Dopo una lunga carriera costellata da alti e bassi, discutibili scelte di booking e momenti in cui chiunque altro avrebbe appeso gli stivali al chiodo, Bray Wyatt è diventato campione del mondo, ripagandolo della sua costanza e dedizione.
l fan del web e gli addetti ai lavori sono unanimi nel riconoscergli il merito di essersi meritato un posto tra i campioni, e di aver costruito il suo successo mattone dopo mattone, nonostante le avversità.
IT factor
Il wrestling è uno sport-spettacolo attualmente diffusissimo in tutto il mondo. Le principali scuole mondiali, ad oggi, sono quella americana, quella canadese, quella messicana (dove è chiamato lucha libre. E sì, sono quelli con le maschere, i luchadores. E sono dannatamente bravi.) , quella inglese e quella giapponese.
In un mondo ormai globalizzato come questo, è facile che un bambino possa guardare in televisione questi “supereroi” ed appassionarsi delle loro gesta ed imprese. Talmente tanto, a volte, da decidere di diventare uno di loro, attraverso un duro e lungo allenamento.
La competizione è tanta, tantissima. Non basta avere passione, non basta allenarsi ore ed ore ogni giorno. Non basta nemmeno avere talento nel ring.
Il campione di wrestling perfetto è una strana e più unica che rara commistione tra fisicità, talento in ring, portamento, carisma, capacità di intrattenere, capacità di parlare (di “recitare”, se vogliamo, ma è una parola grossa, me ne rendo conto), di improvvisare, e di creare quella rara, rarissima, connessione con il pubblico per cui ogni tuo movimento, ogni tua espressione facciale, ogni tua parola viene guardata in estasi, attesa, accompagnata da urla di entusiasmo e tifo.
Ci vogliono carriere intere per costruire quella connessione. Alcuni lottatori la sperimentano solo per qualche mese della propria carriera, altri, rarissimi, sembrano esserci nati tanto il tutto appare loro così naturale ed immediato. Quasi senza sforzo.
Nemmeno The Rock è sempre stato The Rock.
All’inizio della sua carriera veniva fischiato, prima del suo turn heel. Nemmeno Steve Autin è sempre stato il rattlesnake. C’è stato un tempo in cui si faceva chiamare the Ringmaster, e sembrava non avere nemmeno un grammo del carisma che poi lo ha reso l’uomo che di fatto ha quasi retto da solo il peso dell’allora WWF durante la guerra per gli ascolti del lunedì sera più famosa ed irripetibile della storia.
Bobby Roode, nel momento in cui scrivo attuale campione NXT, nel suo periodo di permanenza nella TNA, era solito farsi soprannoinare “It factor“. Ed è proprio così. È un intangibile, una caratteritica, un qualcosa che c’è sempre stato forse, o che viene appreso nel memtre che si è impegnati a fare altro, attraverso i chilometri che si macinano ogni settimana, attraverso l’applauso e l’ovazione del pubblico, attraverso le vittorie e le sconfitte, attraverso il sudore e la fatica.
In alcuni casi capita che questo it factor sia presente nel lottatore, costruito e nutrito giorno dopo giorno, con pazienza e perseveranza, attraverso gli alti e bassi della carriera. Alle volte, tutto quello che manca è una scintilla, un là, che permetta alla fiamma di acendersi definitivamente. Nella storia ci sono stati lottatori che hanno atteso una vita intera per questa scintilla. Altri, hanno cercato di crearsela da sé, nonostante tutto e tutti. E quando quella fiamma si accende, quando quella luce illumina improvvisamente intorno, è allora che ci si può guardare intorno, vedere cosa si è fatto, e dirsi infine che ne è valso la pena. Tutto per quel momento.
IRS. Un esattore delle tasse come papà
Windham Lawrence Rotunda è il protagonista di questa storia. si tratta di un figlio d’arte, wrestler di terza generazione. Suo padre, Mike Rotunda, è uno i quei wrestler che probabilmente oggi solo i fan un po’ più accaniti o un po’ più stagionati (non me ne vogliano) ricordano.
È appartenuto al cosiddetto periodo d’oro del wrestling, e calcava i ring insieme a giganti del calibro di Hogan ed André the Giant. Uno dei suoi personaggi, in mezzo a cotanta grandezza, era quello di IRS, ossia l’equivalente americano dell’esattore delle tasse. Sì, proprio così. Entrava in camicia , bretelle e cravatta, e con la valigetta. E poi giù mazzate.
Epoca d’oro non vuol dire necessariamente idee d’oro, dopotutto.
Next, please!
Ma torniamo a Windham. Nella WWE ad alti livelli compare per la prima volta nel roster di NXT, sempre che di roster si possa parlare. In quegli anni NXT era un esperimento che la WWE stava provando a intraprendere, con alti e bassi.
L’idea era quella di creare una sorta di reality sulla vita dei lottatori mentre muovevano i loro primi passi nella federazione. Almeno, così venne annunciato. In verità, per dare un’idea, NXT in quelle prime edizioni appariva il figlio illegittimo di un’unione tra il Wrestling e programmi trash tipo Ciao Darwin.
In esso i lottatori si esibivano sul ring in match, ma erano anche visti alle prese con prove fisiche che sembravano brutte copie dei giochi della gioventù, ed altre amenità di questo tipo. Gli esordienti erano seguiti da un lottatore “veterano”, che avrebbe dovuto guidarlo settimana dopo settimana attraverso le prove.
Durante queste settimane, uno alla volta i lottatori sarebbero stati eliminati fino ad avere un vincitore finale, che sarebbe stato assunto nel main roster e che avrebbe potuto avere persino una chance titolata. La prima edizione, sospinta dai venti della novità, risultò anche carina, ed introdusse al grande pubblico lottatori del calibro di Wade Barrett e soprattutto Daniel Bryan, uno dei lottatori attualmente più amati dal grande pubblico.
C’è da dire comunque che all’epoca Daniel Bryan era già molto famoso nel mondo del wrestling, soprattutto nelle scene indipendenti che aveva calcato per anni col nome di Bryan Danielson, tra gli altri, e con il soprannome invidiabile di American Dragon.
Tanto lo amò il pubblico che la WWE fu costretta a riassumerlo dopo il licenziamento a causa di una sua scelta infelice durante una puntata di RAW, in cui eseguì una mossa che prevedeva lo strangolamento con la cravatta ai danni di un commentatore.
Tale manovra, che sarebbe risultata quasi all’acqua di rose in alcuni circuiti indipendenti, in uno spettacolo per famiglie risultò quantomeno disturbante per alcuni. La sollevazione popolare nell’internet, le numerose richieste, e l’obiettiva incredibile bravura di Bryan, che dopotutto aveva semplicemente commesso un errore di inesperienza per gli standard della nuova compagnia in cui si trovava, gli valsero la riassunzione. Il resto è storia.
Il nostro eroe però fa il suo debutto nella seconda edizione di NXT, con il ring name di Husky Harris. Che, a dirla tuta, sembra quasi il nome di un cane nei cartoni animati. Il fisico è tutt’altro che prestante. Anzi, appare flaccido, grasso, e inadatto al wrestling. Viene da chiedersi cosa ci faccia lì.
In verità, in queste situazioni, non ci si deve far ingannare dalle apparenze. In giappone, ad esempio, sono stati e sono tuttora ancora molti i lottatori che presntano una certa pancia. La cosa è vista come indice di benessere, e non di cattivo stile di vita. Inoltre, un fisico del genere non necessariamente pregiudica le capacità in ring, se comunque ben allenato.
All’epoca, uno dei soprannomi che l’allora nominato Husky Harris si era dato era quello di “carroarmato con il motore di una ferrari“. Piuttosto triste, a dirla tutta, ma si deve comunque ricordare che era alle prime anni. Solo in seguito sarebbe diventato l’eater of worlds (sì, qualcuno evidentemente dietro le quinte era fan dei Fantastici 4).
La sua stella in quell’edizione di NXT non brillò particolarmente, e venne eliminato senza troppo onore né gloria. La sua carriera si trascinò ai limiti del crepuscolo mediatico nella WWE, fino a quando non si decise di rimandarlo negli ambienti di sviluppo, a farsi ancora un po’ le ossa.
NXT. Prossima fermata: il futuro
Nel frattempo Triple H, allora COO della WWE, prendeva NXT, che nel frattempo era divenuta sempre più surreale ed inutile come trasmissione, ci sputava sopra e la rimodellava a sua immagine e somiglianza. Eseguì un cosiddetto rebranding.
Fu Triple H nel 2012 ad eseguire il rebranding di NXT, iniziando a renderla il suo personale fiore all’occhiello, terra di opportunità per i nuovi giovani arrivati che vogliono dimostrarsi degni della WWE.
Venne completamente abbandonata l’idea del reality (componente che in verità non si era mai veramente sentita all’interno dello show giallo), e tramutò il tutto in un nuovo territorio di sviluppo. Fu come piantare un innesto all’interno del già enorme albero della WWE.
Lo show divenne ripensato per i giovani e i recenti acquisti della WWE, un appuntamento settimanale per mostrare le loro abilità all’interno del ring. Il focus era completamente sul lottato, senza troppi fronzoli che distraessero l’attenzione degli spettatori.
Lo show viene registrato in una piccola arena, da un paio di centinaia di spettatori, ambiente raccolto, quasi intimo per gli standard del wrestling made in WWE, che ricorda in tutto e per tutto gli spettacoli di federazioni più piccoli ed indipendenti, come ad esempio la Ring of Honor. L’unica differenza è c’è il logo WWE sul maxischermo da dietro il quale escono i lottatori. E la cosa agli inizi fa quasi anche un po’ strano.
Per questo NXT chiaramente si rivolge ad un pubblico appassionato, per lo più adulto, esperto e desideroso di vedere l’essenza più pura del wrestling, nonché curioso di scoprire cosa bolle in pentola nei territori di sviluppo, ed avere un first peek sui talenti del futuro. NXT ha eseguito il suo rebranding nel 2012, e da allora è divenuto una sorta di enclave indipendente all’interno della WWE. I suoi talenti possono crescere, avere lo spazio che necessitano, con i tempi di cui necessitano. Possono esplorare, farsi conoscere, tentare varie combinazioni di stili, immagine, tecnica e attitudine, fino a trovare quella che più si adatta al loro e che più ha presa col pubblico. Il primo campione del rinato brand è un certo Seth Rollings, che ad oggi è una delle punte di diamante del roster di RAW e della federazione in generale, primo lottatore a detenere contemporaneamente il titolo WWE e degli stati uniti contemporaneamente nell’era moderna.
In questo ambiente in cui si respira giovinezza, sperimentazione, voglia di fare, di mettersi in gioco e di sfondare, emerge dall’oscurità un certo personaggio inaspettato.
Bray Wyatt e la sua famiglia: la costruzione di un personaggio
Il character design è completamente rinnovato. Un cambiamento talmente profondo che, a mettere a paragone i due outfit, viene quasi da chiedersi come sia stato possibile. Appare chiaro che dietro tutto ciò ci sia stato del lavoro, sia da parte dei booker che del lottatore per mettere su un fisico più prestante ed un look più intimidatorio.
La barba lunga, i capelli pure, la giacchetta strategica che copre i rotoli di ciccia in esubero, la lanterna che viene portata all’ingresso, l’affiancamento ad altri lottatori, più grossi e palestrati a fare da contraltare (manovra invero piuttosto tipica nel mondo del wrestling, come esempio emblematico si può citare Shawn Michaels con l’allora esordiente Diesel che interpretava la sua guardia del corpo, poi divenuto Kevin Nash negli anni successivi), l’atmosfera, l’ingresso. Tutto studiato nei minimi dettagli.
Il personaggio è quello del guru della palude, un’immagine che rimanda alla memoria le scene e le ambientazioni della prima serie di True Detective se vogliamo. Un santone new age, che parla di liberazione dalle bugie dell’era moderna, dalla paura, dall’inquietudine.
Secondo la sorta di “lore” che viene appiccicata al personaggio, egli è vissuto a lungo in una palude non meglio precisata degli Stati Uniti, insieme ad una sorta di comune di cui è il capo e nel quale professa la sua religione.
Figura centrale di siffatta religione è la cosiddetta Sister Abigail, una figura non meglio definita, sempre e solo abbozzata da Bray, seguendo la sempre vincente strategia che lascia che sia lo spettatore a riempire con la sua fantasia i buchi del racconto, creandosi la sua storia, per ognuno leggermente diversa ogni volta che viene raccontata, e quindi mai banale né scontata.
Lui si riferisce a lei semplicemente come colei che gli ha “mostrato la luce“, altre volte, alla fine dei suoi match e degli attacchi che vengono eseguiti a livello di storyline ad altri lottatori, ad esempio nel backstage, sussurra frasi tipo “she made me do this“.
Dietro questo personaggio, ispirato al film Cape Fear del 1991, vi è giusto un pizzico di genio, o di intuizione, se vogliamo. Stando a quello che si racconta, il character venne ideato e proposto inizialmente dal compianto American Dream, Dusty Rhodes, uno dei più amati campioni del pubblico.
Anche lui lottatore dal fisico non del tutto corrispondente ai più diffusi canoni occidentali, riuscì a creare un legame con il pubblico del tipo di cui si scriveva prima, talmente forte e duraturo da valergli il titolo di atleta di wrestling tra i più amati tra il pubblico.
Vi sono video storici in cui si vede la gente scavalcare letteralmente le barricate e buttarsi dentro il ring per festeggiare con lui dopo la vittoria di un titolo. Oggi una cosa del genere, con le odierne misure di sicurezza, è impensabile, ma serve a dare un’idea di cosa aveva creato quest’uomo.
Si comprende quindi come un personaggio nato dalla mente di un simile carisma avesse fin dal principio un grande potenziale di presa sul pubblico. A quel punto spettava all’interprete realizzare tali potenzialità.
I due lottatori che lo accompagnano in questa sua nuova vita sono Luke Harper ed Erick Rowan. Sono due power house, due energumeni, ovviamente. Anche se con doti atletiche invidiabili, soprattutto nel caso di Luke Harper, uno dei big man attualmente in WWE forse tra i più agili e sorprendenti nelle sue manovre esplosive.
Se ne stanno sempre zitti, e fanno i minacciosi, ovviamente. Rowan, addirittura, indossa una maschera da capra, che aggiunge un tocco horror in più e che trasmette chiaramente l’idea di come i due siano più che altro lacché, seguaci. Muti esecutori.
A parlare è Bray Wyatt.
E qui viene fuori un pezzo di quell’It factor. Bray potrebbe parlare per ore ed ore, senza stancare mai. Di cosa stia parlando, non si capisce quasi mai. Ma è come essere delle falene di fronte ad una lanterna, come quella che porta con sé durante gli ingressi nel ring. Non smetteresti mai di fissarla.
Il suo talento è innato. Parla di paura, di bugie, di oscurità, di follia, di libertà. In alcuni momenti ricorda vagamente il Joker di Ledger in alcune tematiche, ma il suo stile è unico e inconfondibile. Questi suoi soliloqui, queste sue arringhe alla folla, saranno, nel tempo, una costante che lo terrà a galla anche nei suoi momenti peggiori, nelle sue fasi di stanca.
Anche nei periodi della carriera in cui potranno sembrare ripetitive, le sue arringhe sono ciò che fanno di lui il suo personaggio. Insieme alla sua lanterna e al suo ingresso nel buio, così simile a quell’Undertaker di cui sembra essere mese dopo mese sempre di più il naturale erede, sono i suoi tatti contraddistintivi.
Sono per lui ciò che il “You can’t see me!” è per John Cena, quello che il dito medio era per Steve Austin, quello che il sopracciglio alzato era per The Rock. Quella è una delle sue pietre d’angolo, e non lo abbandonerà mai.
Bray non vincerà nessun titolo ad NXT. I suoi due “seguaci” vinceranno i titoli di coppia, ma lui, personalmente, non indosserà nessuna cintura. La cosa non ha grande importanza in quelle fasi iniziali di NXT. Lo show è sempre di più una vetrina. Non importa tanto vincere, quanto convincere. Mostrarsi degni, all’altezza di poter sfondare nel palcoscenico più grande, quello del main roster. Questo è il destino naturale di coloro che hanno successo ad NXT. Dopo essere divenuti grandi pesci nella piccola pozza d’acqua, vengono riversati nel grande mare.
Questo accade anche alla Wyatt Family, nel 2014.
Broken out in love (/live in fear): l’arte di mostrarsi restando in ombra
All’inizio, tutto ciò che aveva funzionato per i Wyatt ad NXT sembra funzionare alla grande anche nel main roster. Le sue arringhe, il suo modo di lottare ruvido, i suoi due adepti che imperversano con la loro fisicità nel ring, sono tutti convincenti. Ciliegina sulla torta è l’ingresso. Alcuni ingressi, nella storia del Wrestling, sono semplicemente iconici. Non è per nulla da sottovalutare la maniera in cui un lottatore si presenta al pubblico. A partire dal video sul maxischermo fino dalla coreografia di ingresso, ai movimenti, al ring attire. C’è modo e modo per dire a tutti: “We are here”.
Basti ricordare la musica di ingresso di Shawn Michaels, cantata da lui stesso. La macchina con cui eddie Guerrero entrava. Il rumore di vetri infranti all’ingresso di Stone Cold. Il grido “If you can smell what The Rock is cooking!” per Dwayne Johnson. La posa di Chris Jericho al suo ingresso sulla rampa. O la complessa coreografia di Bill Goldberg, con gli addetti che andavano a bussare nel camerino e la telecamera che seguiva la sua discesa nel ring attraverso il backstage, raffigurandolo come vero gladiatore che scende nel campo a battagliare.
La maniera dei Wyatt è forse una delle più azzeccate degli ultimi anni. Improvvisamente, sul maxischermo appare un brevissimo clip, pochi secondi. Si vedono poche immagini confuse, che potrebbero essere state prese da un qualsiasi film horror di terzultima categoria. Poi le luci si spengono. Parte la musica, un brano intitolato Broken out in Love, scelto dallo stesso Wyatt. Ed entrano loro tre.
Non ci vuole nulla perché il pubblico americano, sempre molto ricettivo e coreografico nondimeno degli stessi atleti, reagisca e si adatti a questo ingresso. Molti portano con sé delle maschere da pecora, esattamente come Rowan.
Altri si presentano con giacchette come quelle di Wyatt, o con un cappello simile al suo. Dopotutto, sono tutti lì per divertirsi, e il divertimento passa anche per l’immedesimazione. La canzone di ingresso è una sorta di ballata dalla cadenza inizialmente lenta e trascinata, con un basso che detta il ritmo in sottofondo e che incita a muovere lentamente le mani in aria. Se appartenessimo ad un’altra generazione, la canzone esigerebbe anche di tirare fuori gli accendini, accenderli e sollevarli in aria.
Purtroppo (o per fortuna) siamo chi siamo, e agli accendini preferiamo gli schermi luminosi dei cellulari. Che si vedono benissimo nel buio calato dentro le arene, risultando in tante lucine, che creano come un cielo stellato in terra. Come se il paradiso fosse crollato sul mondo degli uomini, ed ora essi si muovessero tra i resti e l’oscurità del regno dei cieli.
L’iconografia è semplice, e per questo efficace. Wyatt, che interpreta il guru, regge la lanterna, a volte debitamente munita di ghiaccio secco per emettere del fumo e farla apparire ancora più sovrannaturale nel buio. La lampada rassomiglia alle vecchie care lampade ad olio di altra epoca, solo che la luce che emette tradisce chiaramente la sua natura più moderna.
Ciononostante, svolge magnificamente il suo servigio. E Wyatt si presenta come novello Virgilio agli astanti, pronto a guidarli in un viaggio verso una verità che potrebbe anche non piacere loro, ma che pur sempre verità resta. L’effetto, nei palazzetti dello sport e ancor di più nelle più grandi arene, ha qualcosa di magico.
Se dobbiamo dire la verità, e solo la verità, Bray non è un grandissimo talento in-ring. Come lottato, c’è chi ha molto più di lui. E tuttavia, quello che lui ha è la capacità di creare momenti che restano nella mente dello spettatore. Momenti dei quali lo spettatore, tornato a casa, potrà parlare, potrà ricordare, rivedere nella sua mente.
L’ingresso è solo uno di questi momenti che offre ogni sera in cui si esibisce. Altri sono quelli in cui si siede al centro del ring con una sedia a dondolo, ed arringa i suoi “fedeli”, concludendo il discorso con un improbabile ma comunque evocativo “follow the buzzards!” (seguite le poiane), che subito, a noi patiti dell’horror, rimanda alla mente immagini di sentieri nei boschi disseminati di piume e corpi di uccelli morti ed altri in volo, rumorosi, sopra la nostra testa.
Più che nel lottato, Bray Wyatt punta sulla sua immagine, e sulla sua capacità di donare “momenti” al pubblico. Emozioni. Immagini. Ricordi.
Wyatt punta di più sull’immagine, sulla treatalità, sul logos, la sua capacità di intrattenere con la parola, con i giochi di luce, con il contrasto tra la risata che spesso lo caratterizza quando parla e la violenza che porta sul ring.
Conscio delle sue capacità e dei suoi punti di forza e di debolezza, fa leva sui primi per nascondere i secondi, creando un’immagine di sé paurosa, forte e temibile, ma non sempre sotto controllo, alle volte spinta da una pazzia, quella suggeritagli da Abigail, non sempre di chiara comprensione.
È un modo come un altro, in verità, per giustificare i buchi di trama che spesso, se non quasi sempre, accompagnano le storie di questi lottatori. Lo storytelling e l’amore dei fan per un personaggio del genere, che in qualche modo ripropone in chiave rivista e moderna l’Undertaker, fanno il resto.
Un ostacolo di nome Cena
La carriera di Bray sembra a questo punto pronta per emergere e raggiungere grandi vette. I fan sono dalla sua parte, vogliono vedere di cosa è capace questo ragazzo. Quello che succede, a quel punto, è un uomo di nome Cena.
Solitamente, in verità, potrebbe essere considerato un onore, un segno di crescita e di fiducia da parte dell’azienda, essere posti ad affrontare 1 contro 1 un lottatore del calibro di Cena, pietra d’angolo della federazione. Per Bray Wyatt, e per molti altri prima e dopo di lui, diventa invece l’inciampo della carriera.
Molti criticano Cena per questo fatto. Nei suoi match contro i nuovi emergenti, è raro, se non impossibile, che conceda la vittoria. Ancor più se pulita. Quello che Cena fa con Wyatt è vincerlo. Questo, tuttavia, corrisponde ad interrompere bruscamente la sua ascesa, ridimensionarlo a livello di storyline, abbatterlo, ridicolizzarlo, spegnerlo. Dopo tutti i promo, i discorsi, la costruzione della facciata, è come se un forte vento spazzasse via tutto e si scoprisse che i muri erano di compensato invece che di solida pietra. L’effetto, più o meno, è questo.
Dire che Cena distrugge Bray Wyatt è tuttavia esagerato. Grandi responsabilità avranno nei mesi che seguiranno anche i booker e la dirigenza WWE, incapace di scrivere il personaggio in maniera adeguata. Nonostante gli sforzi di Wyatt di mostrarsi minaccioso e credibile, gli tocca perdere nelle occasioni dei pay per view, ossia le occasioni in cui davvero conta.
Diventa, tra i fan nell’internet, una sorta di barzelletta. Un cane che abbaia ma che non morde, una bella storia che inizia e poi va a scatafascio ancor prima di finire.
Nel corso degli anni Wyatt diventa sinonimo di incompiuto.
Per quanto sembri impegnarsi, la federazione non fa mai in modo che vinca in maniera convincente e duratura, quasi mai in ppv, dove conta davvero.
Il sentore è quello che la federazione, e con federazione molti tendono a leggere Vince McMahon, non riesca a fidarsi al 100% di lui. L’aspetto, per quanto rinnovato ed accattivante, forse non è sufficiente. Il talento, forse, ancora una volta, non è abbastanza. Il ragazzo non riesce a convincere in maniera sufficiente affinché si riesca a puntare definitivamente su di lui, eseguendo quello che in gergo si chiama push, ossia una promozione ai piani alti della card.
Nel corso dei mesi Bray Wyatt perde la maggior parte delle sue faide. Eccezioni degne di nota sono quelle con Daniel Bryan, contro cui vince a Summerslam, e lo Shield, il quale ha sempre trovato nella Wyatt Family il suo tallone d’Achille. Ancora, si ricorda una grandiosa performance durante la Royal Rumble del 2015, nel quale rimase addirittura solo nel ring, in alcuni secondi in cui rubò il centro della scena cantando con il pubblico una delle sue canzoncine ricorrenti: “He’s got the whole world in his hands, his got the whole wide world in his hands…“. Tuttavia non la vince, e ritorna nell’oblio.
Queste vittorie non vengono capitalizzate, non sembrano voler dare origine a qualcosa di più concreto e duraturo, qualcosa di più significativo. Il pesonaggio di Wyatt inizia a diventare stantio, sempre meno credibile.
Wrestlemania: come perdere in mondovisione
La misura sembra raggiungere il colmo quando Bray Wyatt affronta l’Undertaker a Wrestlemania 31. La cosa, in verità, assume fin da subito i contorni della beffa. L’Undertaker è stato battuto l’anno prima da Lesnar, che così facendo ha interrotto la striscia vincente del deadman che continuava da 21 edizioni del pay per view.
Molti trovarono la scelta di dare quella vittoria a Lesnar sbagliata, in quanto all’epoca e tutt’oggi Lensar lavora per la WWE come part-timer, e considerando il suo status il boost che ha ricevuto da tale vittoria è stato fondamentalmente inutile.
Molti avrebbero voluto vedere l’Undertaker ritirarsi da imbattuto a Wrestlemania, oppure perdere il suo match (come da tradizione, peraltro) contro un avversario che potesse in questo modo lanciare la propria carriera proprio da questa vittoria, in una sorta di passaggio di testimone.
Nulla di tutto ciò accadde, e non pochi sono coloro che hanno ventilato la possibilità che in quel match non fosse previsto che l’Undertaker perdesse, e che lo schienamento finale sia stato dovuto al fatto che il deadman semplicemente non ebbe in quel momento le forze per rialzare le spalle.
Undertaker perse contro Lesnar, e quello non fu il suo ultimo match a Wrestlemania. Infatti, per la 31-esima edizione, venne sfidato da Wyatt. Alcuni, notando le somiglianze tra i personaggi dei due lottatori, avrebbero voluto vedere quello come ultimo match del becchino, perdendo contro un Wyatt che avrebbe così legittimamente potuto prendere il suo posto nella WWE. L’idea in sé non è male. Lo pensarono evidentemente anche dentro la federazione, in quanto il match venne pubblicizzato come lo showdown che avrebbe deciso chi tra i due sarebbe stato il legittimo”volto della paura” della WWE.
La costruzione della rivalità fu tuttavia praticamente unidirezionale da parte di Bray, in quanto l’Undertaker, fino al ppv, non si fece mai vedere. Il tutto sembrava quasi come se il becchino stesse snobbando il giovane sfidante, non rienendolo all’altezza. Per molte settimane Bray fece dei promo in cui si rivolgeva all’Undertaker, lo sfidava, lo scherniva, cercando di costruire dell’hype. Tutto questo senza l’aiuto della sua controparte.
La vittoria andò all’Undertaker, affossando se possibile ancora di più Bray Wyatt nel suo status agli occhi del pubblico. Non solo, ma dopo quel match l’Undertaker tornò nel limbo in cui si trova da diversi anni, dal quale fuoriesce solo per l’occasione di Wrestlemania e poche altre, mentre Wyatt dovette restare, subendo il peso di una sconfitta che appariva a quel punto del tutto inutile, decisa da menti poco lungimiranti e prive di una vera direzione creativa verso cui puntare. Una sconfitta che lo lasciava ai minimi storici come quotazioni. Un babau sbugiardato, un uomo nero ridipinto di bianco.
L’anno dopo si verifica una scena forse ancora più imbarazzante per Wyatt e la Wyatt family: the Rock fa una comparsata lampo, sfidando la family e sconfiggendo Rowan in pochi istanti. Lì per lì i fan sono in visibilio, in quanto, tecnicamente, hanno visto un match a sorpresa con protagonista The Rock.
Col senno di poi, una volta calmati, si riconosce il fatto che Johnson, semplicemente per fare una comparsata a Wrestlemania, ha sconfitto in pochi secondi un lottatore che, diversamente da lui, è presente in federazione nel resto dell’anno, cercando di fare il suo lavoro al meglio possibile, arrivando ad accettare anche una simile umiliazione in mondovisione. Finito il PPV quindi, Rowan, e di conseguenza anche Wyatt, se ne uscirono con le ossa frantumate, avendo fatto la figura, fondamentalmente, delle pippe.
Wyatt rebirth
A quel punto sono anni ormai che Wyatt milita nella federazione apparendo sempre di più come l’impersonificazione di un’incompiuta. Un uomo che sembra avere il talento e le carte in regola per poter fare delle grandi cose, che però resta sempre un gradino al di sotto delle aspettative. Non sarebbe in verità il primo nella storia, né sarà sicuramente l’ultimo.
E, tuttavia, c’è un “ma”.
Quello stesso The Rock che ha sconfitto in così malo modo la Family a Wrestlemania, viene fatto notare da alcuni attenti fan, non è tipo da lavorare con il primo che capita. Se per la sua comparsata a Wrestlemania ha scelto proprio Wyatt e la sua family, un motivo deve esserci. Quantomeno, conosce i ragazzi e apprezza il loro lavoro.
Chiave di volta per la carriera di Wyatt a questo punto è il brand split eseguito dalla federazione nel 2016. Quello che succede poi è che la WWE esegue, dopo anni, un nuovo brand split. Ossia, mentre prima in entrambi gli spettacoli settimanali denominati RAW e SmackDown si potevano vedere tutti i lottatori della federazione (potenzialmente), ora il roster viene diviso. In questo modo, vi sono atleti esclusiva di RAW ed atleti esclusiva di SmackDown. Questo comporta titoli del mondo divisi, uno per show. Sì, suona strano che una federazione abbia due titoli del mondo, ma è così che si fanno gli affari, evidentemente.
Wyatt finisce a SmackDown.
Questo comporta delle difficoltà a livello di gestione dei talenti. Mentre prima uno stesso lottatore poteva apparire nella stessa settimana in entrambi gli spettacoli, ora può farlo necessariamente solo in uno a settimana. Questo ne consegue che ora ogni roster deve essere usato più sapientemente per riempire le ore di programmazione, che sono comunque le stesse. Questo implica il fatto che serve usare di più e con più attenzione atleti che prima erano sottoutilizzati, o usati in maniera meno intensiva di quello che avrebbero potuto permettersi.
In mezzo a ciò, Wyatt vive una sorta di rinascita. Dopo anni in cui le storie che riguardavano lui e la sua family sono risultato insipide ed inconcludenti, ecco che improvvisamente un nuovo focus, dettato fondamentalmente dalla carenza di atleti, si risveglia attorno a lui. Nel tempo il suo look è stato parzialmente rivisto, ha cambiato vestiti e capigliatura, usando ora dreadlock, ma il personaggio nel suo nucleo è rimasto lo stesso.
Quello che succede è che nella Royal Rumble del 2017 Bray Wyatt entra 21-esimo e viene eliminato da terzultimo. A vincere la Rumble è Randy Orton, pluricampione ritiratosi volontariamente per qualche tempo dalla scena principale e quindi dai titoli e ora nuovamente in rampa di lancio. Anche lui, curiosamente, figlio d’arte.
Ora che ha vinto la Rumble ed acquisito il diritto di andare a Wrestlemania per un titolo a sua scelta. Da poco Orton è anche entrato nella Wyatt Family, mostrando come, a livello di backstage, abbia voglia di lavorare anche con chi fino a poco prima sembrare non avere un futuro radioso.
Tutto questo insieme riaccende riflettori sempre più luminosi attorno a Wyatt e alla storia che ci gira attorno. I fan sono disillusi, dopo molti anni, e tuttavia c’è una piccola parte di loro che intravede una sorta di schema. Servirebbe ora che Wyatt vincesse il titolo, affinché possa iniziare una rivalità con Randy Orton che possa culminare a Wrestlemania.
È una sorta di fantacalcio nel mondo del Wrestling. Nell’internet se ne parla. Sarebbe bello. Sì, sarebbe bellissimo. Ma tanto non succederà. Figurarsi.
Il 12 Febbraio 2017, Bray Wyatt partecipa all’Elimination Chamber match, all’interno dell’omonimo pay per view. Inventata come stipulazione dal famoso general manager Eric Bishoff, l’Elimination Chamber match sta al wrestling come lo splatter sta alla filmografia. L’Elimination Chamber è una grande gabbia di metallo che viene calata dall’alto sul ring, circondandolo.
All’interno della gabbia vi sono quattro gabbie più piccole, con le pareti di plexiglass, una per ogni lato del ring. Il match inizia con due lottatori sul ring e quattro in ogni gabbia per ogni lato. Ogni tot minuti, una gabbia viene scelta “a caso” (non c’è mai nulla di a caso nel wrestling, è una regola base) e quindi un contendente si aggiunge alla lotta. Si continua così finché tutti non sono entrati.
Ogniqualvolta qualcuno viene schienato o sottomesso o è incapacitato a continuare a lottare, viene escluso dalla contesa e deve uscire dalla chamber. Questo finché non ne resta uno solo. Il vincitore.
In questa edizione annuale dell’Elimination Chamber Match il campione in carica è John Cena, appena fuoriuscito vincitore temporaneamente dalla faida con AJ Styles, avendogli strappato il titolo WWE. Un altro partecipante è lo stesso AJ Styles, che vorrebbe riprendersi immediatamente il titolo. Abbiamo poi Dean Ambrose, il lanciatissimo The Miz e Corbin, un giovane sul quale la federazione sembra stare puntando molto in queste settimane.
Anche questa volta, Bray Wyatt resta tra gli ultimi tre contendenti. Diversamente dalla Rumble, Bray Wyatt riesce, da solo, a schienare John Cena e, poco dopo, anche AJ Styles, diventando per la prima volta nella sua carriera campione del mondo.
Tutto l’amore del Wrestling
I fan sono in delirio. Prima quando viene schienato Cena, e capiscono quindi che ci sarà un cambio di titolo, e poi quando viene sconfitto Styles. Non ci credeva più nessuno, ormai. Wyatt era diventato quasi una presa in giro vivente. La reazione dell’internet è commovente a dir poco. Centinaia di fan riversano sulle pagine facebook e twitter dedicate al wrestling la loro soddisfazione nell’aver visto un lottatore che così a lungo ha dimostrato il suo impegno e dedizione finalmente raggiungere il traguardo massimo. Molti colleghi fanno le loro congratulazioni ad un atleta che, vale sempre la pena ricordare, ricopre un ruolo da heel. In cima a tutti The Rock e Triple H stesso.
A man of his own creation.
He followed his own path..
..to the @WWE Championship.
Congratulations to @WWEBrayWyatt. #WWEChamber #WeAreNXT pic.twitter.com/r8Fagu5drR— Triple H (@TripleH) February 13, 2017
Hell yes. Big fan of his talent and couldn't happen to a better dude. Welcome to the club, enjoy the ride and have fun! Congrats brother. https://t.co/fdtl1CwKQq
— Dwayne Johnson (@TheRock) February 13, 2017
Appare evidente come, dietro al backstage, Wyatt abbia sempre dimostrato la sua passione, la sua dedizione e il suo impegno. Il traguardo appare meritato e guadagnato.
Nel wrestling alcune volte capita di trovare, proprio come in questo caso, delle storie dentro altre storie. Sulla superficie c’è la storia di Bray Wyatt, della sua ascesa verso il titolo, e tutto quello che si vede per televisione. In profondità, a riflettori e telecamere spente, si vede la storia di un ragazzo che ha raggiunto un traguardo che nemmeno suo padre aveva toccato. Un ragazzo su cui, anni fa, nessuno avrebbe scommesso nulla ma che col tempo ha saputo rinnovarsi, più e più volte, ricostruirsi, spingere i suoi limiti un po’ più in là. Un ragazzo che ha fatto leva sui suoi pregi, riuscendo a passare attraverso molte sconfitte e momenti in cui sembrava che si avesse smesso di credere in lui e nelle sue potenzialità da campione. la perseveranza è stata una delle tante sue armi vincenti.
Nel wrestling, un po’ forse anche come nella vita, bisogna sapere cosa si vuole, e lavorare duro per ottenerlo.
Bray Wyatt forse non sarà ricordato come uno dei più tgrandi lottatori di tutti i tempi, forse non sarà ricordato come un campione indimenticabile. negli anni e generazioni a venire la sua memoria si perderà, così come si perderà per la maggior parte di noi.
Tuttavia in tutto questo, qui, adesso, possiamo leggervi una piccola lezione di vita, una piccola lezione di speranza, di storytelling, di dedizione, passione. E’ una storia piccola, contenuta, che avrà valore per coloro che vorranno darglielo. Per questi, in essa vi sarà racchiuso tutto l’amore del wrestling.
- Bray Wyatt (wikipedia.org)