Al 71° Festival di Cannes l’Italia viene rappresentata da Matteo Garrone e Alice Roharwacher, la seconda vincitrice nel 2014 del Grand Prix della Giuria con Le Meraviglie. Quest’anno la Roharwacher sorprende con l’innocente purezza di un protagonista fuori dal comune nel suo Lazzaro Felice, dove in un cinema in bilico tra Olmi e Rossellini, la regista toscana sembra riportare in vita il neorealismo.
Paesaggi bucolici e rurali, montagne, contadini interpretati da attori alla prima esperienza. Il caos della città con i suoi colori grigi e spenti, sembrano essere un ricordo lontano per questo mondo sospeso nel tempo e nello spazio.
Ecco come si presenta il Lazzaro Felice di Alice Roharwacher, che arriva al Festival di Cannes come portabandiera della nostra nazione per il Concorso di questa 71esima edizione del Festival.
La Rohrwacher ci riporta indietro nel tempo facendoci compiere un viaggio fatto di umanità, fragilità e di bontà, ma anche di egoismo e prepotenza, dove protagonista è l’evoluzione dell’uomo, ma anche la sua incapacità dell’imparare dai suoi errori.
E a farne le spese di questa ragionata follia umana è l’uomo più buono tra gli uomini. Un ragazzo di appena diciannove anni (Adriano Tardiolo) da essere talmente tanto buono e gentile da essere considerato un stupido.
La regista rende protagonista l’ultimo degli ultimi, usandolo come confronto e metafora delle contraddizioni dell’essere umano. Lazzaro è lo schiavo degli schiavi, questo gruppo di contadini bloccati nel tempo.
La pellicola, infatti, si ambienta a cavallo tra gli anni ’80 e i giorni nostri, anche se Alice Rohrwacher ci permette di capire questo solo attraverso alcuni dettagli, senza mai definire realmente il contesto temporale e sociale, esasperando il più possibile la sospensione temporale.
Questo gruppo di contadini ignora totalmente cosa sia un contratto, i diritti dei lavoratori, la busta paga. Ignora cosa sia il denaro, lavorando per la Marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi) all’interno di piantagioni di tabacco. Questo enorme gruppo di poveracci lavora per poter pagare un fantomatico debito, ricevendo in cambio beni di prima necessità, vittime del “grande inganno”.
Gli esseri umani si rendono conto della loro condizione di schiavitù solo una volta liberati.
A loro volta questo gruppo di sfortunati sfrutta, quasi senza rendersene conto, la bontà di un ragazzone, appunto Lazzaro. Incapace di avere un giudizio, incapace di distinguere il bene o il male, Lazzaro fa tutto quello che gli si dice, lavorando senza sosta, dando retta a tutti quanti, fino all’esaurimento delle forze.
Eppure Lazzaro non è mai stanco, non è mai triste. Ha sempre un meraviglioso e innocente sorriso sulle labbra; una mosca bianca che provoca quasi disprezzo perché porta a sottolineare ancora di più le brutture dell’essere umano.
Lazzaro non è il figlio di nessuno, il fratello di nessuno, eppure è il tutto fare di tutti, Quell’essere sul quale sfogarsi, nel quale riflettere i propri difetti. Una proprietà indefinita, felice proprio nella sua condizione di schiavo del mondo.
Lazzaro Felice ci appare così come una favola dai toni agrodolci, divisa in due parti tra la campagna e la città, con un protagonista che stringe il cuore, riscalda come in un abbraccio facendo sciogliere lo spettatore in una sorta di affezione primitiva.
È quasi impossibile non affezionarsi a Lazzaro, soffrendo con lui, restando senza fiato in un finale che spiazza, colpisce ferocemente e disumanizza ancora di più la figura dell’essere umano.
Una metafora in bilico nel tempo, dove Alice Roharwacher si lascia ispirare dalle leggenda dell’incontro tra San Francesco o un lupo. Quest’ultimo, nonostante la fame e la stanchezza, non aggredì San Francesco indifeso e addormentato, sperduto tra le montagne, perché potè sentire che era un uomo buono. Significativo anche il rapporto uomo/animale che, come spesso accade all’interno del cinema, porta il primo su un piano nettamente inferiore rispetto al secondo.
Struggente e dolorosa l’interpretazione del giovanissimo Adriano Tardiolo che, proprio grazie alla sua inesperienza, riesce a donarci una performance veritiera al cento per cento, naturale e priva di qualsiasi fronzoli. Un’interpretazione “grezza”, semplice, ma proprio per questo efficace.
Interpretazione quasi imperfetta, come tutto il film di Alice Rohrwacher, ma è proprio in questa imperfezione, che ci riporta direttamente ai fasti del neorealismo in un viaggio indietro nel tempo, che si cela la bellezza e perfezione del film di questa giovane cineasta.
Da questo film ci aspettavamo così poco, lo abbiamo realmente finito mercoledì scorso. Era una scommessa chiaramente, abbiamo provato e sono molto felice che è stato accolto così bene. È un film un po’ bislacco, libero, ma è come ci è venuto!
Queste le parole della regista durante l’incontro privato con la stampa italiana, che paragonata ad Olmi le si stringe il cuore, facendole luccicare gli occhi, dopo l’emozione di aver presentato pochi minuti prima la sua pellicola a tutto il pubblico di Cannes, venendo immersa da un tripudio di applausi.
Si, Lazzaro Felice è un film bislacco, una pellicola che si prende tanto tempo e che proprio per questo rimane impressa nella mente. Un film che tormenta, sul quale ci ritorna per giorni e giorni.
Eppure più ci si pensa e più Lazzaro Felice diventa una parabola perfetta, meravigliosa, struggente, diversa dal cinema odierno. Proprio come il suo protagonista, è una mosca bianca in un cinema sempre più costruito, macchinoso e povero di anima.