Ad aprire l’area movie della 50esima edizione del Lucca Comics And Games non si poteva scegliere film migliore al di fuori de La Tartaruga Rossa, film prodotto dallo Studio Ghibli, diretto e scritto da Michael Dudok de Wit.
Portato nella sezione Tutti Ne Parlano della XI Festa del Cinema di Roma e vincitore del premio speciale Un Certain Regard del 69. Festival di Cannes, La tartaruga rossa è un simbolico viaggio all’interno delle tappe della vita dell’uomo, dal disegno occidentale e dalla profondità orientale.
Per Michael Dudok de Wit La Tartaruga Rossa segna il suo ingresso sul grande schermo con lungometraggio, frutto di una serie di collaborazione tra produzioni internazionali tra cui l’amatissimo Studio Ghibli, il prestigioso studio d’animazione cinematografica giapponese fondato da Hayano Miyazaki e Isao Takahata. Ed è lo stesso Studio Ghibli ad aver voluto fortemente il regista all’interno del suo gruppo di lavoro, restando impressionato da uno dei suoi cortometraggi, Father and Daughter (2001).
Nel 2004, in occasione del Festival di Hiroshima, dove Michael Dudok De Wit faceva parte della giuria, che il regista si incontra con Isao Takahata, per poi stipulare, nel 2006, un primo contratto sia per la distribuzione di Father and Daughter che per un possibile futuro lavoro da poter realizzare insieme.
La gestazione de La Tartaruga Rossa non è stata breve e nemmeno semplice, ma i risultati sulla pellicola si vedono, regalando allo spettatore un piccolo gioiello sensibile e profondo. Una storia bellissima. Una pellicola tanto delicata quanto intesa, rivolta più verso un target molto più maturo, proprio perché densa di duplici significati e metafore complesse.
La Tartaruga Rossa si interroga sulle diverse forme della vita, ponendo al centro di tutto la doppia essenza della natura. Ciò che la natura da, la natura può togliere. È la consequenziale spietatezza del ciclo della vita, fondamentale affinché ogni forma di vita possa andare avanti nel suo percorso, lungo il suo cammino.
Un percorso che lo spettatore si trova a compiere nella pellicola assieme a un naufrago. Non conosciamo il suo nome, né da dove viene o perché si trovi nel bel mezzo della burrasca. Impariamo a conoscerlo nello stesso momento in cui lo vediamo per la prima volta sullo schermo.
L’uomo si ritrova sobbalzato su di un’isola tropicale, animata da tartarughe e uccelli esotici. Costantemente seguito da due piccoli granchi giocherelloni, l’uomo tenterà più e più volte di abbandonare l’isola, costruendosi una zattera. Ma ogni volta che la zattera tocca la superficie dell’acqua viene continuamente ostacolato da una misteriosa presenza marina, una grande tartaruga rossa.
La tartaruga marina è solitaria e pacifica e per lunghi periodi scompare nell’immensità dell’oceano. Dà la sensazione di essere vicina all’immortalità. Il suo colore rosso intenso le si addice e spicca sul piano visivo.
Abbiamo ragionato a lungo sull’opportunità di mantenere un certo livello di mistero nella storia. È evidente che il mistero può essere magnifico, ma non deve esserlo al punto da sganciare lo spettatore dalla storia. È importante generarlo in modo sottile…
Per un attimo si viene quasi portati a pensare che la tartaruga non esista nemmeno. A dire il vero, gran parte della pellicola è giocata tra apparenza e realtà, fantasia e coscienza. L’isolamento dell’uomo lo porta a dover convivere con se stesso, con i suoi limiti e i limiti di quel luogo. Totalmente privo di qualsiasi compagnia e di qualsiasi stimolo.
La voluta assenza di dialoghi, soprattutto per questa prima parte, rende ancora più incisivo il senso di alienazione dell’uomo, trasmettendo allo spettatore lo stesso vuoto e isolamento. Un limbo all’interno di un paradiso terreste dove, la tartaruga, sembra più rappresentare i nostri stessi limiti. Quei demoni, fantasmi interiori, che non siamo in grado di superare e che, quindi, non ci permettono di andare avanti con la nostra esistenza.
Eppure la natura agisce in modi imprevedibili. Il destino ha sempre in serbo per noi qualcosa e nulla viene mai lasciato al caso. Quando la rabbia e la frustrazione, la violenza dell’essere umano, prendono il sopravvento sull’uomo, rendendolo vincitore sulla tartaruga, subentra un nuovo sentimento: il senso di colpa.
Di qui un’agonia molto intensa, resa breve dall’improvvisa comparsa di una ragazza dai lunghi capelli rossi.
La conoscenza della nuova “coinquilina” è fatta di lenti gesti, sguardi schivi e un vago senso di curiosità che porta verso la strada della fiducia. Ed ecco che davanti ai nostri occhi si materializza un primordiale Paradiso Terrestre, dove vediamo il nostro Adam ed Eva interagire tra di loro e fare di quello spazio sconfinato, isolato dal mondo, la loro casa.
La decisione di restare, costruire, ricominciare e cominciare con una nuova vita, dando inizio con una nuova generazione.
In assenza dei dialoghi, la musica svolge un ruolo fondamentale, raccontando sensazioni e stati d’animo. Rappresentando il pensiero e quelle parole non dette dai protagonisti, ma anche della natura stessa. Suoni meravigliosi che riempiono la sala, perfettamente armonizzati sulla storia e che sono stati costruiti proprio attraverso una stretta collaborazione tra Michael Dudok de Wit e Laurent Perez del Mar.
La tartaruga rossa, a questo punto, e le sue azioni volte ad ostacolare la “fuga” dell’uomo, rappresentano improvvisamente qualcosa di nuovo. Non più il dover affrontare i propri ostacoli, i propri limiti, ma bensì l’importanza di aspettare.
L’uomo e la donna danno inizio a una nuova vita, un nuovo mondo che inizia con loro e continua con la nascita di un bambino. Un’esistenza alternata di giorni sereni e giorni di burrasca, fatta di momenti spensierati e momenti più bui, in cui è necessario prendere delle decisioni, fare delle scelte, a volte irreversibili, ma anche questo fa parte della vita.
Una vita che deve continuare, manifestandosi in modi differenti. Una vita che comincia, un’altra che finisce e un’altra ancora che porta una nuova vita altrove.
Il film racconta la storia in modo lineare e circolare e utilizza il tempo per parlare dell’assenza del tempo, un po’ come la musica può mettere in rilievo il silenzio. È un film che racconta che anche la morte è una realtà. L’essere umano tende a contrastare la morte, ad averne paura, a lottare per scagionarla e si tratta di un atteggiamento molto sano e naturale. Eppure si può avere nello stesso momento una bellissima comprensione intuitiva del fatto che siamo pura vita e non abbiamo bisogno di opporci alla morte. Spero che il film trasmetta un po’ questo sentimento.
Afferma il regista Michael Dudok De Vit, mentre racconta il processo di creazione e simbolismo della La tartaruga rossa.
Particolare è l’uso dei colori, oscillante tra il bianco e il nero e i colori più intensi della tartaruga o del giorno. Una colorazione molto pastello, ma che riesce a rapire, a rimanere impressa nella mente, esattamente come il tratto delicato, quasi abbozzato ma armonioso, dei personaggi.
L’armonia è tra gli elementi più importanti di questo film, lasciando che la sua narrazione scorra, non troppo veloce, adagiando lo spettatore proprio come se galleggiasse sul mare. Siamo in balia di emozioni molto più grandi di noi, a volte difficili da spiegare e, addirittura, da capire.
La tartaruga rossa offre diversi elementi per poter ritrovare la propria chiave di lettura del film. Una pellicola che non vuole avere unicamente un significato universale, ma dare la possibilità a tutti di tracciare la propria storia. Un viaggio incredibile, bellissimo.
Una delle più belle forme d’animazione vista negli ultimi tempi.