La frase che mi descrive

mountain_sky_by_akihanightshade-d4vt7h0

Stesa sulla schiena, avverto il peso del cielo sul mio petto. La pressione atmosferica in montagna è minore: non l’avrei mai detto. Le nuvole si muovono abbastanza in fretta, non vedo altro, ma qualsiasi altra cosa sarebbe di troppo nel mio campo visivo; vorrei solo non dovermene già andare.

Ero a valle, di buon ora, pronta a raggiungere la baita, pronta a rispondere alla chiamata di Daniel. Quando mi ha scritto, ieri sera, non volevo credere che fosse proprio lui. Non potevo accettare che proprio il mio distratto, evanescente, ingrato Daniel si prostrasse all’oneroso impegno di prendere l’iniziativa; un’iniziativa così intima e volgare poi, come lo è solo il decidere di farsi avanti per primo. Qualcuno converrebbe sull’intensità del gesto, sulla platealità della risoluzione, se solo a precedere l’avvicinamento potesse ammettere un allontanamento, o se l’inaspettatezza fosse definita dalla prevedibilità che essa infrange; ma una chiamata di Daniel non necessita di premesse emotivamente infauste per essere rincuorante, né di trascorsi oscuri per essere illuminante. E la novità del gesto non è data dalla ripetitività che spezza più di quanto la morbidezza del bacio inaspettato non sia data dalla ruvidezza di quello schivato. Nessuna ripetitività in Daniel, nessuna ruvidezza. Nessun bacio.

E mai avrei voluto rivederlo, né risentirlo, né rincorrerlo ancora una volta; eppure, è quello che ho fatto. Nessuna baita sarebbe stata troppo isolata o troppo lontana da farmi desistere dalla necessità di scoprire in che modo, stavolta, Daniel mi avrebbe convinto a percorrere l’unica strada cui non so sopravvivere, la sola abbastanza vicina alla sua da lasciarmene intravedere il percorso. La fantasiosità della sofferenza e le sue forme, fascinose virgole nella frase che mi descrive, punteggiando relazioni tra me e lui, nel capoverso che ci narra, ora ripercorro.

Perché non mi abbandona? Perché non lo abbandono? Ha bisogno di me, testimonio la sua vita. Ho bisogno di lui, mi dà ragione; mi suggestiona. Mi lascia amarlo, compiacendosi del dono. E in fondo m’ama, come s’ama aver ragione.

Ho deciso di raggiungere la baita per corromperlo, appropriarmene, concedergli di essere al mio fianco e di onorarmi.

Mi sono incamminata per chiudere il sipario sul teatrino delle nostre inconcludenze, offrendogli l’addio che non s’è meritato, che ingrato vincerà, perdendomi per sempre.

Sono qui in montagna per scoprire quante meraviglie avrà da offrirmi la vita spesa a correre al suo fianco, sfiorandogli la mano nel saltare.

Per queste e altre ragioni ho l’affanno a ricordarmi che l’aria è rarefatta. Il vento è forte e mi lacrimano gli occhi, ma non abbastanza da non farmi godere la vista di vasti promontori, che fanno da sfondo alla sua figura splendida, meravigliosa, qui in piedi a completarmi. Veste pesante, con stivali alti, cinturone ed accetta da legna insanguinata, che lo imbratta tutto. Gli ha sempre donato una lacrima sincera, perché non bastava ad intristirgli il volto: gli bagnava il naso, gli arrossava gli occhi, ma mai una volta che gli oscurasse il viso. Nemmeno adesso si lascia vincere: l’angoscia è tanta, la paura anche, ma io so leggere qualcosa in più… un tremito: l’inconfondibile candore di un uomo sollevato, con una morsa in meno a imprigionargli il cuore. E ad ogni colpo dell’accetta, il candore divampa.

Qui riversa non lo vedo più, c’è solo il cielo alla mia vista e, per quanto pesante, non riesce a distrarmi da una serenità sincera: finalmente la svolta, la chiusura di un capitolo, la fine delle incertezze. Dopotutto, è stato più risoluto di quanto avrei sperato d’essere io e ogni mia afflizione può dirsi terminata.

Vorrei solo non dovermene già andare.

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