Nel 2013 David F. Sandberg terrorizzò oltre 100 milioni di spettatori con il suo Lights Out, disturbante e ansiogeno cortometraggio basato su una delle più recondite paure dell’uomo: il buio. A distanza di tre anni, con la produzione e mano d’opera del team di un grande autore come James Wan, David F. Sandberg trasforma quel cortometraggio in un lungometraggio dove il mostro prende finalmente forma.
Il buio è uno dei nostri nemici fin dall’infanzia. Certo, magari la notte abbiamo bisogno di addormentarci privi di luce, eppure sfido chiunque a restare in un lungo chiuso, isolato, immerso nella totale tenebra, senza provare quel minimo di disagio corrergli dietro la schiena.
Il filmmaker svedese David F. Sandberg gioca proprio su quell’attimo di paura quando il buio piomba all’improvviso su di noi. Ma se vi dicessi che al buio non siete da soli? Se nel buio si muovesse qualcosa che si nutre di quell’oscurità, pronta a svanire al primo lampo di luce, pronta ad attaccare nel momento in cui le vostre difese sono totalmente cieche?
Ora lo vedi. Click. Ora non lo vedi più.
Ora lo vedi. Click. Ora non lo vedi più.
Ora è proprio di fronte a te. Le sue lunghe dita nere si avvicinano, senti il suo respiro sulla faccia… Attento!
Sandberg, già dal suo corto, non reprime l’impulso della paura del buio, bensì da una motivazione maggiore allo spettatore per avere paura: nel buio c’è qualcosa che si muove.
E l’idea del regista è assolutamente geniale! L’ansia nello spettatore è palpabile e al primo rumore si è pronti a saltare dalla sedia.
Se nel cortometraggio di Lights Out il mostro non aveva nome, ma solo un volto terrificante sul finale, il lungometraggio prodotto da James Wan indaga proprio sulle origini di questo essere. Il suo nome è Diana, una ragazza morta a causa di una cura sperimentale all’interno di un centro psichiatrico dove tentavano di curare la sua xerodermia pigmentosa.
https://youtu.be/rt0i-_RQSDU
Diana nella clinica era molto amica di Sophie, una ragazzina in perenne bilico depressivo. A distanza di anni, e dopo la morte di Diana, Sophie sembra liberarsi di questo peso. Costruisce una famiglia. Eppure Diana è sempre pronta, nell’ombra, ad attaccare. Ad avvinghiarsi al corpo di Sophie come un’ombra, un’amica costante che non si può sconfiggere.
Lights Out potrebbe benissimo essere la perfetta interpretazione, in chiave filmica e metaforica, della depressione. Un’ombra che cresce sulle nostre spalle, oscurandoci totalmente la vista. Un’amica possessiva e gelosa capace di crescere fino ad arrivare al punto di inglobarci, tagliando fuori qualsiasi altro affetto.
Questo è ciò che si ritrova a vivere Rebecca (Teresa Palmer) con sua madre, ormai incapace di badare al figlio più piccolo Martin (Gabriel Bateman) perché troppo assuefatta da Diana.
Diana non vuole che nessuno distragga la sua amica Sophie (Maria Bello) dai loro momenti, per questo motivo nel buio è intenzionata più che mai a terrorizzare e spazzare (per non dire spezzare) via qualsiasi minaccia. Ma dopo troppi anni di silenzio, Rebecca è decisa a liberare sua madre più che mai da questo terrificante mostro.
Tutti hanno paura del buio. E lei si nutre di questo.
Lights Out è un horror con tutte le carte in tavola per essere qualcosa di davvero unico e differente. David F. Sandberg non è un novellino nell’ambito dell’inquietudine. Sebbene Lights Out sia il suo primo lungometraggio, diversi sono i lavori del regista dove al centro della scena ci sono atmosfere disturbanti e colme di angoscia.
Le premesse per un ottimo film c’erano davvero tutte, considerando il profondo appoggio di James Wan e della sua squadra, come le scenografie di Jennifer Spence (Insidious), la costumista Kristin M. Burke (The Conjuring), i montatori Kir Morri (The Conjuring) e Michel Aller (Paranormal Activity: Ghost Dimension) e il direttore della fotografia Marc Spicer (Fast and Furious 7); eppure, nonostante questo Lights Out non riesce a brillare di luce propria e bucare lo schermo come fece tre anni prima il suo cortometraggio.
A risentire sicuramente di più è la mancanza di una sceneggiatura solida che sappia andare in profondità. Il film scorre perfettamente nei suoi ottanta minuti, riuscendo anche nel suo intento di intrattenere e coinvolgere, nella parte iniziale, lo spettatore. La sensazione che si ha dopo i primi venti minuti del film, quando il “trucco” di Diana diviene facile e prevedibile, è che il film venga troppo compresso in una struttura che castra totalmente la storia.
A differenza del cortometraggio, David F. Sandberg cura solo la regia, mentre la stesura dello script è stata affidata a Eric Heisserer, sceneggiatore del quinto capitolo di Final Destination e del poco riuscito remake del celebre film di Wes Craven, A Nightmare on Elm Street.
Il lavoro di Heisserer è stato quello di muoversi su una linea prevedibile di avvenimenti, a volte quasi fatali, senza aggiungere quel tanto di mistero in più sulla figura di Diana. La risoluzione è fin troppo semplice e banale, per non dire frettolosa. Viene quasi da pensare come i personaggi della pellicola non abbiano pensato prima a una soluzione del genere. Inoltre i movimenti del mostro sono spesso incoerenti e il voler relegare le apparizione quasi esclusivamente in unico posto, a lungo andare stanca.
La trappola mortale in cui Heisserer e Sandberg vogliono rinchiudere i loro spettatori non funziona, perché la storia costringe a smettere di provare empatia troppo presto.
Il trucco della luce viene fin troppo abusato, a tal punto da sapere, ormai, quando Diana apparirà e cosa farà. Se in un primo momento l’ansia gioca una parte fondamentale, successivamente il riuscire a prevedere con troppo facilità i movimenti successivi del film, gioca totalmente a suo sfavore.
Abbastanza inverosimile la morte della Diana umana, senza contare i molteplici interrogativi che nascono una volta scoperti i documenti relativi ma che non trovano risposta.
Sicuramente un conto è il patto della sospensione della realtà con lo spettatore, ma al tempo stesso si vuole in cambio anche una certa coerenza, o almeno una giustificazione delle scelte compiute.
Le luci con Lights Out si ha voglia di non spegnerle più, ma solo per quanto riguarda la prima parte della storia, lasciandosi suggestionare dalle cupe atmosfere che Sandberg riesce comunque a tirar fuori.
Lights Out rappresenta una di quelle occasioni perse dalla grande industria cinematografica americana, sempre troppo intimorita dalla sperimentazione e dal lasciare progetti come questi nella mani di registi “esordienti”.
In un periodo in cui si ha davvero bisogno di luce, intesa come freschezza nelle novità e nelle idee, forse un pizzico di coraggio maggiore, per poter uscire da questa tenebra in cui sono finite tutte le idee e trovate per i film, sarebbe essenziale e perfetto.
Lights Out non arriva all’originalità e anima accattivante del suo corto, restando un film che nella sua sufficienza funziona, ma che alla fine della giostra non lascia molto, rischiando di venir dimenticato un week end successivo alla sua uscita.
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Lights Out sarà in tutte le sale cinematografiche dal 4 Agosto.