L’ingombrante figura del cinema d’autore e il triste destino di Alien: Covenant

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Ignorato dalla critica e stigmatizzato dal pubblico, il sequel di Prometheus ha dimostrato, nel tempo, una spiccata dote di sensibilità estetica tipica del panorama fantascientifico di stampo autoriale. Cosa può averne decretato il fallimento e, forse, la sua rivalutazione?

Era l’11 maggio del 2017 quando nelle sale cinematografiche italiane veniva proiettato per la prima volta Alien: Covenant, il film che avrebbe dovuto ricucire lo strappo creatosi tra i fan della saga e Ridley Scott, colpevole – con Prometheus – di aver ripreso in mano le vicende dello xenomorfo senza però essere stato in grado di instillare nella pellicola la giusta essenza creatrice del film originale.

Passata la tempesta, si cercherà di porre come obbiettivo quello di riabilitare l’immagine di un film che, a più di un anno dalla sua uscita, ha dimostrato come l’autorialità in ambito cinematografico sia ancora un valore da comprendere, rispettare e – nei limiti del possibile –  lasciar proliferare.

Alien: Covenant riprende il filo strutturale della narrazione laddove si era interrotto il suo predecessore, enfatizzando ulteriormente la figura di David, che darà vita a una drammatica dicotomia insieme a un secondo androide, Walter.

Anche questa volta Scott dimostra di essere pienamente consapevole del proprio rapporto privilegiato con il genere fantascientifico, sa come avvicinarsi ad esso, sviscerarlo in modo sensibile e rimodellarlo con una veste estetica e narrativa di assoluto impatto.

E questo è ciò che è esattamente accaduto con l’ultimo capitolo della saga, un film che riprende i tumulti rappresentativi del primo Alien, ma li riadatta a una visione artistica e culturale contemporanea, ripristinando quello che dovrebbe essere il compito principe della fantascienza: sperimentare nuovi linguaggi capaci di indagare questioni e problematiche universali.

Arriviamo, adesso, al punto nevralgico della situazione: cosa ha portato appassionati e non del film originale a bocciare quasi completamente questo prodotto?

 

 

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Il modo più efficace per comprendere queste risposte è quello di proporre immediatamente un altro interrogativo: cosa spinge gli appassionati dell’Alien originale a chiedere nuovamente di rivivere quell’esperienza visiva/narrativa?

In linea generale si potrebbe ricavare la seguente risposta: l’assenza delle atmosfere tipiche del primo film, aggravata da una sceneggiatura fallace incapace di rispondere a determinati quesiti di carattere esegetico.

Insomma, un Alien che non è stato propriamente un Alien e una storia scadente che non ha detto nulla a tutti coloro che bramavano risposte sulla genesi dello xenomorfo.

Il modo più efficace per comprendere queste risposte è quello di proporre immediatamente un altro interrogativo: cosa spinge gli appassionati dell’Alien originale a chiedere nuovamente di rivivere quell’esperienza visiva/narrativa? Anche se paradossale, la risposta potrebbe essere semplice: la sicurezza.

Una motivazione a cui fa eco la costruzione, negli anni, della propria singola identità culturale che nel tempo ha consolidato tutti quei ‘meccanismi di difesa’ autoreferenziali. Cosicché l’ambiente claustrofobico diventasse il paradigma della tensione e dell’isolamento, l’alieno sfuggente il simbolo di un terrore oscuro e inevitabile, e così via.

Il problema è che con Scott tutta questa impalcatura viene clamorosamente a mancare perché, come dimostra la sua stessa filmografia, ci troviamo dinnanzi a un autore che fin dall’inizio della sua carriera ha mostrato in modo forte e incessante l’interesse per una visione del medium stratificata su più livelli, districandosi in modo del tutto armonioso tra estetica, teleologia, esistenzialismo, psicologia e i più svariati ambiti del sapere umano.

Anzi, mosso da uno spirito quasi filosofico più che cinematografico, il cineasta inglese non si è mai risparmiato nel mettere costantemente in gioco il proprio fondamento artistico, arrivando a decostruire la sua metodologia d’indagine, in una sorta di nitzscheano rinnegamento e infedeltà di sé stesso.

 

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Dopo questa breve, ma necessaria, analisi sul background autoriale di Ridley Scott, si può iniziare ad analizzare quelle che sono le tematiche e i punti focali di Alien Covenant che, non bisogna mai dimenticare, ha un continuum semantico molto forte con Alien, solo che viene manifestato con un linguaggio diametralmente opposto.

Il film, fin dalla primissima sequenza iniziale, mette in evidenza quello che sembra un complesso di forze molteplici che si agitano al di sotto della rappresentazione estetica voluta dall’autore, a echeggiare lentamente – ma costantemente – restituendo quasi l’idea, grazie anche alla magnifica colonna sonora, di uno sconfinato limbo al cui interno giacciono pulsioni colossali pronte a destarsi per travolgere l’occhio dello spettatore.

Un’atmosfera che in pochi minuti condensa tutto quello che è e sarà lo spirito dell’opera, mescolando temi e visioni come il creazionismo, la religione, il determinismo e un non trascurabile metafisico complesso edipico.

Un’atmosfera che in pochi minuti condensa tutto quello che è e sarà lo spirito dell’opera, mescolando temi e visioni come il creazionismo, la religione, il determinismo e un non trascurabile metafisico complesso edipico.

Scott, in pratica, sta restituendo al pubblico quella che è la sua visione dell’esistenza dell’uomo, dei rapporti che lo regolano (e relegano) con il resto dell’universo e di tutto ciò che può essere rinchiuso nel concetto di ‘vita’.

E le risposte che ci fornisce non sono tra le più rassicuranti, dato che lascia intravedere un nichilismo di base su cui si avvicendano ininterrottamente una vastità di eventi e forze instabili, accompagnate da quella che è la rappresentazione dell’uomo: un essere artificiale che interrompe l’equilibrio di queste correnti caotiche.

L’uomo inteso come artificio – come si era già visto in Prometheus – sembra ostruire quello che è lo svolgimento naturale degli eventi, proponendo, da dopo il suo avvento, un percorso verticale dove confluiscono e si inabissano tutti quegli elementi correlati alle sue ricerche conoscitive.

Lo stesso androide David, nonostante la sua natura ontologicamente non umana, muove le sue azioni e si immerge nei meccanismi di sovversione e riproposizione del potere, tipiche dei suoi creatori. È un uomo a tutti gli effetti.

 

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Questi processi prendono forma, sempre nella sequenza iniziale, mostrando come il film, perennemente in bilico su una pluralità di potenze soggioganti, proceda per punti di rottura, evidenziandone immediatamente due:

Tutti questi processi prendono forma, sempre nella sequenza iniziale, mostrando come il film, perennemente in bilico su una pluralità di potenze soggioganti, proceda per punti di rottura
Nel primo si può notare un neonato David chiedere rassicurazione sulla propria identità di figlio, ma la sua richiesta si scontrerà con la visione pragmatica e utilitarista di Weyland. Il secondo è ancora più destabilizzante e segnerà un preciso punto di non ritorno.
La riflessione proposta da David sulla longevità dell’esistenza umana, infatti, rimanda a quella che è una naturale e sintomatica curiosità di immedesimazione tra padre e figlio, a cui Weyland risponderà con la cinica frase «Versami il tè, David». Questo è, appunto, il secondo momento di rottura. Un momento che – grazie a un rapidissimo turbamento di sguardo effettuato da David, prima di tornare a dissimulare un ethos stabilizzato – lascia intravedere lo squarcio creatosi nella coscienza dell’androide.

 

Ecco, quindi, come Scott ci mostra – attraverso Weyland – l’immagine di un uomo impossibilitato ad accettare l’idea di una genesi umana frutto della casualità e dell’indifferenza sovrannaturale, ma che allo stesso tempo si approccia con la propria creatura ricorrendo a quei meccanismi distaccati e disinteressati di cui egli stesso ha timore di fare esperienza.

Anche se questo straordinario incipit basterebbe da solo per trasmettere tutti gli strumenti adeguati per la comprensione della pellicola, il regista, ovviamente, non si ferma qui e continua con lo sviluppo su larga scala di quelle tematiche sensibili alle proprie capacità lavorative.

 

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Se, finora, è stato abbastanza palese il confronto di Scott con la Genesi sia a livello biblico sia antropologico, diventa ancora più significativo la sua visione di quello che è un altro elemento a sfondo religioso: l’Esodo. Ed è in questo contesto che il regista di Blade Runner palesa la sua innata sensibilità nel trattare argomenti di carattere esistenziale (ed è bene ricordare come Genesi ed Esodo non siano, per Scott, tratti da ricondurre a una visione prettamente religiosa, bensì una connotazione esistenziale intrinseca in ogni essere umano).

Come rappresentare e rendere credibile una situazione del genere nell’epoca attuale?

Scott sa benissimo che è impossibile riproporlo in un mondo contemporaneo avulso a qualsiasi forma di imprevedibilità trascendentale, per questo ne identifica la giusta dimora al di fuori dei confini terrestri. Attraverso il linguaggio della fantascienza è possibile quindi fare esperienza visiva dell’esodo, rappresentato da una nave spaziale alla ricerca di una pianeta fertile su cui poter stabilizzarsi.

Questo forte concentrato di simbolismo prende ramificazioni ancora più profonde quando a risvegliare pericolosamente l’equipaggio sarà un evento naturale la cui previsione, come farà capire l’androide Walter, sarà in futuro impossibile da immaginare.

Ecco, quindi, che la sceneggiatura di Alien: Covenant non si dimostra carente o altalenante, anzi parla direttamente e indirettamente allo spettatore con una estetica e un simbologia narrativa che rifugiano da qualsiasi forma di svolgimento didascalico della storia.

Ecco, quindi, che la sceneggiatura di Alien: Covenant non si dimostra carente o altalenante, anzi parla direttamente e indirettamente allo spettatore con una estetica e un simbologia narrativa che rifugiano da qualsiasi forma di svolgimento didascalico della storia.

Basti pensare al background costruito intorno alla figura del capitano della nave, Oram. Il suo morire guardando in faccia il pericolo non è l’abuso di un cliché cinematografico, bensì la logica conseguenza di un archetipo umano che non riesce a sottrarsi alle molteplicità delle forze che lo sovrastano e a una natura che lo pone in difetto nei confronti dell’universo.

Il personaggio interpretato da Billy Crudup è un traghettatore pervaso dalla fede e dalla volontà di non accettare un destino che lo vede ai margini del progetto divino. Come evidenziato in precedenza, la maestria di Scott nel riproporre la struttura dell’Esodo è propedeutica per trasmettere quella visione angosciante dell’esistenza messa continuamente in pericolo da eventi misteriosi e di cui non si può avere conoscenza.

L’ennesimo momento di rottura che dilata lo svolgimento degli eventi è, a questo punto, l’improvvisa tempesta di neutrini a cui nemmeno la perfezione scientifica – rappresentata da Walter – riesce a dare una risposta, così come l’atteggiamento dell’equipaggio che instaura nella mente di Oram un ingombrante e ansiogeno concetto di sfiducia. Queste situazioni porteranno il capitano ad ‘affacciarsi’ fisicamente e metaforicamente davanti il nido del mostro, impossibilitato – per sua stessa natura – a non riconoscere una figura patriarcale più grande di lui.

Una patologia esistenziale che, nonostante gli orrori osservati, non può impedirgli di seguire inconsciamente David, lasciarsi sedurre dalla sua capacità di creazione, e cercare di assegnare alla figura che rappresenta – un essere dalle capacità tecniche superiori – i connotati di una guida morale forte e risoluta. Non a caso, infatti, al risveglio dopo l’attacco subito da parte del facehugger, il capitano guarderà in faccia David pronunciando però il nome ‘Walter’, sintomatico di un bisogno di fede che non si esaurisce nemmeno in punto di morte.

Alien: Covenant è tutto racchiuso in questi momenti.

David, Wayland, il capitano Oram sono tutti la stessa rappresentazione e riproposizione di quelle dinamiche che secondo Scott si muovono e stanno dietro il palco che ospita l’esistenza umana e del mondo. Un susseguirsi di volontà alla ricerca dell’affermazione di se stessi, illusi dalla possibilità di poter scegliere una coscienza diversa da quella che le innumerevoli potenze dell’universo muovono e plasmano continuamente intorno a essi.

Ridley Scott non mostra nessun interesse per la genesi biologica della sua ‘creatura’, ne mostra le caratteristiche fisiche più per un esercizio di stile che per una reale volontà d’indagine metodologica. Questo perché la stessa ‘creatura’ che invece ci mostra Scott è distante anni luce da un interesse di tipo logico/consequenziale relativo alle connotazioni genetiche di xenomorfi e facehugger, ma volge lo sguardo verso una prospettiva filosofica che vede il concetto generale di creatura muoversi esclusivamente in funzione di un rapporto di attrazione e repulsione nei confronti del suo creatore.

Volge lo sguardo verso una prospettiva filosofica che vede il concetto generale di creatura muoversi esclusivamente in funzione di un rapporto di attrazione e repulsione nei confronti del suo creatore.

Questa sua monumentale opera – a prescindere dalle dichiarazioni che può aver rilasciato ai media, piò o meno accomodanti nei confronti delle aspettative dei fans della saga – dimostra come l’autonomia di un certo cinema dal forte stampo autoriale, inserito anche in un contesto di mercato globale, debba ancora continuare a crescere libero dalle interferenze collaterali provenienti dal pubblico appassionato, perché un prodotto come questo è in grado di restituire un film che nella sua estetica e nella sua complessità culturale raggiunge delle vette altissime in ambito cinematografico e non solo.

Forse un’unica grande pecca, però, ce l’ha questo film. Quella di chiamarsi Alien: Covenant. Sarebbe stato meglio se si fosse chiamato semplicemente Covenant.

 

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