Da Narim a Gaurion

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La lama affondò stanca e rabbiosa nel petto di Gaurion, lo sguardo vuoto e incredulo fisso negli occhi del piccolo uomo che gli aveva squarciato il cuore nero e marcio. Cadde a terra senza troppe cerimonie, morto.

l’Eterno Cadavere finalmente morto, mentre il sangue putrido si spandeva sul pavimento bagnandogli le guance fredde e pallide. La spada bianca scivolò dalle mani del piccolo uomo, incredulo tanto quanto Gaurion di ciò che era riuscito a compiere. Si guardò i palmi, le dita che avevano posto fine al terrore e alla tirannia che avevano impestato le terre per sette secoli. Le guardò, incredulo che avessi scelto proprio le sue mani per compiere quell’impresa disperata.

Le cronache si sprecano sulla fine di Gaurion, ognuna ne propone una versione diversa nonostante siano passati così pochi anni, ma in nessun testo di nessuna biblioteca sorta in questo periodo di pace, in nessuna parola mai vergata viene spiegato chi fosse e da dove venisse Gaurion, l’Eterno Cadavere. Si racconta soltanto che fosse un uomo ossessionato dal potere, e non si dà alcuna spiegazione di questa ossessione, nessun motivo, quasi fosse semplicemente il frutto di una mente malata, in cui la piccola porzione di male normalmente presente in ogni uomo avesse trovato terreno fertile per riprodursi a dismisura. Da quanto i nostri eminenti storici sostengono, tale sete per il potere lo spinse a scambiare la propria umanità per fare del suo corpo il ricettacolo della spaventosa forza delle tenebre. Per loro, lui era il male, da quando venne al mondo a quando lo lasciò.

Nulla di più falso.

Che ne possono sapere questi minuscoli uomini di fatti avvenuti più di dodici secoli orsono? Che ne possono sapere loro del dolce profumo del regno di Ghalla e delle alte guglie del palazzo reale, che svettavano candide nel cielo? Che ne possono sapere loro del sacrificio straziante di Narim, dalle cui carni squarciate in immonde ferite nacque Gaurion?
Abbiate pazienza, e sedetevi ad ascoltare la storia che ho da raccontarvi. Se non per amor del vero, per rispetto di chi vi ha salvato dalla piaga delle tenebre.

La storia di Gaurion potremmo appunto farla iniziare poco prima della sua comparsa in questo mondo, più di dodici secoli orsono, quando ancora camminava su queste terre portando il nome di Narim. Le prime verità su quest’epoca, da molti considerata più un mito che realtà, stanno venendo alla luce soltanto di recente, ma io ho visto con i miei occhi i soli di quei giorni lontani, e posso guidarvi meglio di chiunque altro nei meandri di quel tempo perduto. Ma andiamo per ordine.

Prima dell’unificazione di tutte le terre operata da Gaurion sette secoli fa, il mondo era suddiviso in una decina di regni indipendenti. Nonostante vi fosse qualche conflitto, tra essi regnava generalmente la pace, sia perché il lavoro nei campi lasciava poco tempo per pensare alla guerra e ai beni altrui, sia perché le conoscenze belliche erano tanto scarse che i conflitti non recavano nessun vero danno alle parti coinvolte. La fame e l’ignoranza garantivano un periodo di pace piuttosto stabile, insomma.

Tra questi antichi regni ve n’era uno, il regno di Ghalla dalle bianche volte, che fra tutti era il più progredito per quanto riguardava la coltivazione delle messi e l’allevamento del bestiame. Tale progresso aveva garantito ai suoi abitanti qualche ora di svago in più ogni giorno, che potevano dedicare alle loro passioni. Fortunatamente, la guerra non figurava tra gli interessi di questa gente, che invece era attratta dallo studio delle arti più fini e delle tecnologie più utili. Bianchi edifici alti e complessi, macchinari laboriosi per la raccolta delle messi, statue di marmo aggraziate e semoventi, che riempivano di meraviglia con l’illusione della loro vita. Sì, Ghalla era un regno virtuoso, nessuna parola può descriverlo meglio, ed io sono nato e vissuto lì. Ero forse il più fortunato, tra gli abitanti di quel regno. Nato con il dono di saper incanalare il flusso magico che sgorgava dagli Antichi, fui preso sotto la protezione della famiglia reale. Non dovevo preoccuparmi di nulla, soltanto di esercitare il mio dono, compito non facile dal momento che un solo mago nasceva ogni dieci secoli, per cui nessun maestro poteva insegnarmi l’arte.

Tuttavia, trascorrevo le mie giornate con gioia, correndo dal re ogni volta che avevo compiuto un progresso, mostrandoglielo fiero. Ero ancora un bambino al tempo, e sorrido al ricordo di quei momenti. Correvo in fretta lungo i luminosi corridoi che separavano la mia stanza di pratica dagli uffici del re, la lunga veste blu che m’intralciava i passi, le guardie che si scostavano dall’ingresso per lasciarmi passare, scambiandosi sguardi divertiti, e io che piombavo al cospetto del re strillando “Sua altezza, guardi!”. Il re deponeva la sua penna o interrompeva il colloquio con i suoi consiglieri, osservandomi mentre un sorriso gentile si apriva sotto la sua folta barba color del miele. Agitavo la mano ed ecco che il fuoco delle torce accanto a me si raccoglieva galleggiando nel mio palmo, in forma di sfera. O ancora, facevo fluttuare il calice che il re teneva sulla sua scrivania attraverso la stanza, per poi farne sgorgare un drago rosso vino che s’attorcigliava festoso intorno agli increduli consiglieri.

Ma i ricordi che più infondono dolcezza in questo mio cuore antico e stanco sono i momenti passati in compagnia dei due figli del re, Ferleim e Narim.

Ferleim era il maggiore, i capelli biondi come il padre e i suoi stessi occhi azzurri. Narim invece aveva i capelli corvini della madre e la medesima carnagione olivastra di questa. Assomigliava tanto a sua madre, e proprio per questo il re provava tanta malinconia nel vederla. La regina era morta durante un assalto dei banditi alla carrozza regale, mentre stavano tornando da una visita al vicino regno di Herta, pochi anni prima che io mi trasferissi a palazzo. Non ho mai potuto conoscerla, pare fosse una donna non eccezionalmente bella, ma di squisita dolcezza dei modi. Non s’intendeva di politica, ma s’intendeva di persone.

Era da così tanto che non ripensavo a quel tempo lontano. Mi ritorna in mente uno dei nostri giochi preferiti, la cacciata del tiranno. Ferleim impersonava un regnante astuto e potente che aveva perduto il senno, mentre Narim era il piccolo eroe colmo di difetti che doveva porre fine alla tirannia, ed io in qualità di mago dovevo aiutarla nella sua ardua missione. Con i miei poteri a dire il vero aiutavo entrambi i fratelli, animando i minuscoli soldati di argilla di Ferleim e rivestendo di un fuoco freddo e azzurro la spada di legno di Narim. Dopo l’epica battaglia in cui l’esercito di uomini vuoti veniva sbaragliato dal piccolo eroe, lo scontro finale si concludeva inesorabile con la spada affondata tra il busto e il braccio di Ferleim, che soccombeva ad una morta buffa e scenica. Tutti quanti ridevamo, forse più di quel che avremmo dovuto.

Comunque, dicevo, Ferleim era il primogenito, intelligente, forte, il cui carattere univa la risolutezza e la riflessività in quell’equilibrio che tutti riconoscono come ideale, ma che nessuno riesce mai ad abbracciare per le piccole contraddizioni dell’animo che sono congenite in ogni uomo. Ferleim non pareva avere difetti, forse perché il suo più terribile difetto era ben in vista, rilucente in tutta la sua gravida catastrofe. Il rigore morale di Ferleim era inamovibile, insensibile verso chiunque si macchiasse di un crimine, ma nessuno ebbe l’accortezza di vedere l’errore dietro a questo pregio, e così nessuno seppe prevedere le estreme conseguenze a cui questo avrebbe portato.

Narim invece era la secondogenita, amata sì dal padre, ma comunque meno luminosa di Ferleim ai suoi occhi. Ferleim era ben consapevole di questo fatto, e soffriva ogni qualvolta il re condivideva una parola d’elogio per lui, ignorando ingenuamente gli sforzi che la sorella compiva per mostrargli il proprio valore. Tuttavia, fino a che la madre era in vita, Ferleim mi raccontò che Narim non risentiva troppo di questa situazione, perché la regina era sempre in grado di darle conforto e di scaldarle il cuore. Ma da quando lei era morta, Narim cadeva spesso in momenti di enorme sconforto. Nessuno più era in grado di consolarla della scarsa considerazione paterna, a cui ora s’era aggiunto persino il triste rammarico del re nel vedere che col passare dei giorni Narim cresceva sempre più simile alla donna che tanto aveva amato, e che ora aveva perduto. La povera Narim non trovava conforto in nulla, perché in nulla le pareva di riuscire meglio del fratello, così perfetto. Era terribilmente insicura delle sue scelte, che spesso finiva per non compiere, esile di corporatura e pertanto non adatta ai duelli con le pesanti spade e armature di ferro, ingenua oltre ogni dire e per questo pessima nel preparare strategie. Lei, con tutti i suoi difetti, non riusciva a sferrare nemmeno un flebile assalto alla corazza di magnificenza che rivestiva Ferleim, e gli Antichi sanno quante volte lui avrebbe voluto scrollarsi di dosso quella fredda armatura per lasciarsi trafiggere e abbracciare dalla fragile figura della sorella. Perché sapeva bene che al centro di quei difetti batteva un cuore caldo e dolce, come quello della loro povera madre. Un cuore che tante volte avrebbe desiderato avere, al posto di quello raggiante ma austero che gli riecheggiava nel petto.

Tuttavia, gli anni passarono veloci, con relativa tranquillità. Ferleim aveva ormai raggiunto età da matrimonio, ma fatto insolito, unica stranezza nella sua chiarissima perfezione, rifiutava categoricamente di unirsi ad alcuna donna. Il re era non poco dispiaciuto da questo fatto, sperava di poter consolidare ulteriormente la pace del suo regno con un vantaggioso matrimonio, ma si consolava pensando che fosse soltanto una stramberia passeggera in quel mare irrequieto che era la giovinezza, in cui suo figlio stava allora nuotando inesperto. Ma purtroppo il re non visse abbastanza a lungo per vedere Ferleim imparare a rimanere a galla, poiché una malattia lo portò nella tomba prima di quanto tutti avrebbero voluto. I medici furono impotenti di fronte al repentino e inesorabile decorrere di quella malattia misteriosa, contro cui nulla potevano le loro conoscenze. Fu così che ebbe inizio il regno di Ferleim.

Subito apparve chiaro il motivo per cui Ferleim non ebbe voluto sposarsi. Sua moglie sarebbe di fatto divenuta la regina del regno, ma lui voleva che una donna e una soltanto ricoprisse quel ruolo. Non essendoci una moglie, la regina ad interim sarebbe diventata Narim, la sua sorellina tanto amata ma così spesso trascurata da loro padre. Ferleim non spiegò mai a Narim chiaramente le sue motivazioni, ma lei non era tanto ingenua, e non poté che sorridere segretamente in cuor suo per la dolcezza del fratello, tanto più che sapeva bene quale rischio corresse lasciando che la sorella sedesse sul trono della regina troppo a lungo. Nonostante fosse un regno di pace, anche gli uomini e le donne di Ghalla conoscevano il significato della perversione, e anche gli uomini e le donne di Ghalla parlavano. Ma a Ferleim non interessava tutto questo, voleva soltanto che quei momenti di grande sconforto non adombrassero mai più il viso di sua sorella.

In ogni caso, sotto la guida di Ferleim e Narim il regno di Ghalla non andava né meglio né peggio di quando era loro padre a governare, ma tutti sapevano che questi due sovrani erano ancora inesperti nell’arte del guidare una terra, perciò si aspettavano grandi cose da loro, in futuro. Per quanto mi riguarda, io ero ormai diventato un mago piuttosto erudito, almeno credo. Avevo da tempo compreso che il controllo degli elementi era una forma superficiale del potere donatomi dagli Antichi, una manifestazione che scalfiva solamente la superficie della realtà. Nel grembo del mondo si contorcono due forze ben più sottili e immense, che consumandosi a vicenda generano tutto ciò che noi chiamiamo reale. Le chiamai luce e ombra queste due forze, più per mia comodità che per effettiva correttezza dei termini. Sono concetti che trascendono di molto la limitata conoscenza accessibile alla mente umana. Una sola cosa però mi fu ben chiara, gli Antichi avevano trovato il modo di manipolare queste due forze attraverso due distinte forme di magia, la magia bianca per la luce e quella nera per l’ombra. Non oso immaginare quale terribile catastrofe abbia dilaniato gli imperi degli Antichi, esseri che furono in grado di imbrigliare il potere della realtà. Tanto più che io, avendo accesso solamente ad un frammento di quel loro potere, ho portato orrori e tirannia per sette secoli in questo mondo. Ma… sto divagando…

Ovviamente raccontai a Ferleim e Narim, che benevolmente mi avevano concesso di rimanere a palazzo, i miei progressi nell’arte della magia. E quando alcuni mesi dopo Ferleim chiese il mio aiuto per fermare una pestilenza che i medici non riuscivano a contenere, fui ben contento di impiegare ciò che avevo imparato sulla magia bianca. Dovete sapere che ogni essere è costituito da due schegge delle forze primordiali, una scheggia di luce che ne controlla la vita e una d’ombra che ne controlla la morte. La prima mira ad aumentare il tempo che trascorriamo in questo mondo, la seconda a ridurlo. Ebbene, poiché in ogni essere vivente ci sono frammenti di luce e ombra, imparando a controllare la magia bianca o nera si possono manipolare le esistenze dei viventi, in bene o in male. Perciò, per porre fine al flagello della pestilenza colmai di magia bianca la spada di Ferleim, cosicché fungesse da catalizzatore per ritrasmettere vigore al frammento di luce di coloro che erano stati piagati dalla pestilenza. In poco tempo, questa fu debellata e in tutto il regno furono alzati elogi a Ferleim, il re taumaturgo.

Quanto vorrei aver lasciato che la pestilenza si risolvesse da sé, portandosi via molte anime e sette secoli di buio.

Perché fu proprio quella spada l’inizio della disgrazia. Ferleim si rivelò essere stato molto più attento ai miei discorsi di quanto non pensassi, e molto più arguto di quanto credessi nel trarre conclusioni. E pensare che tutti gli indizi per capire quel che stava facendo erano sotto i miei occhi. Innanzitutto, da quando aveva brandito la spada per estirpare la pestilenza, la sua ossessione per la giustizia s’era fatta sempre più pressante. Da un lato questo era ben comprensibile, la piaga dei banditi si faceva ogni giorno più dannosa e i regni vicini, da cui provenivano la maggior parte di essi, si rifiutavano di collaborare nella loro cattura. Ma Ghalla era l’unico regno in cui la pestilenza non aveva causato troppa devastazione: le terre vicine erano divenute troppo povere per poter dar da mangiare a tutti e troppo esauste per impedire che i propri abitanti andassero a cercare di che sostentarsi oltre i confini dei rispettivi regni. Questa situazione stava snervando Ferleim, tanto più che gli riportava alla mente la morte della madre. Iniziò non di rado ad avere scatti d’ira.

Il secondo fatto che avrebbe dovuto farmi riflettere fu la decisione da parte di Ferleim di trasformare una piccola porzione del castello in una prigione. Giustificò questa decisione a me, Narim e ai consiglieri mostrando che le celle della caserma erano tutte piene, e ci si aspettavano altri arresti. Era un decisione più che valida, ma perché macchiare il bianco palazzo reale dedicandone una parte ad una funzione tanto meschina? In fondo, vi erano molti altri edifici in cui sarebbe stato possibile collocare le nuove celle. Tuttavia, nessuno obiettò, in fondo non era nulla di così insensato.

Ciò che invece fece finalmente risvegliare la mia coscienza fu il giorno in cui Ferleim venne nel mio laboratorio, chiedendomi se potessi infondere nuovamente magia bianca nella spada, poiché la sua efficacia stava lentamente svanendo. Scioccamente, lo feci, ma non appena Ferleim lasciò il laboratorio capii che qualcosa non andava. La magia che inizialmente avevo infuso nella spada sarebbe bastata per placare più di due epidemie, e da quando aveva debellato la pestilenza non mi risultava che Ferleim avesse mai usato il potere della spada. Ma evidentemente, se la sua magia era andata diminuendo fin quasi a svanire significava che in qualche modo era stata impiegata. La conferma che Ferleim stava utilizzando la spada mi venne da Narim. Era particolarmente felice in quei giorni, diceva che Ferleim era molto più solare e che trascorreva molte ore nelle prigioni del palazzo, non sapeva esattamente cosa facesse ma ogni volta che ne usciva portava con sé uno dei banditi prigionieri, completamente cambiato ed indirizzato verso la retta via. Narim era convinta che il fratello riuscisse in quest’impresa miracolosa grazie alla purezza del suo cuore e delle sue parole. Purtroppo, realizzai con terrore che non era così. Dovetti sbiancare, perché Narim mi chiese se stessi male, ma nemmeno la sentii. Stavo ripensando ad un tardo pomeriggio d’estate, quasi al tramonto, in cui mi trovavo con Ferleim seduto nel suo studio mentre sorseggiavamo del buon infuso raffreddato. Avevo fatto progressi nella mia conoscenza della magia bianca, e così stavo spiegando a Ferleim che la scheggia di luce contenuta nei viventi, oltre ad allungare il tempo di vita del suo portatore, lo spingeva verso quei comportamenti che generalmente potremmo definire giusti. Non rubare, non uccidere, aiutare i bisognosi, e via dicendo. Di questo fatto ero certo, le mie ricerche non avevano sbagliato, tuttavia non sono mai riuscito a comprendere perché la scheggia di luce brami questo genere di condotta, anche quando può rappresentare una minaccia per la vita stessa. Forse ha un altro scopo oltre a quello di allungare i soli che vediamo sorgere e tramontare… Purtroppo, non ebbi modo di approfondire questo argomento. In ogni caso, spiegai a Ferleim che molto probabilmente gli uomini portatori di una condotta deleteria per gli altri possiedono una scheggia d’ombra maggiore di quella di luce, e per questo più inclini a comportamenti dannosi. Nulla che non potesse essere corretto con una buona educazione, e difatti fui sorpreso nello scoprire che la dimensione delle schegge d’ombra e di luce potesse variare nel corso della vita. Ricordo ancora le esatte parole di Ferleim, che al tempo mi parvero banalmente ovvie.

«Quindi, come una scheggia d’ombra troppo possente può farci incamminare su una via oscura, una scheggia di luce che predomini sull’altra può costringere alla rettitudine»

Assentii svogliatamente, tanto era ovvia quella conclusione, più colpito dall’aroma dell’infuso che stavo bevendo che dal tono in cui quelle parole erano state proferite. Non feci caso allo strano sguardo del re.
Grazie a Narim, riconobbi infine quelle parole per quel che erano. In qualche modo, Ferleim era riuscito a modificare la dimensione della scheggia di luce nei banditi imprigionati a palazzo utilizzando il potere della spada. Incontrai alcuni di quei banditi, secoli dopo, e non posso descrivervi in quali condizioni versassero. Ferleim aveva annientato quasi totalmente la scheggia d’ombra in quegli uomini, e gli uomini non sono fatti per vivere di sola luce.
Lasciai Narim sbigottita in mezzo al corridoio arancione, il sole stava ormai calando, e corsi con la testa vuota all’ufficio di Ferleim. Le guardie si scostarono, lanciandosi sguardi preoccupati, ed io mi richiusi con violenza la porta alle spalle. Ferleim depose la piuma con cui stava scrivendo e mi guardò confuso.

«Cosa succede, Irelat?»
Cercai conferma dei miei timori. Dopo un suo sospiro, la trovai.
«Ritieni improprie le mie azioni?»

Cercai di spiegargli che manipolare la luce e l’ombra di un essere vivente non era come far guarire da una pestilenza, era un’azione immonda, e non poteva sapere quali effetti avrebbe avuto su quella persona. Stava giocando con un potere che risaliva ai primordi della creazione, solamente uno sciocco poteva pensare di piegarlo al suo volere senza ripercussioni.

«Dovrei quindi lasciare che assaltino carovane e uccidano povere donne indifese? Oppure dovrei lasciarli marcire nelle prigioni in cui sono rinchiusi? Nessuno di questi mi pare un destino degno per un essere che abbia in sé la scintilla della vita»

Fui pietrificato dalla luce fredda nei suoi occhi. Cercavo confusamente delle parole per rispondergli, ma erano spaventate dal suo sguardo e fuggivano a nascondersi nei meandri della mia mente. Ferleim riprese in mano la sua piuma e mi fece segno di uscire.

Mentre tornavo ai miei alloggi mi si fece incontro Narim. Il mio animo era ancora infranto e non riuscivo a spiegarle cosa avessi scoperto, ma a poco a poco il suo dolce sguardo silenzioso risanò le ferite invisibili che portavo dentro di me e così fui in grado di renderla partecipe del mio dolore. I suoi occhi s’incurvavano sotto il peso delle mie parole, inondati d’infinita tristezza. Non so se il suo rammarico fosse dovuto al pensiero di quegli uomini, svuotati brutalmente della loro umanità, per quanto criminale, oppure alla paura che il fratello fosse arrivato a tanto perché lei non era riuscita a sanare il desiderio di vendetta che la morte della loro madre gli aveva lasciato. O peggio ancora, forse temeva che Ferleim stesse facendo tutto questo per vendicare proprio lei, che dai banditi si era vista portar via l’unica fonte di conforto dall’ingenua indifferenza del padre. Non riuscii mai a scoprirlo, ancora non avevo finito di parlarle che già si era incamminata verso gli uffici di Ferleim, lo sguardo risoluto ma puntato ai suoi piedi.

Forse avrei fatto bene ad andare con lei, ma in quel momento il mio cuore era completamente esausto, non avrei potuto sostenere nuovamente un incontro con Ferleim, così mi ritirai nelle mie stanze. Il giorno seguente venni a sapere da uno dei consiglieri che Narim aveva cercato di convincere suo fratello a cessare quell’orrenda pratica, che una rettitudine imposta e vuota non era certo meno dannosa di una vita criminale, che presto o tardi tutto il popolo ne avrebbe risentito, e che entrambi sapevano a cosa portasse il troppo potere, anche nelle mani di un giusto che si adoperava per il giusto. Ferleim ripudiò quegli argomenti in un tono dolce ma che non lasciava adito a repliche. Abbracciò la sorella che piangeva, dicendole che non aveva di che preoccuparsi, che il compito di un regnante era di offrire la miglior vita possibile ai suoi sudditi, e quale vita era migliore di una libera dalla miseria e dal peccato?

Narim tuttavia non accettava minimamente la condotta del fratello e in poco tempo il rapporto tra i due si sgretolò. Dapprima si limitò a non rivolgere più la parola a Ferleim e a protestare in maniera passiva, smettendo di mangiare, di mostrarsi ai sudditi al suo fianco, e questo rendeva il re depresso, deconcentrato, ma non meno convinto della strada che stava percorrendo. Così Narim iniziò a boicottare direttamente le azioni del fratello. Cercò più volte di rubargli la spada, di liberare di nascosto i banditi catturati, si incatenò perfino davanti alla porta che conduceva alle prigioni inghiottendo la piccola chiave del lucchetto. Il re non poteva più accettare quella situazione, era furibondo. Non aveva più riguardi per nessuno, non ascoltava più alcun consiglio, men che meno quelli della sorella. Stava riuscendo a metterlo in ridicolo davanti a tutti i suoi sudditi e gli impediva di salvare quei banditi dal male. Perché in fondo era di questo che era convinto, li stava salvando. Una delle ultime volte in cui mi convocò a udienza, mi confidò che doveva assolutamente prendere provvedimenti nei confronti di Narim, ma che non ci riusciva. Nella sua mente ormai posseduta dall’ossessione per la luce, credeva che a impedirgli di agire contro sua sorella fosse la scheggia d’ombra che aveva in corpo, che lo ostacolava nel suo progetto di redenzione, e nel dirlo accarezzava con lo sguardo la spada rilucente di bianco. Non mi lasciò il tempo di rispondere, porgendomi la spada e chiedendomi di imberla nuovamente di magia bianca. Stavo per rifiutarmi, ma sentii il tintinnare delle guardie reali avanzare dietro di me. Fui vigliacco, temetti per la mia vita, incantai nuovamente la spada. Avrei dovuto portare con me nell’abisso la mia conoscenza, quel pomeriggio.

La sera, quando ormai tutti ci eravamo ritirati in silenzio nelle nostre stanze, un’esplosione bianca e silenziosa si propagò dalla sala del trono, raggiungendo ogni angolo del castello. Cacciamo fuori la testa dalle nostre porte, confusi, poi iniziammo a correre verso la sala. Arrivammo lì tutti insieme, e ci fermammo alla soglia. Un’aura pesante e pervasiva opprimeva le nostre menti, facevamo fatica anche soltanto a pensare. Sul trono stava seduto Ferleim, era chiaramente lui, ma non era più fatto di carne, la sua pelle era una solida e rilucente porcellana bianchissima, che emetteva un alone quasi accecante, che echeggiava solenne sulle alte pareti di marmo bianco e sui rossi stendardi che pendevano dal soffitto. Nella sua mano destra, chiusa in un pugno, la spada riluceva con fierezza. Alcuni, più coraggiosi di me, si avvicinarono cautamente e, giunti a pochi passi dal re immobile, caddero in ginocchio, lo sguardo vuoto e l’espressione beata, che contemplavano il loro sovrano rifulgere di gloria. Non potrò mai esserne sicuro, ma credo che Ferleim quella sera usò il potere della sua spada per eradicare completamente l’ombra dentro di sé, divenendo egli stesso sorgente perpetua di pura luce. E sapete quale fu il primo ordine di quel sovrano privo di ombre?

«Guardie, rinchiudete la regina nelle prigioni»

Le guardie non esitarono un istante, non so dire se per dedizione, ammirazione o qualche forma di sortilegio. Presero Narim, lo sguardo che ancora cercava nel vuoto il fratello, e la condussero via. La seguii, mentre tutti gli altri tornavano frastornati nelle proprie stanze. Non mi impedirono di parlare con lei, una volta che l’ebbero messa dietro le sbarre della cella. La trovai rannicchiata nell’angolo più lontano, le braccia che cingevano le gambe per cercare la sicurezza di qualcosa che fosse ancora presente e reale. Quando mi sentì arrivare alzò brevemente lo sguardo, ripiegò il mento sulle ginocchia per poi rialzarlo subito dopo, rigato di lacrime. Non sono mai stato bravo a consolare le persone, una magia che tutt’ora mi rimane oscura, così iniziai a parlarle di cosa Ferleim potesse aver fatto, l’unica cosa su cui la mia mente riuscisse a lavorare in quel momento.

«Non… non posso vederlo in quelle condizioni. Quell’essere non è Ferleim, non lo è più!»

Un uomo senz’ombre non è uomo.

«Hai detto che ora in lui v’è soltanto luce, vero? E mi hai sempre insegnato che per quanto grande, la luce viene sempre consumata dall’ombra, fino a spegnersi. Vero?»
Assentii mestamente, cercando debolmente di precisare che le mie erano soltanto teorie.
«Quell’essere non è Ferleim, lo tiene ostaggio! Te ne prego, te ne prego Irelat! Rendimi un essere d’ombra completa, cosicché io possa liberarlo!»

Aveva ancora le gambe rannicchiate e le lacrime che le rigavano il mento. Curioso che mi ritrovai a pensare proprio in quel momento come le lacrime disegnino fiumi diversi sul volto di ciascuna persona. Mi voltai e le dissi di non pensare a certe sciocchezze, non aveva nemmeno idea di cosa stesse dicendo, avrei trovato il modo di convincere Ferleim a liberarla.

Ma mi accorsi che la situazione era ben più grave di quanto avessi immaginato. Il re non si spostava più dalla sala del trono e non riceveva più alcuna udienza, fatta eccezione per alcuni dei consiglieri divenutigli più devoti. I suoi nuovi provvedimenti erano deliranti, i sudditi erano costantemente sottoposti a controlli da parte delle guardie, anche a sorpresa, per assicurarsi che nessun comportamento deviante fosse messo in atto. Erano caldamente invitati dai consiglieri a denunciare chiunque sospettassero di atti illeciti, perché anche l’omertà sarebbe stata purificata, come dicevano loro. In breve tempo tutto il regno sprofondò in un clima di terrore quieto e di sospetto reciproco, mentre qua e là sorgevano alcune piccole chiese che veneravano Ferleim come fosse un dio, culti frutto della segreta disperazione e del bisogno di certezza nell’insicurezza che andava dilagando a Ghalla. Ferleim pretendeva un regno perfetto, anche a costo di sgretolarlo.

Inoltre, mi resi conto che l’aura opprimente che avevo avvertito nella sala del trono, quella terribile sera, si stava espandendo e ricopriva ormai l’intera area del castello. Ovunque io andassi, la voce del re mi penetrava nella mente, rendendomi quasi impossibile il solo pensare. Era così difficile, faceva così male resistere a quell’oppressione. Molti a poco a poco cedettero, smisero di pensare e abbracciarono l’austera e paterna voce del sovrano. Capii che dovevo fare qualcosa subito, o il re avrebbe finito per inglobarmi nella sua volontà rendendomi impossibile qualsiasi azione. La richiesta di Narim, che per tutti quei giorni era rimasta cupa a farmi quasi da scudo dalla luce strisciante del re, mise in moto il fato inevitabile. Imbevvi una spada di magia nera, che ne ricoprì la lama come rivoli di sangue fetido, che si contorcevano in viscidi vermi. La impugnai ricoprendomi la mano di magia bianca, per evitare di venirne posseduto, e mi diressi verso le prigioni. Non sapevo nemmeno se Narim fosse ancora viva, il re aveva impedito a chiunque di entrare nelle segrete. Arrivato alla porta, la trovai piantonata da due guardie. Tutti i soldati del castello erano stati particolarmente influenzati dall’aura del re, e così percepirono immediatamente la magia nera di cui la mia spada straripava. Vidi che i rivoli fetidi e neri lungo la lama si erano fatti più fitti, e nel corso dei secoli imparai tristemente che mentre la magia bianca aveva bisogno di una fonte che la alimentasse continuamente, quella nera, una volta posta, si moltiplicava indefinitamente, divenendo sempre più potente e incontrollabile. Le due guardie si gettarono come pazze addosso a me, ma vennero brutalmente dilaniate da due rivoli che si alzarono come serpenti e le attaccarono mentre stavano per vibrare un colpo con la spada. I rivoli le morsero con violenza, divenendo più spessi ad ogni colpo inferto. Ritornarono poi ad aderire alla lama, mentre io varcavo la porta cercando di non osservare e non calpestare i cadaveri ai miei piedi.

Scesi in fretta le scale e trovai Narim nella sua cella, deperita e ancora rannicchiata nella posizione in cui l’avevo lasciata giorni e giorni prima. Ero ormai vicino alla porta della sua cella, e mentre lei ancora non si era accorta della mia presenza, i rivoli neri si erano accorti della sua. Si allungarono spezzando la serratura che chiudeva la cella per poi tendersi nervosi verso il suo gracile corpo. Sembravano quasi dotati di vita, d’intelletto. La chiamai con voce flebile. Lei alzò lo sguardo, confusa, forse era assopita. Fissò prima me e poi i due serpentelli neri che si protendevano dalla spada verso di lei. Le dissi che poteva ancora ripensarci, ma lei allungò la mano verso di me e i due rivoli le si attorcigliarono lungo il braccio nudo, scarno e pallido, penetrandole sotto la pelle. Non emise nemmeno un gemito di dolore, teneva lo sguardo fisso su di me. Le porsi la spada, dicendole che non doveva far altro che abbandonarsi a lei.

Nel momento in cui la strinse nella sua mano, i rivoli neri cominciarono a riversarsi dentro di lei, scavandole nella carne che si faceva sempre più bluastra. Delle piaghe marce le si andavano aprendo sul viso e il suo intero corpo si putrefaceva. Vedevo i rivoli neri strisciare frenetici appena sotto la sua pelle, moltiplicandosi fino a riemergere dalla nuca, dove inghiottirono i capelli ormai aridi formando un’unta chioma corvina. Mi misi quasi a piangere, ma notai che in mezzo alla devastazione di quel corpo persisteva ancora la dolcezza dei suoi occhi, fortezza solitaria in un buio deserto senza stelle. Mi riconosceva ancora, e mi sorrideva con i suoi occhi perché ormai le sue labbra erano gonfie e livide, non riusciva quasi a muoverle. L’ombra non aveva ancora divorato la sua intera luce. Non so per quanto tempo rimasi assorto ad osservare nella mia mente quella terribile visione, perché quando mi ridestai Narim non c’era più. Risalii velocemente le scale e vidi molti dei cortigiani che fuggivano via dalla sala del trono, gli occhi sbarrati dal terrore. Mi diressi là. Davanti alla grande porta trovai i cadaveri di cinque o sei delle guardie, sventrati e riversi in una pozza di sangue caldo che andava spandendosi sul pavimento bianco. Li superai, rischiando più volte di scivolare, ma la porta era sigillata da degli strani arabeschi neri, che strisciavano lentamente come serpenti pronti a mordere. Capii subito cosa fosse, ma non riuscii a spezzare il sigillo nemmeno con la mia magia bianca. Mi ricordai che se fossi riuscito ad accedere agli alloggi di Ferleim, lì c’era un’altra porta che conduceva alla sala del trono. Corsi via, sperando che Narim non avesse sigillato anche quella. Mentre correvo iniziai a realizzare che potevo aver liberato una piaga ben peggiore di quella che avrei voluto contrastare. Entrai negli alloggi, e fortunatamente la porta per la sala del trono non era stata sigillata. Mi fiondai su di essa, spalancandola.

Narim, deturpata, stava avanzando verso il trono. Avanzava con un passo strascicato, tenendo con entrambe le mani la spada che le avevo dato. La trascinava con grande fatica, il busto ritorto all’indietro per lo sforzo, la lama che rigava con un suono stridulo il marmo della sala. Non era una spada pesante, ma ormai Narim era l’incarnazione della morte, un cadavere che si stava trascinando verso la luce. Mi feci un poco più vicino, e potei vedere Ferleim, la sua spada ancora in pugno, seduto immobile sul trono, nella stessa posizione in cui lo vidi quella sera. Fissava Narim avvicinarsi, ma il suo viso era impassibile, le sue emozioni andate perdute insieme alla sua ombra. Mi avvicinai un altro poco. Ormai Narim aveva salito i tre gradini che portavano al trono, e si era fermata a fissare Ferleim.

D’un tratto, lasciò cadere la spada nera e abbracciò il fratello.

Non ci furono deflagrazioni, né gemiti di dolore o di sconfitta. Semplicemente, Narim sorrideva dolcemente, con gli occhi, mentre l’ombra fluiva dal suo corpo marcio e andava ad avvolgere la pelle lucente di Ferleim, che più veniva inglobato dall’ombra e più si faceva piccolo, in silenzio. Narim mi vide, e pose il suo sguardo nei miei occhi, dolce. In quel momento, Ferleim scomparve del tutto, e gli occhi di Narim, ancora posati su di me, si fecero vuoti. Vidi le sue labbra tumide contorcersi in un sorriso sporco e maligno.

In quel momento, Narim morì, e dalle sue carni nacque Gaurion.

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