Black Mirror S03: Morte ai Social Network

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La terza attesissima stagione di Black Mirror è finalmente sbarcata su Netflix, con 6 nuovi episodi che descrivono il mondo distopico creato da Charlie Brooker. Uno dei temi più interessanti è quello dei social network e dell’uso che ne facciamo. Qual è il futuro che ci attende?

 

 

I Social Network e l’interazione umana

Se nella prima stagione la protagonista indiscussa era la televisione e la rappresentazione di come l’essere umano si interfacci ad essa, il terzo capitolo tratta l’ormai inevitabile tema dei social network  e dell’importanza che essi ricoprono nella nostra vita. L’economia e le interazioni sociali odierne vivono a stretto contatto con questo mondo, e la serie ne amplifica i toni, immaginando scenari dove il rapporto tra social e pensiero collettivo prende derive raccapriccianti.

Black Mirror ha da sempre dipinto un futuro possibile e per questo motivo terrificante, calcando la mano su quegli elementi che compongono la nostra ossessione per la popolarità, l’accettazione, per sentirsi, in qualche modo, parte di una comunità.

Analizzando Nosedive questo tipo di concetto ci viene sbattuto in faccia senza troppi fronzoli: il desiderio di essere apprezzati, considerati e accettati, dipinge un grottesco universo fatto di tinte pastello e finti sorrisi. Quando i traguardi della tua vita, come poter comprare la casa dei tuoi sogni, sono connessi alla popolarità su internet, lo sforzo di voler essere simpatico a tutti diventa qualcosa di necessario.

Col tempo vivrai solo ed esclusivamente con la funzione di creare contenuti multimediali che possano piacere al tuo pubblico, senza mai sbilanciarti troppo, senza mai esprimere un pensiero critico, restando nella safe zone, in un loop zuccheroso di 5 stelline da ricevere e dispensare alla qualunque. Non potrai più dire quello che pensi, non avrai più valvole di sfogo. Annullamento totale della personalità.

 

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Hated in the Nation svolge esattamente il lavoro inverso, sottolineando una realtà, già esistente, nella quale i social network e l’odio vivono in simbiosi. In entrambi i casi Black Mirror ci racconta che quello che diciamo e che condividiamo su internet può avere uno spaventoso effetto sulla nostra vita e su quella degli altri.

Un mondo, quello digitale, che continuiamo a sottovalutare e usare nei modi più sbagliati, augurando la morte a persone che non la pensano come noi, che hanno sbagliato, che sono diventate virali per aver condiviso foto dissacranti. E che, in generale, si meritano la nostra più disgustata indignazione.

 

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Cliccando, condividendo, likando, diamo il nostro voto ed esprimiamo un’opinione che diventa, col tempo, un immenso bolo di pelo col quale qualcuno potrebbe strozzarsi per sempre. Anche perchè il diritto all’oblio è la grande la favola della buonanotte, l’utopia da raccontare a chi, invece, sarà vittima di quel sistema.

Su Shut up and Dance il concetto viene esplicitato per bene. A prescindere da chi lo dice e da chi riceve quel monologo agghiacciante, il senso resta, ed è reale. Tutto quello che succede su internet può essere dimenticato, ma non sarà mai cancellato. Sarà la tua maledizione per sempre, ti perseguiterà con le ricerche su Google, con le immagini correlate, tutto ciò che di privato è diventato pubblico, tale resterà.

 

 

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Perché? Perché alla fine vince sempre l’odio, la protesta, l’indignazione o anche solo la sensazione di doverne parlare, di doverci scrivere qualcosa. Una presa in giro, un commento sarcastico, una battuta.

Tutto diventa massa critica. Lo puoi fare, lo devi fare, perché vuoi rientrare in quei parametri sociali, far parte del gruppo, interagire con i tuoi simili. Non che questo sia sempre sbagliato, tuttavia Black Mirror butta luce sui nodi e gli angoli oscuri del grottesco meccanismo.

Chi è la vittima? Chi è il carnefice? Chi sono i complici?

 

 

#Deathto everybody

Di certo l’odio verso il prossimo non è nato con i social network; è certo invece che in qualche modo ha aggregato gli haters, ha dato loro un luogo virtuale nel quale confrontarsi. Ci è stata data la possibilità di connetterci col resto del mondo, procurando infiniti quantitativi di materiale umano da cui imparare. Black Mirror descrive un innocente gioco della morte, il gioco delle conseguenze, amplificando ancora una volta il concetto di massa critica organizzata.

Do you want to play a game? Giochiamo a chi vorresti ammazzare. Sembra allucinante, sembra distopico, ma quante volte su Facebook abbiamo letto commenti simili? “Dovete morire tutti” “Vi auguro ogni male” “Hanno fatto bene ad ucciderla” “Se l’è cercata” e via dicendo. Questa nuova stagione non racconta scenari lontani nel tempo e nella tecnologia, racconta come un futuro molto prossimo potrebbe diventare una possibilità. Perché se auguriamo la morte a qualcuno su Internet, quasi di sicuro non lo pensiamo realmente, ma lo scriviamo lo stesso. E forse senza volerlo creiamo quel bolo di odio che, lentamente, diventa reale ed esce dal mondo virtuale.

E se il gioco partisse da un’innocente azione come quella di condividere un hashtag? Uno scherzo, niente di serio, ma ci prendiamo davvero le nostre responsabilità quando siamo indignati?

 

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Internet non uccide nessuno, ma qualche volta diventa il teatro di fatti di cronaca nera. Diventa incipit di resoconto tragici, di ragazze che si sono suicidate a causa di video porno diventati virali. Di ragazzini che si sono suicidati a causa di bulli che li hanno inseguiti a scuola e hanno continuato a farlo online. Un enorme megafono che, dalla vita reale, continua a fare eco anche in internet, e viceversa. E’ un argomento spinoso, che non voglio districare, che non posso districare, ma che Black Mirror ci invita a considerare.

L’unica cosa che possiamo fare è rivalutare il concetto di moderazione. Avere infinita libertà di parola ed essere comunque in grado di trattenersi, o di immaginare le conseguenze. Di creare un’auto-critica, un’auto-regolazione che diventi parte integrante della nostra interazione coi social. Saper valutare quanto il nostro microscopico post possa sommarsi ai post di altri migliaia, milioni di persone. Non lo pensavo realmente, eppure l’ho scritto.

Hated in the Nation fa un ulteriore passo avanti: il primo passo è uccidere i target votati dalle persone su Twitter. Il secondo passo è ripagarli con la stessa moneta. Uccidere ogni singola persona che ha votato il più odiato d’Inghilterra. Ed è qui che si scatena la spaventosa distopia nella quale, a causa di un hackeraggio nella tecnologia avanzata, vengono uccise 400.000 persone. Con un semplice click, un semplice invio.

 

 

La stagione della speranza

Malgrado alcune eccezioni, la terza stagione di Black Mirror si distacca da ciò che conoscevamo in precedenza. Il futuro, con Netflix, prende coloriti più rosei. Non è di certo il Black Mirror che mi aspettavo, con la sua tagliente e fredda descrizione del materiale umano distrutto moralmente dalla stessa tecnologia che ha creato.

Svuotato di empatia, di speranza, di compassione. Il grande teatro delle brutte persone, dove anche i buoni cedono alla corruzione della popolarità, del denaro, dell’odio. Un futuro senza alcuna speranza.

 

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la terza stagione della serie stravolge le carte in tavola.

Troviamo perfino personaggi positivi, innocenti, storie d’amore che vanno a finire bene. Mi ero innamorata della brutalità di Charlie Brooker, e devo ammettere che mi manca molto, ma forse l’intento della produzione era proprio quello, dare una svolta in positivo alla serie.

Di certo rimpiangerò Primi Ministri, maiali, show televisivi, cyclette e il Bianco Natale di Jon Hamm.

 

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