Un Breve Racconto

 

Ore 00,40. Apro un nuovo documento.

Il foglio è bianco, come si poteva facilmente immaginare. L’obiettivo è riempirlo con un buon numero di parole, od eventualmente numeri, ma questo accade più raramente. I vocaboli dovranno poi essere disposti secondo un ordine stabilito, cioè che stabilirò io. Il criterio è che, ogni frase così formata, abbia un significato. Alla fine, messi l’uno sull’altro, tutti questi piccoli segmenti formeranno un bel mucchietto, che solitamente viene chiamato racconto, o racconto breve, qualora il mucchietto non riesca a raggiungere un’altezza adeguata. Per adesso ho riempito il foglio con indicazioni che non servono a nessuno e che nessuno vuole leggere. Se il racconto è breve (come ci indica il titolo), questo è tutto spazio tolto ad una vera introduzione che spieghi, ad esempio, chi è il protagonista o dove si svolgono i fatti. Ma in attesa di qualche ispirazione continuo a portare avanti questo piccolo progetto di riscaldamento delle idee. Sono quasi a 150 (ecco un numero) parole, il che non sarebbe un brutto risultato, se queste parole avessero anche un qualche aspetto narrativo, oltre che esplicativo. Ma poco importa, se dovesse andare male lo chiamerò racconto ribelle, tanto la contemporaneità ha cancellato ogni tipo di regola vigente nel mondo dell’arte.

Vado a capo. Forse dovevo scriverlo prima, nel paragrafo precedente, ormai sono già andato a capo. Ho avvertito il lettore troppo tardi, spero riesca a perdonarmi. A questo punto, però, inizio a farmi delle domande. Ha senso proseguire? Qualcuno è arrivato a leggere fin qui? (non che sia poi così in avanti col racconto)? Non era forse meglio scrivere una poesia? Magari le poesie senza ispirazione sono più facili da scrivere di un testo come questo: uno butta giù un paio di rime ed il grosso è già fatto. Forse dovevo avvertire nuovamente; sono finite le domande e sono iniziate alcune riflessioni, ma tant’è ormai penso d’esser rimasto da solo in questa avventura. L’avventura testuale, lo potrei chiamare in questo modo, però poi svelerei subito le mie carte (che non ho, ma il lettore non lo sa, o meglio non avrebbe potuto saperlo con certezza prima d’esser giunto a questa frase).

Vado a capo. Di nuovo, perdonami, è che mi sembra molto strano scrivere “vado a capo” prima di essere andato a capo, un nuovo capoverso è una cosa grossa, non posso annunciarla prima che si realizzi. Credo di aver bisogno di qualche frase ad effetto, giusto per mettere un po’ di qualità in una storia asettica. Allora caro lettore, lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. Questa è carina, peccato sia già presa. Da scartare. Non ho idee, lascio perdere, devio l’attenzione su di un altro argomento.

Rieccomi, scusate l’assenza, se la vostra compagnia non è ancora venuta meno, non ve lo meritavate. Avevo bisogno di ispirazione, sono andato a cercarla qua in giro. Non molto lontano, dopo tutto. Scrivere senza sapere di cosa scrivere può essere frustrante, vai avanti per inerzia e dopo un po’ ti annoi anche. Torno subito.

Due assenze in un paragrafo, sono costernato, ho dovuto, c’era del frastuono nell’aria. Una strana confusione che mi dirottava quelle poche intuizioni che a volte vengono fuori dalla melma paludosa fatta di idee vecchie e banali. Inizierei a discutere di un accenno di trama.

È passata la notte e, come avrete potuto notare, il racconto inizia a ristagnare. Nell’impaludamento del proseguire narrativo la storia rallenta, si ferma, quasi torna indietro, stanca e avvilita. Proprio mentre si parlava di trama, eventi indistinti e indistinguibili ottenebrano la capacità del narratore di tradurre in realtà il suo pensiero. Una musica troppo forte mi impedisce, cioè impedisce (stavo parlando in prima persona?) allo scrittore di continuare. Eppure non c’è neanche un dispositivo che a quest’ora sporca il silenzio del quartiere. No, il rumore è solo mentale. È un rumore di confusione, di fibrillazione e adrenalina. Ma anche di urla, qualcuno si lamenta là fuori. Fate piano, sto lavorando!

Siamo nella crisi di metà racconto, quando serve il colpo di scena prima che le strutture del discorso vadano a farsi fottere; prima che lo stile cambi, perché chi cazzo ha voglia di leggere sempre le stesse cose? C’è bisogno di movimento, di eccitazione. Tutto, prima o poi, è destinato a trasformarsi. Ecco che, all’ora di pranzo, nella tranquilla pagina quasi del tutto inchiostrata virtualmente, succede qualcosa che non ti aspetti. Dalla finestra che affaccia sulla strada iniziano a fare irruzione nel buio della stanza (finestre rigorosamente chiuse e tapparelle abbassate) delle luci colorate. Si direbbero blu e rosse. Dopo pochi istanti, all’effetto visivo se ne aggiunge uno acustico.

Bussano alla porta.

La polizia ci chiede informazioni ma in questa storia non ve ne sono. Indicazioni, indizi, prove, testimonianze e confessioni fanno parte di altri racconti. Possono anche smettere di cercare, tutto ciò che ho da dire è destinato al lettore. Vorrebbero incasinare tutto, non glielo permetto, è troppo presto. “Ve l’ho detto”, il tono non è dei più miti, “non c’è un cazzo per voi, andatevene al diavolo!”.

Eccolo il movimento che cercavate. Siete soddisfatti? La polizia… che cazzo c’entra la polizia tra le righe che sto scrivendo. Pensavo fossimo tra amici, mi fidavo. Se ne sono andati, hanno capito che sono impegnato, sto scrivendo e non ho nulla per loro, niente di niente. Si sta facendo notte. Quel vento carico di vibrazioni, finalmente, si è placato e nessuna chitarra impazzita vomita più accordi metallici. Penso che non torneranno. Anche perché non ne avrebbero motivo, non hanno nulla in mano, non lo sanno. Adesso che c’è nuovamente silenzio, posso iniziare a dedicarmi alla trama.

Di solito la trama si dà al lettore sotto forma di piccoli pezzettini, uno ad uno, e sarà lui a doverli ricomporre. Se non c’è abbastanza tempo, basta dividere il corpo in due parti, tagliandogli la testa. In un primo momento, al lettore verrà presentato il busto, la parte più pesante della narrazione, che va lasciata dove si trova. Ma è la testa il pezzo pregiato, quello che deve essere preservato e nascosto. Solo quando si scopre dov’è celato il cranio si potrà godere della sudata conclusione della ricerca. Ogni racconto, ogni storia, altro non è che un tentativo di comprendere ciò che chi racconta vuole intendere. Se tutto è chiaro fin dall’inizio, dalle prime battute, allora lo sforzo è inesistente e quando viene dissotterrato il teschio non c’è meraviglia. Tutti sapevano dove andare a cercarlo.

Ci sarebbe ancora molto da raccontare ma ho la vaga sensazione che il tempo stringa e che sotto alla mia scrivania il terreno sia fatto di sabbia che piano piano scompare, come in una clessidra. Voglio fare una riflessione personale su quanto sia bello il silenzio. Mi correggo, su quanto sia giusto il silenzio. La giustizia, se dovessi descriverla con una metafora, la immaginerei come l’assenza di suoni, il nulla acustico. Nessuno che prevale sugli altri. Ma in questo mondo non c’è giustizia, e fuori dall’uscio di casa è iniziata una processione. Per ben due volte l’autoambulanza ha ritenuto necessario accendere la sirena, come se il corpo che andava a prelevare avesse fretta. Non ne aveva, ve lo assicuro. Non c’è giustizia, vi dicevo, e a provare a farsela da soli, si finisce sempre fregati. Ma sto divagando, è tempo di parlare del finale.

Solitamente un buon finale, come cercavo di dirvi, deve arrivare inaspettato. Sento suoni di voci provenire dal mio giardino. Il lettore deve inserire gli ultimi pezzettini del puzzle. Ma questo non è un puzzle normale, qui l’immagine è ingarbugliata, per fare un buon lavoro si dovrebbe proseguire a tastoni nel buio. Sento che i cani hanno iniziato ad abbaiare. Solo alla fine l’immagine deve essere chiara, quando avendo in mano tutti i pezzi, con la guida del narratore, riesce a trovare l’ordine, la chiave di volta. Rumori di terra che viene smossa. A pochi metri da me, qualcuno sta scavando.

Colpo di scena: nuove urla mi raggiungono; provengono da molto vicino. Queste, al contrario delle grida di disperazione materna di questa mattina, sono di uomini. La voce tradisce una certa eccitazione, nonostante la natura macabra della scoperta. Sono contenti, hanno svolto un buon lavoro, come me del resto. Li ho guidati al gran finale, passo dopo passo, solo adesso hanno capito la trama, quella nascosta tra le righe del racconto che gli ho fatto leggere. Adesso è tutto nelle loro mani. Come termina la storia? Decidetelo voi, non è più compito mio.

Bussano alla porta, questa volta molto forte. Mi volto: sono entrati, sono in molti. Ecco servito per voi il lieto fine.

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