenge

Avere Vent’anni (1978) Fernando Di Leo

 

Quello che ho scritto può sembrare un vero orrore da fiction, ma nella realtà dei fatti è normale amministrazione. Un morbo che da anni si è insinuato nella nostra società e ci rende tutti – o quasi – colpevoli di fagocitare comportamenti che poi restano impuniti per via della gonna, dell’alcool o dell’età dei carnefici sminuendo il tutto con: “ma sì, è stata una ragazzata!”, senza minimante prendere in considerazione la macchia, la vergogna e la paura che la persona che ha subito quella violenza si porterà a vita sulle spalle.

Questa da me descritta si chiama cultura dello stupro e non si ferma solo agli atti consumati, ma anche alle parole, alle immagini, ai simboli di una società ancora patriarcale dove la ragazza carina ha fatto carriera perché ha aperto le gambe e non perché è brava.

Dove se dici di “no” ad un uomo è impossibile che tu sia seria, è ovvio che lui debba prendersi con la forza ciò che gli spetta. Dove le molestie e le avance indesiderate sono “complimenti” e dove se sei stata violentata una volta, è lecito pensare che adesso chiunque possa pretendere su di te il “suo turno”.

 

Revenge

Arancia Meccanica (1971) Stanley Kubrick

Nella nostra società si parla più che mai di cultura dello stupro, nella realtà quanto nella finzione scenica, eppure pochissimi sanno di cosa si tratti veramente. O peggio, pochissimi sanno dell’esistenza di un qualcosa definito come “cultura dello stupro”.

Per dirlo in parole povere: dal “complimento” viscido per la strada alla violenza carnale il passo è breve, per aver semplicemente giustificato il primo, dando la parvenza a chi lo compie di essere nel giusto e nel caso di rifiuto, essere autorizzato a prendersi con la forza ciò che gli spetta. Una sorta di “corteggiamento” vecchio come il mondo, legale in alcune culture, tollerato in altre (compresa la nostra).

Si, perché nessuno – se non chi lo prova – può capire la sensazione di disagio, disgusto e profonda insicurezza che si prova quando per strada ogni sguardo è alla ricerca del pezzo di carne, della scollatura, del volerti abusare anche solo con lo sguardo.

L’angoscia di quel “bellissima” o “amore, sei una favola”, che apparentemente sembrano essere parole innocue, ma che diventano lame affilatissime, esattamente i nutrienti di una cultura basata sulla continua sessualizzazione, sul potere e sulla violenza dell’uomo nei confronti della donna.

E se ignori i “bei complimenti” e non ringrazi? Sei una frigida troia! Quindi, taci e stai zitta, che ti faccio sentire io come una donna vera!

 

Revenge

Revenge (2018)

 

Ed è un po’ quello che succede alla protagonista di Revenge, in uscita il 6 Settembre nelle nostre sale, è il primo rape & revenge movie girato da una donna, la francese Coralie Fargeat. Protagonista della pellicola è Jen (Matilda Lutz), la classica “bionda bella e scema”, convinta di passare un weekend di pace nella tenuta del suo ricco fidanzato, Richard.

Ma il weekend da sogno di Jen si trasforma in un incubo ad occhi aperti.

Alla coppia si uniranno due amici di Richard, uno dei quali stuprerà Jen, per poi essere aiutato proprio da Richard a liberarsi definitivamente della ragazza che minaccia di denunciare l’avvenuto. Persa nel deserto, creduta morta, ferita e umiliata, Jen mediterà la sua vendetta in quella che sarà una vera e propria giustizia privata fino all’ultimo sangue.

 

Revenge

Revenge (2018)

 

Senza girarci troppo in torno la trama ricorda, almeno nel nucleo del film, la pellicola del 1978 diretta da Meir ZarchiNon Violentate Jennifer (“I Spit on Your Grave”), di cui è stato fatto un remake ufficiale (oltre ad altri due non ufficiali) nel 2010 diretto da Steven R. Monroe  con tanto di due sequel.

Ovviamente il senso non è tanto parlare di quanto il film prenda spunto o meno dalla pellicola del ’78; quanto, invece, trovare una donna a dirigere una pellicola cruda che vede come tematica

un argomento che riguarda soprattutto le donne, ma che al cinema viene per lo più trattato dagli uomini.

I Spit On Your Grave (1978) Meir Zarchi

 

Revenge è solo uno dei tanti nuovi prodotti che, in un modo o nell’altro, riflettono la realtà nella quale viviamo dove i “no” non servono a nulla, e lo stupro diventa una conseguenza logica per un uomo “profondamente ferito” nell’orgoglio se respinto dalla “preda” della serata.

Addirittura, in questo caso, la forza, la violenza diventa motivo di lode, di maggiore fierezza di sé stessi e soddisfazione per aver del tutto piegato alla propria volontà una donna. Non si pensa neanche per un secondo del vero e proprio delitto che si sta commettendo. Non viene preso neanche lontanamente in considerazione il fatto che lo stupro è un reato e che deve essere punito dalla legge.

Una violazione, nonché violenza, dei diritti umani, se non quando subentra la minaccia di “denuncia” e, allora lì, bisogna rimediare all’errore… cancellando per sempre l’unica fonte di verità: la vittima.

 

Revenge

I Spit On Your Grave (1978)

 

Quella descritta è solo una delle tante forme di stupro o abuso di potere. Margaret Atwood e il suo The Handmaid’s Tale ci ha mostrato di come, oltre allo stupro, ci siano mezzi ben peggiori per annullare la volontà, l’identità di una donna, inserendola in un contesto in cui è costantemente punita per aver rinnegato i sacri valori come il rispetto per il proprio uomo e vivere unicamente in funzione di mandare avanti la specie.

Un mondo dove neanche per un secondo si prende in considerazione l’ipotesi che, forse, la colpa sta proprio nella parte maschile o, per lo meno, anche nella parte maschile.

Serve usa e getta, dall’inizio alla fine della propria esistenza, senza aver diritto alla libertà di pensiero, di parole. Alla libertà di dire no. “Non-donne” al servizio dei loro schiavisti. Ovvio che il mondo descritto dalla Atwood nel suo romanzo, e che negli ultimi due anni ha preso forma sui nostri schermi, è un mondo molto estremo, ma non per questo troppo differente dal nostro. Il punto è esattamente lo stesso: il rifiutare la libertà di affermazione della donna.

 

Revenge

The Handmaid’s Tale (2017)

 

In The Handmaid’s Tale si riassume perfettamente il concetto di stupro, alla base della cultura dello stupro, dove l’animalesco desiderio sessuale deve essere represso e condannato – e proprio per questo motivo desiderato ancora di più dai “grandi” uomini protagonisti della serie – e la violenza sessuale viene giustificata solo ai fini biologici di riproduzione.

Queste due sono le facce della stessa medaglie della violenza sessuale, teorizzate dall’antropologo Craig Palmer e dal biologo Randy Thornhill in uno dei più importanti testi sull’argomento degli ultimi anni, A Natural History of Rape: Biological Bases for Sexual Coercion.

Se ancora per qualcuno le parole “cultura dello stupro” potranno sembrare sconosciute e stonate insieme, per altri la cultura dello stupro è la conseguenza di come l’abuso sessuale sia diventato una forma “comune” all’interno della vita di tutti i giorni della società patriarcale occidentale.

Forma non tanto vista quanto una violenza, ma quanto una conseguenza – giustificata e incoraggiata – una punizione che la vittima in questione ha meritato di ricevere o una “semplice” espressione di accoppiamento tramandato nei secoli.

 

Revenge

The Handmaid’s Tale (2017)

 

Non è un caso se abusi e violenze sessuali tra le mura domestiche sono proprio i primi casi a venir dimenticati velocemente da terzi, dove alle denunce non viene dato peso, spesso senza dar credito alla vittima.

E questo perché? Perché per la nostra società è ancora accettabile che un marito abusi di sua moglie, senza vedere la differenza tra stupro e amore. Del resto, ci è sempre andata a letto col marito, no!? E poi, si sa, l’amore non è bello se non è litigarello…

Bisogna riflettere su questi esempi e capire quanto tutto ciò faccia talmente tanto parte della nostra vita da essere considerato normale.

Non è un’invenzione, qualcosa di inusuale o frutto del femminismo fanatico o del #MeToo, quest’ultimo finalizzato a far uscire, una volta per tutte, le donne abusate, violentate fisicamente e psicologicamente, infondendo il coraggio – la prima cosa a morire in un clima in cui la vittima è sempre più carnefice – di denunciare.

La cultura dello stupro nasce negli anni ’70 proprio al cinema, più precisamente con un documentario diretto da Margaret Lazarus chiamato, appunto, Rape Culture.

Nel documentario, la regista cerca di analizzare come lo stupro venga rappresentato all’interno nelle forme di intrattenimento, quasi unicamente con protagoniste femminili, messe all’angolo e che non posso aggrapparsi neanche alla vana speranza di giustizia.

 

Revenge

 

Lo stesso sesso, al cinema, che sia quello passionale o meno, viene rappresentato il più delle volte con una totale prevaricazione dell’uomo e della donna, dove è impossibile auspicare una forma di rispetto reciproco dove entrambe le parti sono sullo stesso piano.

Il tutto sfocia nella violenza. E più libera, bella e intraprendente è una donna, più essa merita di essere punita. Una continua questione di potere, assai differente dalla parola sentimento.

Posso immaginare le reazioni di alcuni nel leggere queste parole. Per qualcuno potranno sembrare esagerate, un po’ da martire o frutto di mera esagerazione mediatica; ma come la storia ci ha insegnato negli anni, la realtà supera sempre la fantasia, e mai come oggi la cultura dello stupro, questa solidarietà maschile (e tragicamente anche a volte appoggiata dalla stesse donne) che incoraggia ad umiliare con questa pratica barbara le donne che si rifiutano di cedere, è più forte che mai.

 

Revenge

Irréversible (2002) Gaspar Noé

Si, perché lo stupro altro non è che una violazione dei diritti umani, usata come arma, paradossalmente, di negazione.

Basta farsi una semplice “passeggiata” su Facebook, trovare un post a caso sull’ennesima violenza e leggere i commenti. C’è chi urla alla finzione, tutto inventato per i 10 minuti di celebrità (con una violenza?); chi giudica; chi “al suo posto io avrei reagito”; chi incita a rimetterci al nostro posto.

Quando ci sono vittime che non ce la fanno e distrutte si tolgono la vita, arrivano i vari “hai fatto bene”, “evidentemente non era buona neanche per scopare”, “un peso in meno”. E non solo uomini, ma anche donne, colleghe, madri che analizzano inutili dettagli, dall’abbigliamento al makeup, dai capelli ai tatuaggi.

Ma può davvero il mio rossetto, la mia messa in piega o la mia scollatura autorizzare qualcuno a un atto così inumano? No, eppure sembra di si!

 

Immagini di una mostra “What were you wearing?” di vestiti di vittime di stupro allestiti lo scorso anno all’Università del Kansas:

 

Alla base della cultura dello stupro, di cui se ne parla moltissimo all’interno degli studi di genere e e nella letteratura femminista, non c’è solo lo stupro intenso come una forma di potere e prevalenza del sesso maschile, ma come una vera e propria punizione nei confronti dell’altro sesso; il classico “se l’è cercata”.

Per darvi una spiegazione più tecnica e dettagliata, ecco uno stralcio preso dal testo Transforming a Rape Culture dalle studiose di gender studies Emilie Buchwald, Pamela Fletcher e Martha Roth.

[…] un complesso di credenze che incoraggiano l’aggressività sessuale maschile e supportano la violenza contro le donne. Questo accade in una società dove la violenza è vista come sexy e la sessualità come violenta.

In una cultura dello stupro, le donne percepiscono un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso.

Una cultura dello stupro condona come “normale” il terrorismo fisico ed emotivo contro donne. Nella cultura dello stupro sia gli uomini che le donne assumono che la violenza sessuale sia “un fatto della vita”, inevitabile come la morte o le tasse. […]

E se ancora non aveste ben chiaro cosa sia la cultura dello stupro, vi voglio dare due esempi pratici, reali. Non parliamo di cinema, serie TV o letteratura, ma della cruda realtà nostrana e internazionale.

Come esempio vi riporto le storie, recentissime,  di una diciottenne inglese in vacanza studio in Italia, a Napoli, e della venticinquenne messicana Maria Mathus Tenorio, nel suo lungo viaggio in solitaria iniziato e finito a Costa Rica.

 

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Nel primo la dinamica è semplice, comune a quella di tanti casi analoghi, spesso finiti in prescrizione proprio a causa di quel “drink di troppo” e dell’età degli indagati. Festa Erasmus nella Napoli bene. Si ride, si scherza e si beve. La studentessa inglese in questione alza di troppo il gomito – e chi non l’hai mai fatto a 18 anni? – e le viene “offerto” di essere riportata a casa da due suoi coetanei italiani (ragazzi borghesi di ottima famiglia, non criminali o pochi di buono).

Ovviamente “casa” diventa una meta impossibile per la ragazza, stuprata da entrambi i ragazzi e abbandonata sul ciglio della strada. In fondo, il loro trofeo, lo avevano già avuto. Perché prendersi la briga di riportarla davvero a casa con il rischio di essere visti? Già di per se questo basterebbe a far capire tante cose – ma tanto sappiamo che tra qualche lettore qualcuno starà già pensando che poteva imporsi di più nel non salire su quell’auto, poteva non bere, poteva stare più attenta.

Ciò che rende disturbante e raccapricciante l’incubo di quella che poteva essere nostra sorella, amica o cugina o figlia, o quella che potevamo essere noi, è il seguito. Nella disperazione arriva la speranza. Un ragazzo che la vede, la trova disperata, ferita e sconvolta e da bravo cavaliere si offre di riportarla a casa, magari anche andare al commissariato più vicino. In realtà ciò che succede dopo sembra essere tanto inevitabile quanto disgustoso.

La ragazza non solo viene violentata una terza volta dal “coraggioso cavaliere senza macchina”, ma le parole, le giustificazioni di lui sono sconvolgenti: “adesso è il mio turno!”

Se sei stata già stuprata, in questa società, stai legittimando il prossimo a riservarti nuovamente la stessa “cortesia”, perché adesso è il suo turno. Questa è cultura dello stupro.

Il caso è dello scorso Marzo. I tre ragazzi sono tutti liberi.

 

La storia di Maria Mathus Tenorio è ancora più tragica. Maria non ha indossato vestiti succinti, non ha bevuto ad una festa o si è “lasciata accompagnare a casa”. Maria aveva deciso di viaggiare da sola, girare il mondo, come fanno moltissimi ragazzi e ragazze con la zaino in spalla.

La sua prima tappa è stata la Costa Rica. Maria ha avuto la presunzione di affrontare un viaggio da sola e ne ha pagato quelle che sono le conseguenze secondo una società che deve umiliare una donna che crede di potercela fare senza un uomo.

 

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Maria non è solo stata stuprata da due uomini, legittimati dal fatto che Maria – come tante donne – fosse una ragazza in viaggio da sola, “abbandonata a sé stessa”, accompagnata solo per quella sera da una ragazza inglese conosciuta sul posto. Maria è stata anche uccisa, lasciata su quella spiaggia che sarebbe dovuta essere la sua prima tappa di un lungo viaggio. Un viaggio ricco di avventure ed esperienza, ma che si è trasformato in un incubo finito in tragedia, come già accaduto lo scorso ad altre due ragazze straniere a Cuba, e sempre lo scorso anno ad un’altra ragazza, questa volta nel Salento.

Storie che hanno in comune la colpa di viaggiare da sole; di avere “il coraggio” di affrontare un viaggio senza sicurezze. Ma perché dobbiamo essere noi ad essere nel torto? Perché la colpa non è mai di chi violenta, di chi prende con la forza e strappa via una vita? Perché la colpa è sempre quella di chi vuole vivere?

Ecco, anche questa è la cultura dello stupro. Questo è il mondo in cui, troppo spesso, siamo costretti a vivere.

I due aguzzini di Maria sono stati poi fermati (miracolo), ma non si sa ancora quali saranno le loro sorti. Intanto, la storia di Maria sta facendo il giro del mondo, coinvolgendo tantissime donne vittime e no, stanche di dover combattere contro questo mostro chiamato intolleranza, ma più decise che mai a vincere la guerra.

Una guerra che non si può combattere con il silenzio, ma che si combatte denunciando, parlando, facendo conoscere storie e movimenti. Nel mio piccolo piccolo piccolo, con questa leggera infarinatura che voleva più essere uno spunto di riflessione, è proprio quello che ho provato a fare.

 

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Una lunga riflessione nata proprio dall’amara sorpresa di scoprire che troppi ancora non sanno dell’esistenza di una cultura dello stupro, ignorando – nel bene e nel male – un terribile elefante nella stanza.

Questo argomento non troverà il gusto di tanti, ma vi confido che non mi importa, anzi avrei voluto dare molta più voce a tante, troppe, donne, ma l’aver rimuginato così tanto su questi paragrafi mi ha fatto capire quanto poco coraggio abbia ancora anche io.

Concludo con ciò che un grande regista, Steven Spielberg, mi ha detto qualche mese fa a Milano e che ben riassume quanto detto fino a questo punto:

Purtroppo, anche in questo momento, si tratta di una lotta di potere. Io non ho assolutamente le giuste competenze per poter fornire una risposta alle cause di quanto sta succedendo e di quanto è successo, ma quello che so è che le donne, in un modo o nell’altro, riescono sempre a far sentire la loro voce, perché fin da subito loro hanno trovato il modo di comportarsi, di interagire e interfacciarsi con il mondo.

Gli uomini, invece, tutto questo ancora non l’hanno trovato e, peggio ancora, non sono ancora in grado di accettare un “no” come risposta da parte di una donna. Quindi, proprio per questo motivo, questa lotta è destinata a continuare.