L’altro giorno, passeggiando per il centro della mia città, ho incontrato una cara amica che da anni si è trasferita in Australia. Sta per sposarsi con un ragazzo di laggiù (ehi, auguri!) ed è tornata dalle nostre parti assieme a lui per una “vacanza pre-matrimoniale”. Ovviamente, avendo scritto da poco l’articolo su Wolf Creek 2, horror d’ambientazione australiana, l’incontro non mi è parso casuale. Sicché gliel’ho fatto presente…
Immagina la mia sorpresa quando, senza alcun bisogno di wikipedia o internet di sorta, l’husband-to-be della mia amica mi ha snocciolato tutta la storia vera del (anzi, dei!) killer a sangue freddo a cui la serie di film di Wolf Creek è ispirata… ovviamente mi ero documentato in partenza, però questo mi ha fatto capire quanto quei casi di cronaca siano rimasti nella mente degli australiani. Magari vale la pena raccontarli anche qui su Lega Nerd, che ne dici?
Prendiamola larga. Tanto per cominciare, il famigerato sito turistico di Wolf Creek esiste veramente, anche se il suo vero nome è Wolfe Creek.
Non è che lo sceneggiatore-regista Greg McLean si sia particolarmente spremuto le meningi per trovare un nome fittizio. Si tratta di uno dei più noti e ben conservati crateri che dobbiamo alla simpatica caduta di un meteorite sulla Terra. Un bel posticino romantico dove andare in pellegrinaggio, insomma, se i film non riescono a tenervi alla larga con gli schizzi di sangue delle malcapitate vittime dello squilibrato Mick Taylor.
Stando a Wikipedia il cratere ha un diametro di circa 875 metri ed è profondo 60 metri. Il meteorite si è schiantato lì all’incirca 300.000 anni fa, nel Pleistocene. È stato “scoperto” con una ricognizione aerea nel 1947: non stupitevi, stiamo parlando dell’inospitale Australia desertica occidentale, mica della Valle Incantata… il suo nome dalla vicinanza di un torrente (creek, per l’appunto) battezzato in onore di Robert Wolfe, cercatore d’oro e gestore di emporio della vicina cittadina di Halls Creek ai tempi in cui anche Paperone, dall’altra parte del mondo, cercava pepite d’oro nel Klondike.
Se sei un temerario e hai la fortuna di organizzare un viaggio nella bella Australia, puoi andare a cercare info online che riguardano il Wolfe Creek Crater National Park, e se sopravvivi al campeggiare nei cespugli fammelo sapere.
Le opinioni su Tripadvisor mi sembrano positive, considerato che la gente finora è sopravvissuta… puoi anche dare un’occhiata alla pagina Google Plus (!) con varie recensioni di utenti internazionali che sono stati lì. Ovviamente degli scomparsi non possiamo avere traccia mediatica (ok, gestori del Wolfe Creek non denunziatemi, si scherza)
E ora veniamo alle cose serie: l’Outback australiano, quel deserto infinito e inospitale, dal colpo d’occhio mozzafiato, che si estende a perdita d’occhio nel continente e nasconde chissà quali misteri, è una fonte potenzialmente inesauribile di leggende urbane. Questa però non lo è… stiamo parlando della scia di sangue che ha ispirato i film Wolf Creek e il suo sequel e un numero imprecisato di libri, fiction e non.
Ogni anno in Australia scompaiono 300.000 persone: il 90% vengono ritrovate nel giro di un mese, del 10% invece non si sa più niente.
Le opere al cinema – entrambe – si dichiarano “Ispirate ad eventi reali” e si aprono con didascalie piuttosto chiare. “Ogni anno in Australia scompaiono 300.000 persone: il 90% vengono ritrovate nel giro di un mese, del 10% invece non si sa più niente”.
Allegro, vero? Qui entra in azione lo squilibrato killer-macellaio-cacciatore-rozzo&zozzo Mick Taylor, sorta di Crocodile Dundee distorto e fuori di melone. Nel primo film i tre protagonisti, un ragazzo e due ragazze, fanno visita al cratere e stranamente la loro auto, al ritorno, non parte più. Mick si palesa, offre aiuto, e poi succede il patatrac con un sadico climax ascendente di violenza.
Una delle storie che hanno ispirato Greg McLean risale al luglio 2001 quando i giovani turisti inglesi Peter Falconio e Joanne Lees stavano tranquillamente facendo un tour dell’Australia e si sono ritrovati di notte a viaggiare sulla Stuart Highway, nel tratto che collega le città di Alice Springs e Darwin, due delle più grandi del nord del continente). In quella zona ci sono miriadi di luoghi che portano “creek” nel nome, per la cronaca.
A un certo punto, un’auto si accosta al loro furgone e l’uomo alla guida, un tale di nome Bradley John Murdoch li fa accostare dicendo che c’è qualcosa di strano nel tubo di scappamento del loro mezzo. Peter scende per dare un’occhiata e nessuno lo rivedrà più, mentre Joanne viene legata e imbavagliata dopo essere stata minacciata con una pistola alla tempia.
Qui la storia di fa drammatica ma comunque meno “interessante” di quanto dipinto nei film, dato che Joanne, durante l’assenza dell’aggressore che probabilmente si era defilato per andare a seppellire il cadavere di Peter, riesce a darsi alla fuga e a nascondersi nei cespugli dell’Outback abbastanza bene da far desistere Murdoch dalla sua ricerca, sebbene avesse pure un cane al quale faceva scandagliare il terreno. Dopo ore d’attesa, la povera e terrorizzata ragazza è riuscita a ritornare sull’autostrada e ad attendere il passaggio di un camion al quale chiedere aiuto. Fortuna vuole che non tutti quelli che solcano le strade dell’outback siano dei folli squilibrati…
Scatta dunque una grossa caccia all’uomo che le forze dell’ordine mettono in piedi per trovare e arrestare l’assassino. Murdoch viene catturato dopo poco tempo e si scopre che aveva seguito la coppia di turisti da Alice Springs, ma i motivi non sono mai stati chiariti.
Senza contare che non sono mai stati ritrovati né l’arma del delitto né il corpo dello sfortunato Peter Falconio. Il killer ammette di fare uso pesante di anfetamine e il suo DNA si trova sulle manette utilizzate per immobilizzare Joanne. La condanna che arriva pochi anni dopo è di 28 anni di galera.
L’altra storia di sangue che ha colpito l’intera Australia e la fantasia di McLean è quella dei cosidetti “backpack murders” ad opera dello squilibrato Ivan Robert Marko Milat, vero e proprio serial killer per anni senza volto, che ha ucciso un numero imprecisato di turisti – autostoppisti, soprattutto – verso l’inizio degli anni ’90. Un uomo solitario, violento e con un passato a dir poco discutibile, dato che già nel 1971 era stato accusato di stupro, ma se l’era cavata.
Nel settembre del 1992 inizia l’orrore, con il ritrovamento dei corpi di due turisti inglesi, sepolti sotto alcuni arbusti. Ma è solo il preludio, perché circa un anno dopo, ad ottobre del 1993, altri due corpi – appartenenti a due giovanissimi autostoppisti – saltano fuori più o meno nella stessa area dell’outback. Corpi di persone dichiarate scomparse cinque anni prima. Così come era scomparso il ragazzo tedesco ritrovato morto appena un mese dopo. Ormai appariva chiaro alla polizia autraliana di trovarsi di fronte a un serial killer imprevedibile ma soprattutto dal modus operandi chiaro. Purtroppo la vastità del territorio di caccia non avrebbe aiutato.
Sulle tracce dell’assassino di turisti furono sguinzagliati centinaia di agenti di ogni autorità possibile: purtroppo, invece di Milat, a venire alla luce furono altri cadaveri. Le vittime erano state decapitate, evidentemente torturate e uccise con decine di coltellate. Alcune però, erano state uccise con colpi di arma da fuoco, per la precisione un fucile di grosso calibro. Le forze dell’ordine continuarono a brancolare nel buio fino a quasi tre anni dopo, quando una ragazza che viaggiava in autostop nella zona del New South Wales arrivò dalla polizia con una testimonianza cruciale.
Un uomo le aveva offerto un passaggio e lei era salita a bordo del furgone.
Ma l’uomo era agitato e faceva strani discorsi, per cui con una scusa la ragazza aveva deciso di scendere in fretta e furia.
Adesso pensa di essere nei suoi panni. Si mette a correre, ma sente che il motore del veicolo si ferma. Guarda indietro e vede che il mezzo si è effettivamente fermato lungo la strada. Stop. L’uomo strano scende dal mezzo. Ha in mano un fucile. A questo punto la giovane corre con tutto il fiato che ha in gola e sente chiaramente uno sparo. Non è morta, e corre corre corre fino a che i polmoni non le esplodono… fino ad arrivare ad una città vicina dove avverte le forze dell’ordine.
Pochi mesi dopo la polizia effettua dei raid in proprietà isolate nella zona dov’è avvenuta l’aggressione. Dei vari uomini messi in manette, uno ha in casa un fucile che corrisponde ai colpi d’arma da fuoco scaricati sui poveri malcapitati e alcuni oggetti personali delle vittime.
Il suo nome è Ivan Milat e ha 49 anni. Dopo due anni di ulteriori indagini e un processo con prove schiaccianti, Milat viene condannato a sette ergastoli, lo stesso numero di vittime accertata che ha mietuto lungo la desolata terra australiana.
Ma probabilmente gli omicidi che lo hanno spedito in galera non sono gli unici che portano la sua firma… ci sono attualmente ancora una decina di casi irrisolti di uccisioni di turisti o viaggiatori che – purtroppo – non hanno elementi sufficienti per poter essere ricondotti ad un killer specifico.
Se Milat avesse ucciso anche queste persone, sarebbe il peggior serial killer della storia australiana. Il triste record è da attribuire a Martin Bryant, che nell’aprile del 1996 uccise a colpi di pistola 35 persone e ne ferì 21 a Port Arthur, nello stato della Tasmania.
La cosa inquietante è che a ridosso dell’uscita del primo Wolf Creek, nel 2005, uno dei fratelli di Milat, Boris, dichiarò in un’intervista che Ivan probabilmente aveva ucciso una ventina di persone circa. Un dettaglio inquietante, frutto di scarsa lucidità, distrazione o… chissà?