Le donne non hanno sempre coperto il seno: le pitture egizie, greche e le statuine indiane mostrano parecchi petti scoperti. Scopriamo insieme la storia di come è nato ed è evoluto nei secoli quello che oggi chiamiamo reggiseno.

Ancora in epoca imperiale in uno scritto si parla di una ragazza che, lancia in pugno e seno scoperto, andava a cacciare cinghiali in Etruria.

La copertura serviva per il clima o attività come la corsa, oltre che per motivi culturali. Ad esempio per i Romani seni troppo grossi indicavano donne vecchie o poco attraenti: erano quindi compressi in fasce sin da giovani, per evitarne sviluppo o decadenza eccessive.

Similmente, le statue maschili classiche avevano genitali con dimensioni non esagerate, considerate animalesche e volgari.

 

La causa della protrusione delle ghiandole anche senza lattazione in preparazione o in corso, tipica della specie umana, è in dibattito: l’ipotesi più intrigante è la  soppressione del calore. I segnali di ricettività sarebbero diventati cioè attrattivi per un impulso atavico: del resto callipigia (kallos-pigé, κάλλος-πυγη lett. belle-natiche) arriva dritto dall’antichità classica.

 

I primi indumenti intimi risalgono a circa il 3.000 a.C.: in Sumeria gli uomini indossavano gonnellini di lana o lino lasciando scoperto il torso, ma più tardi introdussero sotto a questi dei “calzoncini” di pelle simili a mutande o calzoni a seconda della lunghezza. Le donne invece avevano un telo che le copriva da una spalla (l’altra era lasciata libera) fino ai piedi.

Indumenti intimi specifici per donne si trovano per la prima volta a Creta, circa nel 2.000 a.C.: un corpetto che sollevava ed esponeva il seno, da indossare sopra il vestito e che probabilmente comprendeva una cinghia sotto il petto chiusa dietro le spalle. L’immagine più famosa è nella statua della dea dei serpenti, che potrebbe indicare fosse riservato a classi sociali elevate come le sacerdotesse.

 

In Grecia c’erano vari tipi di fascia: l’apodesmos (ἀπόδεσμος, lett. senza-separazione) abbastanza larga per coprire i seni più o meno come un bikini senza spalline;  lo strophion (στρόφιον, da στροφή, piegare/girare) più fino da indossare sotto la linea del petto per sostenerlo.

Il mastodesmos (μαστόδεσμος, lett. seno-separazione) incrociava ad X tra i seni separandoli e sollevandoli, contrariamente al mastodeton (μαστόδετον, lett. seno-legare).

Tutte potevano andare sia sotto che sopra il peplos, tipico indumento femminile greco: una tela di lana o lino alla caviglia, cucita su un lato a formare un tubo, e con la parte superiore più lunga e non cucita, in modo da agganciarla sopra una o entrambe le spalle.

 

Il kestós (κεστός, cestus in latino) himas era il nome della fascia incantata di Afrodite, che faceva innamorare tutti gli uomini: probabilmente un mastodesmos più fine, magari in metallo prezioso essendo la moglie di Vulcano, il dio-fabbro.
In inglese chest (lett. scrigno)  è usato per indicare la cassa toracica e per estensione il petto.

 

Le donne egizie dell’epoca classica (2.700 – 500 a.C.), indossavano lo skentis, gonnellino di lino al ginocchio come gli uomini, ma usavano anche il kalasiris omologo al peplos, lungo alla caviglia e da agganciare sulle spalle con delle fasce: la parte superiore poteva lasciare libero il petto, per le popolane che dovevano stare più libere per lavorare.

il kalasiris è citato per primo da Erodoto. La versione proletaria dello skentis era il pano, una specie di perizoma in tessuto grezzo, soprattutto maschile.

 

Dall’apodesmos  derivò lo stethodesmē (στηθοδέσμη, lett. petto-separare): i Romani lo adottarono con il nome di strophium  o mamillare (da mamilla, mammella).  Alcuni erano abbastanza larghi da formare una guaina sulla pancia.

 

 

Ci sono riferimenti a fasce cucite in India già dal I sec. d.C.: il primo scritto che parli esplicitamente di indumenti del genere apparve nel regno di Harsha (590-647) della dinastia dei Vardhana, nel nord.

A Vijayanagara (lett. città della vittoria, capitale dell’omonimo regno del sud tra il 1.336 e il 1.646) gli scritti parlavano di sarti che riuscivano a rendere sempre più aderenti i kanchuka, corpetti da indossare sopra i vestiti.

 

In Cina prima e durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) si usava la tunica senza maniche xieyi (lett. intimo/frivolo-vestito). Da questa derivarono il bauofu (抱腹, lett. copri-pancia) e lo xinyi (心衣, lett. copri-cuore) seguiti poi dal liangdang (lett. due-pezze), introdotto dal nord, che coprivano petto e pancia separatamente.

Nel periodo delle dinastie del nord e del sud (Nán-Běi Cháo,  420 – 589) arrivò il moxiong (抹胸, lett. pulire-seno) simile a una camisole che lasciava scoperta la schiena, legata dietro il collo e alla base della spina dorsale.

Con le dinastie Tang (618 – 907) e Song (960 – 1.279) nacque lo hezi (诃子, lett. terminalia, un tipo di arbusto tropicale), una canotta senza spalline abbottonata di fronte, spesso finemente ricamato. Nella foto accanto, è in rosso.

La dinastia Yuan (1.271 – 1.368), di origine mongola, introdusse lo hehuanjin (合欢襟 lett. collare d’acacia) simile al moxiong ma legato solo dietro la schiena in modo da trattenere l’addome e sostenere il seno: spesso era di broccato, perché si supponeva essere esposto.

 

Le traduzioni dal cinese sono approssimative, e va ricordato che spesso erano nomi poetici: probabilmente il “collare d’acacia” intendeva l’aspetto sinuoso che la donna aveva indossandolo

 

La dinastia Ming (1.368 – 1.644) introdusse il dudou (肚兜 lett. copri-pancia), un rettangolo di seta annodato dietro il collo e alla base della schiena, usato anche come veste, quindi ricamato.

Nacque anche lo zhuyao (lett. allacciare-vita/pancia) che tratteneva l’addome evidenziando le curve.

 

Il dudou è simile al bavaglione rosso con sopra l’idegramma kin (, lett.oro) indossato da Kintaro (, lett. ragazzo d’oro [o di metallo]) quando era bambino: cresciuto nella foresta, armato di ascia, forzuto amico degli animali e cacciatore di oni (orchi), eroe di molti drammi teatrali kabuki, divenne poi il  samurai Sakata Kintoki (坂田 金時, lett. campo della collina del tempo d’oro).

La veste di Kintaro era tipica per i bambini dell’epoca, sia maschi che femmine. Letteralmente gli ideogrammi sopra indicati per Taro (ce ne sono altri con la stessa pronuncia) vogliono dire “persona forte”.

 

In Giappone, sotto il kimono si indossa in genere una camicia o tunica leggera, ed esternamente una cintura larga e spessa (obi) per trattenere l’addome e sottolineare la linea del seno.

Il vestito non è molto cambiato nei secoli, a parte alcuni formalismi come il numero di sottoveste da indossare, che nell’era Heian (平安, lett. pace, dal 794 al 1.195) andava da 7 a 13. Per gli uomini, l’indumento intimo rimase il fundoshi (褌) già noto dal Nihon Shoki (日本書紀, lett. cronache del Giappone, circa 720 d.C.)  un lungo panno di cotone.

 

in giapponese,をしめてかかる(fundoshi o shimete kakaru, lett. farsi stringere le mutande) è un vecchio modo di dire “rimboccarsi le maniche” :D

 

Nel medioevo occidentale si diffusero bande di garza di uso simile all’apodesmos: un editto del 1370 a Strasburgo proibiva vestiti femminili che sostenessero troppo (ed evidenziassero) il petto, ma nel castello austriaco di Lengberg sono stati ritrovati quattro indumenti molto simili a reggiseni moderni, risalenti a quel periodo e decorati con pizzo. In generale, all’epoca il seno andava tenuto stretto e chiuso per non destare scandalo in pubblico.

 

Nel Rinascimento le donne altolocate mostravano porzioni sempre più generose di seni non sformati dall’allattamento come quelli delle popolane. Per sostenerli, si diffusero i corsetti: la colpevole tradizionale è Caterina de’ Medici, che intorno al 1.550 avrebbe bandito dalla corte di Francia i girovita larghi, diffondendo tra le cortigiane la moda (e la corsa) a guaine sempre più strette e forme “aiutate” da strutture in osso o metallo.

Non potendo lavorare con indumenti che schiacciavano la pancia e stringevano le costole, le popolane continuarono invece ad usare camicie o tuniche lunghe, le cote.
Nel ‘400 uno scrittore della Germania Meridionale compose un poemetto satirico sulle “tasche sul petto” usate dalle donne che “camminano a grandi falcate” per far vedere il loro bel seno.

 

Probabilmente la cote (anche cotte) si è evoluta dal chiton  greco: divenne prima una sottoveste e poi si divise in camicia e gonna. La cotta di maglia si riferisce appunto alla cotte.
I Romani lo chiamavano tunica, diversa dalla camisia perchè non era cucita, legata o abbottonata. Quest’ultima viene dal germanico Hamithia, dalla radice indoeuropea *kem-, lett. nascondere, coprire. Il francese chemise ora indica un indumento intimo femminile nel mondo, e una camicetta in Francia :D
Le braccae erano un altro capo importato a Roma dalla Gallia, dove il clima più freddo invitava a coprire le gambe: la radice dovrebbe essere *bhrg– (separare), da cui deriva anche l’inglese breeches.

 

La Rivoluzione Francese condannava il vestiario aristocratico: l’epoca napoleonica e l’esaltazione dell’arte classica fecero adottare alle signore della buona società tuniche semitrasparenti e senza maniche. Restarono in uso corsetti più corti e leggeri: con l’era vittoriana tornarono a diffondersi quelli rigidi ed estesi, portati poi all’eccesso con quelli a “collo di cigno” (swan-line o swan-neck) che oltre a premere indietro la pancia sollevavano anche le natiche per evidenziarle.

 

I sanculotti eranoi rivoluzionari più radicali: il termine veniva dai popolani che non usavano le culottes (quindi sans-culottes), pantaloni lunghi poco sotto il ginocchio mostrando le calze, indumenti per persone che non facevano lavori manuali.
Ad oggi nella moda femminile indica un tipo di mutande.

 

La Progressive Era portò rivendicazioni femministe sul vestiario: alcuni medici iniziarono ad indicare i problemi di postura e respiratori creati dai corsetti, nonostante l’indifferenza delle signore più sensibili alle mode.

 

 

Uno dei rimedi più diffusi era un periodo di riposo a letto, quindi con vesti comode: sempre un modo per rimarcare il “sesso debole” e la necessità di aiuto, così come la difficoltà nel togliere le (sotto)vesti.

 

I giramenti di testa e gli svenimenti non erano adatti ad operaie, sarte o lavandaie: la scrittrice riformista Mary Stuart Phelps scriveva nel 1874 di bruciare i corsetti, e non salvare nemmeno gli ossi di balena nel falò.

L’intimo era la parte di vestiario più facilmente modificabile senza doversi esporre: indossare gonne sopra la caviglia poteva già dare scandalo. Le pit brow women che lavoravano nelle collieries inglesi (corto per coal mines, miniere di carbone) con i pantaloni, ma indossavano anche la gonna arrotolata o appesa alla vita.

Uno dei primi reggiseni “moderni” è stato ritrovato in un magazzino del museo della scienza di Londra: risale all’inizio dell’800. Nel mondo anglosassone ci furono molti brevetti al riguardo nel periodo: se ne conta uno a  Brooklyn nel 1859 e un’altro nel New Jersey nel 1863. La costumista Olivia Flynt registrò nel 1876 il Flynt Waist  per donne prosperose: venduto inizialmente per posta, vinse vari premi in esposizioni negli USA e fu poi distribuito nei negozi.

 

Nel 1889 la tedesca Christine Hardt ne brevettò un disegno moderno. Nello stesso anno Heminie Cadolle iniziò a vendere a Parigi il suo bien-être (benessere) in due pezzi: la  soutien-gorge  superiore sostenuta da fasce sulle spalle, e la parte inferiore come guaina per la pancia.

Presto vendette la prima a signore della buona società, compresa Mata Hari.

Herminie fu la prima ad usare fili di gomma elastici nelle sue creazioni:  l’azienda della famiglia Cadolle esiste ancora oggi.

 

Soutien-gorge  sarebbe sostieni-gola: ancora oggi in Francia indica il reggiseno. Gorge  in francese antico significa appunto seno.

 

Nel 1893 Marie Tucek brevettò in USA il reggiseno con ferretto e coppe separate, senza successo commerciale. Nel frattempo venne la moda del corsetto straight-front (dritto-davanti) senza il vitino di vespa: era un’evoluzione dello swan-line  con un supporto rigido di fronte e gli stessi problemi di spinta verso il posteriore. Restava sotto la linea del seno: anche questo incentivò il ricorso ad altri mezzi per supportarlo.

Nel 1910 Mary Phelps Jacob fece cucire dalla cameriera di casa due fazzoletti con del nastro rosa per trattenere il suo busto prorompente ad un ballo, perché il vestito che aveva acquistato appositamente non si indossava agevolmente con il corsetto.

Molte signore le chiesero una cosa simile, e qualcuno si offrì di comprarli: ne produsse un pò e vendette poi il disegno alla Warner Brothers per 1.500 dollari dell’epoca. Brevettò la backless brassiere  nel 1914.

La Warner Brothers non era quella dei film, ma una azienda omonima che produceva corsetti in Connecticut.

 

Mary Phelps “Polly” Jacob apparteneva alla buona società di Boston: lasciò il primo marito, diventato alcolista tornato dalla Grande Guerra, e sposò lo scrittore Harry Cosby. Si trasferì con lui a Parigi, dove cambiò nome in Caresse Cosby.

Vissero in una relazione aperta finché lui non si suicidò con una delle loro amanti, conosciuta a Venezia. Lei intanto aveva iniziato una relazione con il fotografo Henri Cartier-Bresson, che la lasciò trasferendosi in Africa.

Scrisse libri di poesia e fondò con il secondo marito la casa editrice Black Sun Press, all’inizio Editions Narcisse, che pubblicò opere dei loro amici personali D. H. Lawrence, Ernest Hemingway e James Joyce e poi di Kay Boyle, Ezra Pound, Archibald MacLeish, T.S. Eliot ed Eugene Jolas. Continuò le pubblicazioni anche da vedova con edizioni limitate e stampe sperimentali, dando voce alla “generazione perduta” (lost generation) che aveva vissuto la Grande Guerra.

 

Durante la Grande Guerra i corsetti vennero disincentivati per usare la manodopera e il prezioso metallo altrove. L’impiego in fabbrica di molte donne incentivò ancora di più l’uso di indumenti che dessero maggiore libertà di movimento.

Nel dopo guerra nacquero le flappers, la cui linea piatta rese popolare il reggiseno “a banda”. Ida e William Rosenthal contrastarono la tendenza fondando nel 1922 la Maiden Form, che propneva modelli adattabili a diverse clienti, anche per l’allattamento.

La standardizzazione delle misure e delle coppe ci fu negli anni ’30, quando la produzione personale o artigianale venne soppiantata da quella industriale. Fu anche il periodo in cui il termine francese Brassiere venne sostituito nell’uso comune dall’abbreviazione bra.

È facile per gli anglofoni confondere brassIere con brasserIe: la seconda è sempre invitante ma in modo decisamente diverso, e non per tutti.

 

Flapper sta per “giovane donna”, più anticamente usato per “prostituta”. Dovrebbe derivare dalle trecce tipiche delle ragazze ancora non sviluppatesposate(to flap the pigtail, lett. far ondeggiare la treccia), o dalla figura poetica di uccellini che iniziano a sbattere le ali (to flap the wings). Negli anni ’20 indicava donne tanto giovani che il loro seno non era ancora ben sviluppato (tanto che spesso non portavano reggiseno, anzi a volte nemmeno altro) e che ascoltavano jazz, usavano vestiti privi di punto vita e fumavano come i ragazzi, con i capelli corti come loro.
Il  nome potrebbe derivare anche dall’usanza di lasciare i lacci delle scarpe aperte (to flap the laces)

 

Parecchi fabbricanti di lingerie nella Seconda Guerra Mondiale convertirono almeno parte della loro produzione in paracadute o tende. La Maiden Form fece anche i pigeon bra, che servivano ai paracadutisti per portare un piccione sul busto, e liberarlo appena atterrati. In quel periodo furono introdotti reggiseni “di sicurezza” in plastica, per le operaie delle fabbriche impegnate nello sforzo bellico: la Lockheed impose lo come regola d’abbigliamento.

Tra le due guerre e poco dopo si diffuse reggiseno “a proiettile” (bullet) o “siluro” (torpedo): sosteneva ma aveva anche una forma “puntuta”, adattissima alle sweater girl dei film di attrici come Lana Turner, Jane Mansfield e Jane Russell.

 

Sweater girl erano ragazze che indossavano un maglione (sweater, tipicamente a collo alto) attillato sopra un reggiseno conico che ne evidenziava la linea del petto. La prima fu Lana Turner nel film They won’t forget (Vendetta) del 1937.

Per The Outlaw (Il mio corpo ti scalderà) del 1943, il regista e produttore Howard Hughes, che era anche ingegnere aeronautico, disegnò e produsse un apposito reggiseno a sospensione (come i ponti) per Jane Russell.

Hughes tra l’altro progettò e produsse l’idrovolante H-4 Hercules per trasportare truppe e materiali oltreoceano: non riuscì a finirlo prima della guerra, e l’unico esemplare costò 2,5 milioni di dollari dell’epoca.

 

Poco prima della Seconda Guerra Mondiale materiali come la gomma vennero razionati: nel 1935 Israel Pilot in Canada inventò una coppa “tagliata” in diagonale per risparmiare sul prezioso prodotto, che permetteva anche una maggiore libertà di movimento.

Coniò in questo periodo il termine “wonderbra“. Fondò la Canadian Lady Corset Company nel 1939 con il socio Moe Nadler e brevettò il disegno in USA nel 1941.

Nel 1960 produsse un semi-pushup, che poi venne sviluppato nel brevetto 1300 dell’anno successivo: sarebbe poi diventato famoso negli anni ’90 con il rinnovo della licenza di produzione. Intanto l’azienda era diventata la Canadelle Inc. ed era nota in patria come Wonderbra Company.

Il femminismo, l’amore libero e altri movimenti degli anni ’60 e ’70 portarono ad una crisi del reggiseno, considerato un simbolo dell’oppressione maschile: uno storico danese ne scrisse un necrologio nel 1969. Le aziende reagirono ad esempio con modelli più morbidi che si potevano indossare anche la notte, e l’invenzione del reggiseno sportivo: il modello jockbra (più tardi jogbra) è del 1975.

 

https://www.youtube.com/watch?v=SpVAEuioiM0

 

Dopo la rinascita del wonderbra negli anni ’90, nel decennio successivo si diffusero i reggiseni stampati in un unico pezzo, di fibra o schiuma sintetica che mantengono la forma. Nel 2001, il mercato valeva 15 miliardi di dollari in USA e 1 miliardo di sterline UK, ed era in crescita.