Il sangue trasporta cibo ed ossigeno, ma anche segnali biochimici da e per tutto il nostro corpo. Quando noi invecchiamo, queste informazioni mutano: ma che conseguenze ha questo cambiamento sul nostro cervello?
La formazione di nuovi neuroni, un processo costante e dal poco fantasioso nome di neurogenesi, è fondamentale per immagazzinare nuove informazioni: tuttavia con l’avanzare dell’età esso si riduce, lasciandoci infine vecchi e rimbambiti.
Le nicchie neurogeniche, dove questo fenomeno ha luogo, insistono attorno ai vasi sanguigni, in una posizione ideale per captare i segnali trasportati dall’apparato circolatorio. La neurogenesi è certamente regolata da segnali intracerebrali e da informazioni scritte nel DNA delle cellule proliferatici, ma potrebbe esser guidata anche da segnali, dipendenti dall’età, presenti nel nostro sangue?
Per verificare questa ipotesi bisognerebbe metter in collegamento un cervello ed un corpo dalle età differenti, una cosa tutt’altro che banale (tranne che per qualcuno)
Come metter quindi in contatto un cervello ed un sistema di età diverse? Semplice, cucendo assieme due corpi
Parabiosi: l’unione di due corpi
Questo è possibile, ed ha pure un nome scientifico: parabiosi. Questa tecnica permette di unire chirurgicamente due organismi distinti creando un unico sistema fisiologico, con un sistema circolatorio condiviso (dei gemelli siamesi artificiali). In questo modo è quindi possibile verificare come il sangue di un animale, con le molecole che trasporta, circoli ed influenzi l’organismo ad esso collegato.
Il visionario artefice dei questa pratica fu il francese P.Bert che, nel 1864, descrisse lo “impianto per vicinanza” (Greffe par approche), presentando la riuscita unione di un animale ad un altro dopo averne cucita assieme le pelli, creando quindi un comune sistema circolatorio che permettesse lo scambio di nutrienti. Per questo suo studio venne insignito due anni dopo con il premio in Fisiologia Sperimentale della Académie des Sciences.
La tecnica rimase però largamente inutilizzata sino all’inizio del secolo successivo, quando il termine parabiosi venne ufficialmente coniato, e la sua applicazione permise l’avanzamento degli studi su metabolismo, obesità, diabete, endocrinologia, rigenerazione dei tessuti e cancro.
Recentemente, anche i problemi legati all’invecchiamento sono stati studiati con la parabiosi, unendo topi di differenti età, e riscontrando nei soggetti più anziani della diade effetti benefici sui sistemi muscolare, cardiaco, immunitario ed anche nervoso periferico.
Questa tecnica permette la costante influenza di un sistema sull’altro, ma non permette di controllare in maniera selettiva gli elementi scambiati tra i due, ne tantomeno di sottoporre i soggetti a test comportamentali: per ovviare a questo si ricorre a ad una serie ripetuta di prosaiche trasfusioni.
Anche il sangue invecchia
È quindi tramite la parabiosi che l’équipe di Tony Wyss-Coray (Stanford University School of Medicine, California) ha deciso di studiare il contributo di segnali esterni al cervello al declino della neurogenesi, focalizzandosi sull’ippocampo (un area cerebrale nota per la sua attività neurogenica e per la sua rilevanza nella memoria, soprattutto quella di tipo spaziale).
A tal scopo vengono dunque formati tre diversi gruppi sperimentali di parabionti: due isocronici (giovane-giovane e anziano-anziano) ed uno eterocronico (giovane-anziano)
I risultati sono affascinanti: l’attività neurogenica nel gruppo dei parabionti eterocronici è alterata, in entrambi i membri della coppia. Se da un lato quella dei topi giovani appare ridotta rispetto a quella dei relativi controlli (isocronici giovani), dall’altra quella dei topi attempati rispetto ai propri coetanei (isocronici anziani) risulta sensibilmente aumentata.
I cambiamenti sistemici portati dall’età influenzano la neurogenesi
Ma la neurogenesi non è l’unico fenomeno alterato nei parabioti eterocronici: oltre al numero di nuovi neuroni, fattori presenti nel sangue sembrano impattare anche la plasticità sinaptica, ovvero la capacità dei neuroni di codificare ed immagazzinare nuove informazioni, anch’essa fondamentale per l’apprendimento e la memoria.
Infatti da una parte i giovani eterocronici mostrano una riduzione dell’LTP (Long Term Potenziation, un correlato elettrofisiologico della plasticità), dall’altra i vecchi eterocronici hanno un suo potenziamento.
Confrontando poi i profili di espressione genica dell’ippocampo dei topi anziani parabionti isocronici ed eterocronici, i ricercatori hanno trovato una rilevante differenza: nel gruppo eterocronico vi è una attivazione trascrizionale riguardante perlopiù proprio la plasticità sinaptica, accompagnato da un aumento delle spine dendritiche (cioè della capacità del neurone di ricever ed integrare segnali da altri neuroni).
Non solo quindi nascono più neuroni, ma tutti quelli presenti mostrano maggiore ricettività.
Ma se oltre alla neurogenesi cambia anche la plasticità, quanto ne risentono le nostre capacità mentali?
Per verificare quale sia l’effetto di queste modifiche sulle capacità cognitive dei roditori, gli scienziati per prima cosa iniettano più volte in soggetti giovani plasma o di coetanei o di anziani. I giovani trasfusi vengon sottoposti quindi a due test ippocampo-dipendenti: il condizionamento alla paura contestuale (dove i soggetti imparano ad associare un determinato ambiente ad una lieve scossa) ed il labirinto a bracci radiali acquatico (dove i soggetti imparano a trovare una piattaforma per uscire da un labirinto allagato).
Anche in questo caso i soggetti che ricevono il sangue anziano mostrano una flessione nell’attività di neurogenesi, ma questo trattamento ha effetti anche più rilevanti: i topi eterotrasfusi dimostrano un declino cognitivo significativo, manifestando una memoria ben più flebile e meno accurata.
Invertendo i gruppi, è quindi la volta di sottoporre ai test comportamentali topi anziani trasfusi con plasma di giovani o di coetanei.
Come nella più classica delle fiabe, il sangue giovane ridona vigore ai vecchi topi: mentre gli isocronici mostrano sempre una scarsa performance nei due test, quelli eterocronici li affrontano con risultati ben migliori.
Le caratteristiche sistemiche legate all’età influenzano l’efficienza del nostro cervello e le nostre capacità cognitive
La ricerca nell’uomo
Le ricerche di Wyss-Coray e collaboratori hanno ovviamente colpito il mondo scientifico, ma hanno catturato anche l’attenzione di una ricca famiglia di Hong Kong segnata da una storia di Alzheimer, ossia una famiglia i cui membri molto probabilmente saranno colpiti da tale malattia neurodegenerativa. Questo casato ha quindi deciso di finanziare lo scienziato nella fondazione di una start-up dall’alchemico nome di Alkahest, per traslare questa ricerca preclinica in clinica.
Nell’autunno dell’anno scorso sono iniziati a Stanford dei trial randomizzati, in doppio ceco e con controllo-placebo per verificare l’efficacia dell’uso di sangue giovane nel contrastare l’Alzheimer. I risultati sono attesi per la fine di questo anno e, se promettenti, permetteranno di continuare approcciando altri disturbi legati all’età.
Nonostante il generale entusiasmo, non mancano perplessità: trasfondere semplicemente del sangue potrebbe non dare alcun risultato, bloccando la ricerca in questa direzione per anni. Questo potrebbe accadere perché magari i fattori importanti sono presenti in quantità troppo limitate o solo in alcuni donatori: per questa ragione alcuni preferirebbero un approccio più cauto, impiegando singoli fattori dalle dinamiche già note, sintetizzabili in laboratorio.
Ci sono poi anche vere e proprie preoccupazioni. Prima di tutto riattivare a lungo la neurogenesi, senza capire bene come, potrebbe anche aumentare il rischio di tumori;
e rischi.
inoltre frequenti trasfusioni alla lunga portano a fenomeni simili a quelli del rigetto nei trapiantati (ed anche i parabionti, dopo qualche tempo mostrano reazioni simili, la tossicità da parabiosi). Una massiccia e continua trasfusione di sangue in una persona anziana potrebbe rivelarsi quindi forse più dannosa che altro.
Solo uno studio, al momento, è in corso sull’uomo, ed i risultati, tutt’altro che scontati, sono ancora in la da venire
Conclusioni
Invecchiando, il nostro cervello comincia a perder colpi: i neuroni son sempre meno, non venendo rimpiazzati, e quelli che restano sono pure meno capaci. Quando comincia il nostro decadimento, vari segnali dal sistema raggiungono la nostra materia grigia, e ne guidano la involuzione, in parallelo a quella del resto del nostro organismo. Gli studi di Wyss-Coray indagano alcuni dei messaggeri coinvolti, e mettono in evidenza la complessità dei cambiamenti sistemici legati alla vecchiaia.
D’altra parte, però, è vero anche il contrario: i segnali biochimici tipici di un organismo giovane possono annullare ed addirittura invertire questo decadimento, almeno in parte. La riduzione della neurogenesi e della plasticità sinaptica non sono quindi processi irreversibili, e capire come possano esser regolati potrebbe aiutarci a gestire meglio queste conseguenze dell’invecchiamento e magari (lo sapremo forse tra qualche mese) anche le malattie neurodegenerative.
via sci-ence.com
Oltre ai semplici dati ed alle future applicazioni, questi studi ricordano a noi ricercatori come possa rivelarsi ingannevole studiare un singolo organo come un qualcosa di isolato dal resto del corpo, e forniscono l’esempio di come alcuni fantasiosi “metodi alternativi” alla sperimentazione animale (principe la simulazione in silico di un organo) siano inapplicabili e/o concettualmente fallaci in numerosi casi.
Fonti
- Parabiois (wikipedia.en)
- Heterochronic parabiosis: historical perspective and methodological considerations for studies of aging and longevity – Conboy et al., 2013 (ncbi.nlm.nih.gov)
- The ageing systemic milieu negatively regulates neurogenesis and cognitive function – Villeda et al., 2011 (ncbi.nlm.nih.gov)
- Young blood reverses age-related impairments in cognitive function and synaptic plasticity in mice – Villeda et al., 2014 (ncbi.nlm.nih.gov)
- Ageing research: Blood to blood – Scudellari 2015 (nature.com)