Scanso il destro, scanso il sinistro e centro il mio avversario con un montante al mento. Lo vedo barcollare incerto per un istante. Poi cade al suolo, trascinando con sè il tavolo e le due coppe di champagne che si infrangono per terra.
Ah che notte, questa notte! Ho contato almeno sei mascelle rotte.
Controllo che il mio completo bianco non si sia sgualcito, mi sistemo il risvolto della giacca e mi guardo intorno: sono tutti ko. L’unica persona in piedi è la cantante di tango, che appoggiata al pianoforte mi guarda con aria lasciva arricciandosi i capelli biondi.
Il locale è tutto sottosopra: tavoli e sedie rotte e energumeni stesi ovunque. Si direbbe sia passato un ciclone.
Beh, in effetti è proprio così, sono passato io. Chi sono?
Il mio nome è Tempesta, Fred Tempesta… e James Bond lo prendo di tacco.
Con lo sguardo cerco Jack Canaglia, il boss di questa dozzina di perdenti. Mi pareva di averlo pestato dalle parti del piano bar… Lo vedo, lo raggiungo e gli schiaccio le palle con il tacco delle scarpe.
Si sveglia gemendo.
«Chi è stato?» chiedo in tono minaccioso.
«Non siamo stati noi… » risponde in tono flebile.
«E chi allora?»
«Bolo… È stato Flavio Bolo…» sussurra prima di svenire di nuovo.
Prendo il pacchetto di Camel senza filtro e me ne accendo una sfregando lo zippo d’oro contro i pantaloni. Era di un capo mafia russo una volta, ma da lungo tempo a lui non serve più.
Aspiro lentamente la prima calata. Bolo, Bolo, Bolo… dovevo immaginare che ci fosse di mezzo quell’essere spregevole. Non c’è creatura più infida e disperata di uno scrittore fallito e alcolista, ma sarà proprio lui a procurarmi l’occasione della mia vita.
Don Tarantino ha sguinzagliato in lungo e in largo tutti i suoi luogotenenti alla ricerca del maltolto, ed era stato chiaro sulla ricompensa per chi avesse riportato la refurtiva: un posto privilegiato all’interno della famiglia. E sul quel posto ci sarà il mio nome.
Vado al bancone del bar e mi verso un generosa dose di Canadian Club. Dopo tutto questo movimento un buon whisky è quello che ci vuole. Lo tracanno di un sorso e mi avvio verso la cantante che è ancora lì che mi fissa.
Mi accarezza il petto, mi sistema la cravatta e guardandomi negli occhi mormora «Si va?»
Le sorrido, la prendo a braccetto e usciamo.
Poco dopo sono seduto al volante della mia Alfa 8C spider, e i quattrocento cavalli del motore Maserati ruggiscono nella notte, mentre il vento cerca invano di spettinarmi i capelli. Al mio fianco una bellezza bionda in un tubino nero da sera mi sorride.
Poi, il rumore di sirene in avvicinamento.
Ah che notte, questa notte! Alle calcagna ho due auto poliziotte.
Apro il cruscotto e prendo Betsie, la mia 45 Magnum.
«È meglio se abbassi la testa, tesoro» le dico « tra poco qui volerà piombo.»
«Mi chiamo Barbarah» risponde lei, aprendomi la zip dei pantaloni e abbassando la testa.
«Barbarah, visto che in questo momento le mani non ti servono, ti spiacerebbe tenerne una sul volante?» le chiedo mentre mi volto con il mio cannone in mano.
Poco dopo scateno l’inferno: l’oscurità della notte è interrota dai lampeggianti delle autopattuglie e dalla fiammate delle pistole.
Alle esplosioni della mia pistola rispondono i colpi fiochi di quelle dei tutori della legge, ma il tutto non dura molto: qualcuno avrebbe dovuto spiegare a quei perdenti che le auto con trazione anteriore sono per quelli che stanno davanti, come me, e non per chi insegue, come loro.
Due colpi di Betsie centrano il motore della prima auto, che grippa e rallenta di colpo. L’altra la centra in pieno, si capovolge e comincia a fare giravolte sull’asfalto prima di esplodere uscendo di strada.
«Grazie cara, adesso puoi lasciare a me il volante» dico a Barbarah tornando alla posizione di guida.
Lei mi risponde con un mugolio di assenso.
Vivo per le notti come questa: notti di sangue, donne e motori, dopo più di trent’anni il mio sogno sta per compiersi, e da domani sarà anche meglio.
Qualche minuto dopo sono in vista di Old City, e preferisco non portare con me la ragazza, è un posto pericoloso, pieno di disperati, per cui mi fermo e le chiamo un taxi col cellulare. Appena arriva le apro la portiera e la aiuto a salire. Al tassista allungo 50 verdoni, e gli dico che la porti a casa e si tenga pure la mancia.
Lei tira giù il finestrino «Ti amo, Fred Tempesta!» mi urla.
«Lo so» le rispondo, salendo sul mio bolide e mettendo in moto.
Pochi minuti, pochi isolati e parcheggio di nuovo, questa volta sul marciapiede all’ incrocio della Quinta con Palmer Road.
Scendo.
In mezzo a questo quartiere buio e grigio, il mio completo bianco brilla come un faro nella notte, un invito chiaro e silenzioso a tutti i pezzenti che l’affollano a farsi da parti e a non intralciare il mio cammino.
Con la coda dell’occhio vedo movimenti intorno a me: è la marmaglia che scappa, topi che corrono a infrattarsi nei loro covi in preda alla paura.
Mi dirigo verso un edificio fatiscente, una volta una fabbrica forse.
Delle scale portano a un seminterrato. Puzzo di piscio e vomito, una luce fioca che filtra da dietro una porta di legno sgangherata: è qui che vive Bolo.
Non provo nemmeno ad andare per il sottile, apro la porta con un calcio ed entro.
La stanza è piccola e squallida, una lampadina nuda attaccata al soffitto emette una tenue luce giallastra.
Ovunque ci sono pagine e pagine dattiloscritte, il suo romanzo, riscritto e ricominciato diecimila volte. Sulla scrivania, addormentato con la testa riversa sopra i fogli, c’è Bolo. Sotto la bocca ha una pozzettina di bava che ha cancellato parte dell’inchiostro di una pagina. Nella mano destra ancora stringe una bottiglia di Vodka, piena a metà.
Ubriaco fradicio non mi ha nemmeno sentito sfondare la porta.
Gli prendo la bottiglia e do un sorso: terribile. Forse non è nemmeno alcol, ma semplicemente benzina. La svuoto attorno a me e mi accendo una Camel.
Lo prendo per il bavero e comincio a schiaffeggiarlo sempre più forte finchè non rinviene.
Nonostante la sbronza, non ci mette molto a capire la situazione. Comincia a balbettare frasi sconnesse.
«Il mandante» chiedo.
«Wo-Wo-Wong Tung» risponde.
Maledetti cinesi, sempre tra le palle.
«De-devi capirmi Fred… avevano promesso di lasciarmi scrivere i bigliettini dei biscotti della fortuna.» risponde piagnucolando «Era un’opportunità che non mi potevo lasciar scappare, forse la svolta della mia carriera!»
Non gli rispondo nemmeno.
Lancio la sigaretta accesa sulle pagine zuppe di vodka: le fiamme si alzano immediatamente. Forse era davvero benzina dopotutto.
«Nooo! Il mio capolavoro!» grida.
Me ne vado lasciandolo al suo destino.
Torno alla spider e dal portabagagli prendo il mitra e la valigia per cambiarmi d’abito: sul gessato il sangue si nota meno.
In auto mi infilo velocemente camicia, giacca e pantaloni. La cravatta non è in tono e quindi me la levo, mi sono scordato di prenderne una di ricambio purtroppo.
Accendo il motore e parto sgommando in direzione China Town.
Attraverso le strade del ghetto cinese, una città nella città, piena di luci colorate e scritte incomprensibili. Odori a me sconosciuti, e che preferisco rimangano tali, mi stuzzicano le narici.
Parcheggio proprio davanti all’entrata del ristorante di Wong, la facciata onesta del suo impero criminale. A quest’ora non dovrebbero esserci più clienti ormai, e in caso contrario… beh, problemi loro, avrebbero dovuto andare a cena in un ristorante italiano.
Mi metto Betsie alla cintura e imbraccio il mitra, con i cinesi non è il caso di rischiare nel corpo a corpo. Pur essendo dei nanetti magrolini c’è sempre il rischio che ti prendano a pedate in faccia, e qualcosa di tanto lesivo della mia dignità è del tutto impensabile.
Apro la porta di vetro decorato ed entro.
Mi trovo davanti una bambolina con gli occhi a mandorla in un vestito di seta rosso e oro.
Io la guardo, lei mi guarda.
Lei mi guarda, io la guardo.
Il cuore manca un colpo.
Le accarezzo una guancia. «Aspettami fuori baby, torno tra cinque minuti»
Ah che notte, questa notte! Sono un duro, ma facile alle cotte.
Entro nel salone da pranzo ormai deserto: a parte un vecchio babbione con una puttana dipinta a un tavolo in disparte ci sono solo dei camerieri cinesi, che appena mi vedono scappano urlando. Chissà perché?
Subito mi si fanno incontro due tipetti agitatissimi che sbraitano frasi incomprensibili piene di c e di elle.
Gli sparo.
Ne arrivano un’altra decina armati di nunchaku e scimitarre, urlando saltando e volteggiando.
Gli sparo.
Da dietro una porta se ne esce un cameriere con una bottiglia e un vassoio.
Gli sparo.
Beh forse non avrei dovuto, certo che anche lui poteva stare più attento.
Attraverso il salone e mi dirigo verso la porta dell’ufficio del vecchio Wong.
Estraggo Betsie dalla cintura. Siamo ad un livello più personale e il mitra mi sembra inappropriato.
Come apro la porta mi arrivano due colpi di pistola.
In un angolo dell’ufficio c’è il vecchio, tremante e incazzato, con una vecchia P38 in mano.
Ci vogliono parecchia mira e sangue freddo per maneggiare una canna corta, e mi pare che al buon Wong manchino entrambe.
Spara altri due colpi che mancano clamorosamente il bersaglio.
Lui bestemmia in cinese. Io mi avvicino.
Altri due colpi. Uno mi ferisce a una spalla.
Continua a premere il grilletto, ma oramai il percussore va a vuoto. Ci sono solo sei colpi in un revolver, e uno dovrebbe farseli bastare, altrimenti può succedere di trovarsi un grosso bastardo italiano che ti punta una 45 magnum alla testa.
«Era un Armani» gli dico. Poi premo il grilletto, e metto per sempre la parola fine all’impero di Mr. Wong.
Mi ripulisco la faccia dal sangue e rivolto l’ufficio finché non trovo quello che stavo cercando, lo prendo ed esco. Oramai niente e nessuno può fermare la mia ascesa all’interno della famiglia Tarantino. Un sogno lungo decenni sta per compiersi.
Chiamo il capo dal cellulare, e gli comunico che io, Fred Tempesta, sono riuscito a portare a termine la missione. Mi risponde entusiasta. Vuole che vada subito a casa sua.
Esco e trovo la bambolina cinese ad aspettarmi. Le prendo la mano e l’accompagno alla porta dell’Alfa.
Lei mi sorride e si accomoda. Non pare fare molto caso alle mie condizioni.
Alla fine, nonostante tutto, questo completo è da buttare e quindi sono costretto a cambiarmi di nuovo.
Riparto per l’ennesima volta. Destinazione il quartiere bene di Remington Hill.
Dopo una mezz’oretta di viaggio arrivo in vista della villa di Don Tarantino.
Parcheggio fuori dal cancello.
«Scusa tesoro, sarò da te al più presto, devo sbrigare una faccenda importante, e poi avremo tutta la notte per noi» dico alla ragazza.
Mi sorride.
Scendo, suono al citofono e mi faccio riconoscere.
Alla porta trovo Joe Lo Smilzo, che sposta i suoi centocinquanta chili per farmi passare.
«Ben fatto Fred» mi dice facendomi l’occhiolino.
«Grazie Joe,»
«Il capo è in salotto che ti aspetta.»
Mi faccio strada fino al salotto, dove trovo il capo in pigiama che mi saluta appena mi vede.
Se c’è una visione più terrificante di quella di vedere il capo in pigiama, con le lonze di grasso strabordanti, è forse solo quella di vedere sua figlia Rosalia, che è praticamente uguale, baffi compresi, solo che ha le tette.
E purtroppo c’è anche lei. Con in braccio il suo volpino. Obeso pure lui.
Porgo al capo la custodia contente quello che gli era stato sottratto: la registrazione di “’O Sole Mio” di Enrico Caruso.
«Finalmente, finalmente!» esclama, quasi con le lacrime agli occhi.
Poi accende il vecchio grammofono, mette su il disco e si mette a cantare.
Devo attendere la fine di questo strazio con il sorriso stampato in faccia, ma mai attesa è stata più dolce.
Il disco finisce, è arrivato il momento.
Il boss mi viene incontro.
«Ogni promessa è debito, come ricompensa avrai un posto speciale nella famiglia, Fred.» mi dice «Ti concedo in premio la mano di mia figlia Rosalia!»
«Come?» esclamo stupefatto.
«Sei contento eh? Benvenuto nella famiglia. Lei ci sperava sai che fossi proprio tu!» La vedo che mi guarda, baffuta e sorridente.
«Adesso basta con tutte queste missioni pericolose, queste sparatorie e questi inseguimenti con la polizia… da domani te ne starai qui tranquillo a casa con noi. Figlio!»
E mi abbraccia.