L’aspirazione dello scalatore immobile

autumn-leaves

La foglia sta cadendo, lentamente. La sua oscillazione mi fa girare la testa, come quando pensi all’infinità dell’Universo, al numero delle sue stelle, al peso dei suoi atomi minuscoli. Non vorrei dirlo, ma ho le vertigini.

Quel genere di capogiri che ti fanno salire i conati appena riesci a distinguere un punto fisso al di là del vortice: sempre che così possa chiamarsi “il non sentirsi in equilibrio”. Sinistra. Centro. Destra. Centro. Sinistra. Centro. Destra. Centro. Sinistra. E ancora.

Quella piccola lamina verde, un tempo attaccata al ramo ruvido del suo alberghiere, ora mi da fastidio, ora si fa disprezzare da me. “Perché?”, mi chiedo. “Che ti ho fatto di male?”. Il suo picciolo mi guarda, sempre ondeggiando, facendomi le boccacce. “Affaracci tuoi!”, le rispondo. “Sarai tu a dover toccare il suolo, tra pochi istanti”. Lei continua. Fa spallucce coi margini seghettati, accarezzata dal vento afoso di Giugno.

E rimane sospesa a fissarmi, ondeggiando fuori dalla finestra, con gli occhi fissi di una lucertola che si scalda al sole estivo. “E poi, se dovessi dirla tutta, questa non dovrebbe essere la fine del tuo corso; tu non dovresti cadere proprio ora. Le foglie non muoiono d’Estate”.

Eccolo… Un altro pensiero nuovo, sul quale non mi ero mai soffermato in vita mia. Una di quelle riflessioni che nascono dal dolce non far nulla; quando ci si sente in pace coi propri sensi e col Mondo circostante, anche se il nostro stesso “Super Io” continua a sussurrarci nelle orecchie di muovere immediatamente quel nostro grosso culo da nullafacenti.

Eppure, io non mi muovo da qui. Non penso di essere nato “sbagliato”, perché so di per certo che sarebbero tutte stronzate belle e buone, facili da affermare. Nemmeno i dittatori nascono “sbagliati”: scelgono soltanto strade non lastricate, strade non adatte, senza studiarne fin dal principio il punto d’arrivo. Ecco qual è la virgola di cui difficilmente capiamo la pausa. Ecco qual è il motore a scoppio che ci porterà avanti ancora un po’, per poi mollarci sul ciglio di una strada deserta in piena campagna.

LA CONSEGUENZA. Anche la foglia che danza davanti ai miei occhi conosce tale legge universale. Ma forse lei non ne ha colpa. Alla fine, non ha deciso lei di staccarsi da quel ramo là in alto, proprio sotto la nuvoletta a forma di gelato alla vaniglia che sta scivolando sul mio quartiere. Ma allora cosa l’ha portata a staccarsi dalla frasca, in questa calda stagione? Il vento? La debolezza della sua base? Il tocco violento di un uccellino impacciato? Per quanto io possa guardarla, carpire il suo movimento e studiarne i volteggi, non riuscirei comunque ad acchiappare il suo ultimo istante di vita neanche se lo volessi; e la fantasia, ahimè, non mi alleggerirebbe il lavoro. Ora comincio a capirti, sai? Non mi sembri più così odiosa e sfacciata.

Ti sento molto simile a me: due prodotti di una conseguenza non voluta, legata al caso. Io, fermo qui a marcire e poltrire in un giaciglio di solitudine; vedo gente andare e venire, facce ed incubi materializzarsi al tocco della mezzanotte, e stelle cadenti attraversare la mia camera in un millesimo di secondo, come se il Cosmo bucherellato si fosse improvvisamente appartato nella mia stanza buia. “Non riuscirai più a muovere le gambe”, mi dicono i dottori saccenti, rimasti ancora al tempo di Ippocrate.

Tu, piccola foglia, te ne voli a mezz’aria, come un aquilone del giorno di San Patrizio; il tuo margine sventola come il lembo di una stoffa delicata e il suono delle tue imprecazioni accarezza l’udito senza scalfirlo, manco fosse un’onda radio: invisibile, ma esistente. La tua caduta, per quanto possa sembrar strano, mi ricorda la mia inerzia, così lunga e fugace nello stesso istante.

Le mie gambe cominciano ad intorpidirsi pian piano, i miei muscoli diventano cartilagine debole e convessa, ma la mia mente sperimenta ancora l’ebbrezza del volo, l’ubriachezza dei sensi. Quanto è bello essere vivi, almeno attraverso gli occhi! Ecco, la tua oscillazione ha cambiato di intensità: probabilmente il vento soffia in maniera diversa, adesso.

Ma quanto ci metti a cadere? Comunque sia, stai tranquilla; io non mi muovo da qui. “Un passo, un passo, il mio regno per un passo!”, urlerei sconsolato come Riccardo III, sostituendo il suo cavallo con un bisogno per me ancor più impellente: quello di camminare un po’. Poi mi ricordo che ho da sempre vissuto in questo modo, trascinando concetti come catene scricchiolanti, in un tornado di sentimenti tanto frustranti quanto calorosi ed affabili. “Hai mai provato l’amore?”, vorrei chiederti ancora, vedendoti fluttuare sospesa come i fianchi di una ballerina di Arabiya. Sento una scossa profonda pervadermi le tempie: una scarica acuta come gli spigoli dei tavoli scheggiati, quelli che trovi nelle osterie fuori città, coperti quasi sempre da una semplice tovaglia di carta plastificata. “Ma che ne saprà dell’amore una fogliolina fragile come te?”. Ecco…

Un’altra domanda che non mi ero mai posto. “E cosa ne sa un essere umano del sentimento di una foglia?”. Eh sì, probabilmente starmene steso qui mi aiuta ad aprire la mente: sto parlando persino con un oggetto inanimato! Dovrei seriamente prendere una bella boccata d’aria, rifocillare i miei due polmoni con una profonda inalazione intrisa di polline o, ancora meglio, con una spessa fetta di salsedine marina, di una cremosità sublime al palato del pescatore più navigato. Alla fine dei conti, io ti invidio profondamente.

Sì, fogliolina, parlo con te. Almeno tu ora voli, levandoti al vento come una piccola parvenza fantasmatica, senza ossa né linfa; vedi il Mondo da un’altra prospettiva, con la grazia di un’aquila ferita o di una sporta vuota che, trasportata dal vento, balla il tip-tap con la leggiadria di Fred Astaire, sprigionando un metallico rumore di ghiaccio annacquato coi tuoi tacchi di bioplastica riciclabile.

Tu stai danzando. Danzi come se fossi una farfalla innamorata, proiettando sul terreno ghirigori ombrosi bellissimi a vedersi, identici alle ombre cinesi che divertono così tanto i bambini assonnati. Lì, vedo una tigre. Lì, un uccello. Lì, invece, mi sembra di scorgere una scimmia con in mano un palloncino bianco e nero. Lì, ancora, distinguo perfettamente le mani di un gigante che impugnano una rosa dai petali scarlatti, del colore degli errori scolastici: quelli che la maestra ti segna con la penna più rossa del Mondo. Io non posso ballare. Non ci riesco. Non so mettere un passo davanti all’altro. Lo so, sembra una cosa semplicissima, ma per me non lo è.

Per questo ho imparato a viaggiare; con la mente, con le idee, con i ricordi posso cadere dal ramo proprio come stai facendo tu, andandomene anche solo per un attimo da questa sfera di monotonia. Mi innalzo, piano piano. Me ne vado quando voglio. Accetto la conseguenza, mi capisci? La plasmo a modo mio, la rendo più artistica, un po’ più interessante: come quando vedi un’opera d’arte incompleta, e la tua mente la costruisce in un batter d’occhio giusto per vederla ultimata, manco fosse un semplice castello di sabbia leccato dalle lingue salate del mare.

Passo “dal Blu al Rosa”, direbbe Picasso: dalla cecità e dai toni freddi del turchino alla fragilità emotiva dei clowns tinti di ocra e di rosso. Poi cerco di dare un appellativo all’insieme delle mie emozioni, slegate tra di loro come i puntini di una tela di Signac. In questo momento, visto il contesto, potrei benissimo intitolare questa scena come la poesia “Soldati” di Ungaretti, ma non è ciò che voglio, poiché io non mi sento così. Sento la vita, come ho già detto, pur essendo imprigionato come un Montecristo, un Gandhi o un Mandela. Dai, dammi una mano, piccola foglia! Come mi sento? Beh, ti guardo e lo capisco subito, senza esitazione.

Occorre volare in questo tempo, dove?
Senz’ali, senz’aereo, volare indubbiamente:
ormai i passi passarono senza rimedio,
non elevarono i piedi del viandante.

Occorre volare a ogni istante come
le aquile, le mosche e i giorni,
occorre vincere gli occhi di Saturno
e stabilire lì nuove campane.

Ormai non bastan più scarpe né strade,
ormai non serve la terra agli erranti,
ormai attraversaron la notte le radici,

e tu apparisti in altra stella
determinatamente transitoria,
trasformata alla fine in un papavero.

Occorre volare in questo tempo (P. Neruda)

Neruda, mi hai salvato ancora una volta.
Grazie.

È da tempo che sogno di scrivere parole carezzevoli come le tue, sospinte dall’interiorità e non dall’estro creativo infecondo, sterile ed anonimo; voglio poter descrivere me stesso con i pochi vocaboli che ho a disposizione, come farebbe un saltimbanco bighellone alla corte di un re ignorante ed attento solo al contenuto, come tutti gli scrittori alle prime armi. Non voglio più usare i sinonimi di una parola semplice per sembrare un uomo istruito; non voglio più vezzeggiare la mia penna, o la fredda testiera della massa voltaica dell’elaboratore computerizzato, con apprezzamenti ed elogi diretti alla mia creatività, così terrena, profana ed amara come il caffè senza zucchero.

Voglio poter descrivere un tavolo, una spiaggia o un misero e pungente arbusto della steppa kazaka parlando anche di me, del mio essere, delle mie pulsioni, dei miei modi d’esistere. Sembra facile, piccola foglia, ma in realtà è un muro difficile da scalare: un muro liscio come gli specchi in vetro della Murano camaleontica, o come le bianche lenzuola di casa appena lavate, impregnate del sapore fresco della Primavera. Voglio volare senza impedimenti terreni, senza ali di cera. Senza le asettiche costrizioni della società di oggi, che ti vuole adatto alla schiera di automi e padrone di un’immaginazione che fa della superbia il proprio cavallo vincente.

Voglio sentire la pancia che freme, il petto che urla, i polmoni che si strozzano, le gambe che si intonacano con il rinzaffo delle mie paure e dei miei cedimenti, senza il timore di lasciarmi andare come un corpo abbandonato alla corrente di un fiume affamato, dallo stomaco gorgogliante e pieno di pesci striati.

Ma come posso riuscirci? Non riesco a scrivere. Non riesco a muovermi. Poi mi viene in mente Lei. “Lei”, mi ripeto. Allora comprendo una cosa, importantissima. Capisco che l’istruzione, le belle definizioni, la cultura ed il parsimonioso “Viaggio al Centro Della Terra” non valgono niente.

Mi accorgo di non voler conoscere tutto alla perfezione e scientificamente, come il famoso professor Lidenbrock, né approdare sulle sponde del nichilismo asociale come un naufrago che intenzionalmente ha distrutto lo scafo della propria nave per non rivedere più l’essere umano. Mi rendo conto della mia propensione a rendermi continuamente schiavo di me stesso, galeotto dei miei sensi, dei miei arrembaggi alla noia; e così mi chiudo, serro i miei petali in un attimo, col terrore costante che qualcun altro possa schiuderli per analizzare i semi contenuti all’interno, senza prima chiedermi il permesso. Cecità. Io la chiamerei così. Inclinazione all’autocommiserazione e all’alta marea.

Aspetto che l’attrazione gravitazionale esercitata dalla Luna sulla Terra faccia il suo corso, inondando le strutture e le fibre in polistirene del mio corpo, come accade meravigliosamente a Mont Saint-Michel. Riesci a comprendere ciò che ti sto dicendo, verde foglia? Sai, difficilmente parlo di me stesso alle persone; faccio fatica, poiché do inevitabilmente molta importanza a ciò che gli altri pensano di me, della mia fatica a relazionarmi col mio volere e con le mie priorità. Non sempre i miei desideri combaciano con le aspettative che gli altri hanno nei miei confronti, e questo mi fa imbestialire! “Chi me lo fa fare?!”, mi chiedo continuamente. Poi mi accorgo di essere immobile, costantemente a galla per un soffio, tra il “dire” ed il “fare”; e le mie proteste si tramutano in un vagito, come se stessi chiedendo aiuto a coloro che prima vedevo solo come i critici del mio malessere e della mia spontaneità. Andare avanti.

Tornare indietro. Qual è la fottuta via d’uscita? Forse tu lo sai, ora. Vorrei alzarmi da questo letto ed urlare al Mondo di avercela fatta, di essere finalmente uscito dalla pesante atmosfera terrestre per galleggiare nell’Universo profondo, panacea di tutti i mali, con un solo ed unico obiettivo in testa: conoscere me stesso. Guarda! Un’altra foglia lentamente ti affianca! Si è appena staccata dal ramo, eppure ha già raggiunto il punto della tua caduta. Ora volteggiate insieme nell’aria pesante: due punte di freccia smeraldine, leggere come la nebbiolina generata dall’azoto liquido quando raggiunge il suo punto di ebollizione.

Sento che vi amate. Ne ho avuto sentore dal modo in cui lei ha deciso di raggiungerti, pur non sapendo a cosa sarebbe andata incontro. La stimo. Non è da tutti lasciarsi andare in questo modo e affrontare la gravità con la spinta dell’amore. “Lei”, penso di nuovo. Il mio stomaco sta fremendo; un turbine di farfalle si sgranchisce le ali al suo interno, appesantendomi le viscere color quarzo scheggiato con la violenza di un pugno ben assestato.

Adoro questa sensazione, ma allo stesso tempo mi intimorisce. Non so mai cosa aspettarmi da essa. Gioia, dolore, disillusione, appagamento, morte, rinascita; mi accorgo così della mia atavica propensione all’indolenzimento, anche quando si parla di affetto e di emozione. Ed i continui alti e bassi del mio umore lunare, anche se sinceri, oscillano come l’ago di un sismografo tra la ripetitività delle mie pulsioni e l’ineffabile desiderio di novità che porto nel mio fagotto caratteriale. Dovrei avere il coraggio di affrontarmi, di chiedermi il perché.

Ma, ahimè, non vi sono leggi per questo; non vi sono ordinamenti sulla dolcezza, sulla tenerezza e sull’attaccamento: l’uomo deve cavarsela da sé, inevitabilmente. Penso ancora a Lei. Riesco a vederla, se chiudo gli occhi per un istante. La sua leggera spontaneità si sposa alla perfezione con le sue curve, eleganti ed irriverenti allo stesso modo, donando alla sua persona una doppia chiave di lettura, proprio come si potrebbe fare con il mare. I suoi capelli mi ricordano le fronde di un salice piangente, belli e tristi proprio come i suoi occhi, costantemente tesi tra l’esuberanza di un viso delicato come il cotone e la mestizia di lineamenti scolpiti da un artista malinconico.

E il corpo. Il suo corpo è il tempio delle sue inclinazioni, delle sue certezze, come se ogni fibra della sua pelle fosse stata realizzata partendo dallo studio del suo modo d’essere, senza lasciare nulla al caso: le mani ricordano le sottili radici di un olmo triangolare, sempre tese verso l’alto, verso il cielo, come per accarezzare e ringraziare dolcemente l’aria che la culla; la sua pancia, poi, mi parla del Mondo, proprio come un libro pieno di rivelazioni, di cure e di accordi naturali. Quel piccolo neo mi permette di riconoscerLa, sempre.

È la mia bussola in mare aperto, quando gli astri sono coperti dalle nuvole e dal vapore della salsedine; è il suo simbolo, il suo geroglifico indecifrabile, antico come le chiome degli alberi, o come le stelle in cielo scolpite nel laterizio, costantemente in equilibrio sul mantello opaco di Urano. Lei è la figlia della Natura, ne sono sicuro. Dovreste vederla, piccole foglie. I suoi occhi parlano, ti osservano. Sono due fessure in costante ammirazione, aperte su un Mondo sempre nuovo, sempre decifrabile attraverso le emozioni.

Mi ricordano gli occhi di una bambina intelligente e meravigliata dalle regole del Cosmo; una fanciulla libera, aperta, scalmanata, ma anche solitaria, introversa, appartata nella sua solitudine incomprensibile per gli altri. Lei annusa, conosce, ripete, apprende, assimila come le nuvole i concetti bagnati del cambiamento, senza lasciarsi scoraggiare dalla pendenza delle scale che la separano dal suo obiettivo. Inevitabilmente, anche Lei ha conosciuto la costernazione, l’abbattimento e l’oblio provocato dal “lasciarsi andare”; la sua vita le ha lanciato non pochi ammonimenti e le ha propinato la dolce amarezza del caffè-latte, la perdita, la rinuncia.

Eppure, eccoLa qua. Ancora ancorata ai miei pensieri, con la forza di un’Amazzone che fa della delicatezza e della forza d’animo i propri caratteri principali. Arco e Cuore. Faretra di cuoio e Mente. Combatte costantemente, giorno dopo giorno. Ed io la guardo con gli occhi semichiusi, quasi impaurito al sol pensiero di poterla veder tornare senza sorriso, mentre riappare insanguinata da una cocente sconfitta, o quando le scintille della gratificazione verniciano di speranza il suo turbante, indossato solo dalle giovani guerriere della foresta. Lei è un puzzle, un rompicapo che sfonda le porte della logica; ed io accumulo pezzi grandi, pezzi piccoli, cercando di dare una forma intelligibile alla figura del suo Essere, senza però capire che, per arrivare fino in fondo, dovrò prima lavorare sui miei ingranaggi, sulle mie mani, su me stesso. DEVO. ORA O MAI PIU’.

Devo riuscire a muovermi, piano piano, poiché non si può vivere solo di apparenza: bisogna rimboccarsi le maniche, lavorare sulle parti più misteriose di noi stessi, assimilare le occasioni andate a vuoto, ripartire da zero, arrivare a metà strada, perdersi, ritrovarsi, chiedere informazioni, acquisire consapevolezza. Lo so, è come scalare il Godwin-Austen senza il boccaglio dell’ossigeno, ma ciò che mi preoccupa di più è la discesa. Dove trovo i punti di riferimento? Dove mi rifugio quando il Karakorum decide di congelarmi le dita dei piedi, laddove il “Tetto del Mondo” mi guarda dall’alto al basso con i suoi fulminanti occhi di ghiaccio? Non voglio morirci, lassù. Il Nanga Parbat e l’Annapurna mi osservano, sento il calore dei loro sguardi intirizziti poggiarsi su di me, come se fossero due giganti, due “Jotnar” dallo sguardo truce, pronti ad attaccare la divina città di Asgaror alle prime luci del Ragnarok, il “crepuscolo degli Dei” secondo la cultura norrena. Ebbene, quella santa città minacciata dai terrori dell’Apocalisse potrebbe benissimo essere accostata alla mia propensione al cambiamento. Io voglio scalare le cime innevate del Nepal, ma sento di non avere abbastanza attrezzatura per arrivare sano e salvo agli ultimi bivacchi di rifornimento.

Ho timore di non riuscire più a salire e, di conseguenza, di non riuscire nemmeno a ridiscendere i taglienti crinali di quelle montagne psichiche, erette dalla mia stessa persona. Ho paura che, una volta intrapreso un tale viaggio introspettivo, non riuscirò più a riconoscere ciò che prima mi calmava, rendendomi me stesso. Ho paura di non riconoscere più Lei. Ho paura di non piacermi, una volta al sicuro dal freddo di quelle lande. Mi guardo dentro, e allora capisco una cosa: non mi sono mai piaciute le sfide. Sì, lo so, ho sempre pensato di essere un guerriero, un Achille pronto a far infuriare Agamennone, uno dei tanti Berserkir adoratori del “Voden”, la forma attiva e furiosa di Odino; ma, in realtà, la mia vera natura è quella del “cantastorie”, del bugiardo buono: colui che descrive se stesso aggiungendo qualche aggettivo in più, giusto per allietare le orecchie degli altri e per vivacizzare i monotoni accordi del suo chitarrino scordato. Sto imparando a camminare sull’asfalto.

Come un vagabondo affamato di Mondo, o come un bohémien nato troppo tardi, chiuso in un bistrot di Montparnasse a leccare il succo nero della mia penna a sfera tra un tozzo di pane fossilizzato ed un buon calice d’assenzio verde acqua. Canto storie. Scrivo di me, del “Ventre di Parigi”, dei suoi intestini. Elaboro la solitudine, rendendola viva, concreta, come una compagna. Riscrivo tutto ciò che ha a che fare col tacito “contratto sociale” al quale l’uomo si è sottoposto all’alba della civilizzazione; e mando a fare in culo Hobbes e i suoi “lupi” per questo, e rinnego Locke e il suo concetto totalmente liberale di politica e società, e bestemmio Rousseau stracciando il suo “Emilio” come carta straccia, chiedendogli “Che cazzo ne sai tu dei bisogni di un bambino!”. E metto da parte l’ “Amleto”, e Shakespeare. E Dante. E l’Impressionismo, che non mi impressiona più. E la tecnologia del XXI secolo, fatta di cavi ad alta tensione, senz’anima. E Al Pacino, con tutta Hollywood annessa. E Federico II di Svevia, il Medioevo, Napoleone, le epiche battaglie di Tolkien. Perché ho bisogno di un nuovo inizio, col quale riscoprire la vera fisionomia delle mie passioni e dei miei scopi. Ho bisogno di me stesso.

Lassù, sulla cima dell’universo. Proprio così. Forse è questa la virgola di cui parlavo all’inizio. La Conseguenza. Ora voglio attraversare l’Himalaya; ovunque io vada. “Avete visto, belle foglie? Un altro pensiero totalmente nuovo”. Ma dove siete finite? Siete finalmente cadute? Probabilmente avete raggiunto il terreno, ma da qui, steso sul letto, non riesco a vedere bene. Sono felice per voi, davvero; e sono felice di aver affrontato tutto questo in vostra compagnia, senza parlare, guardandoci soltanto attraverso il vetro terso della mia finestra. Sento piccoli passi leggeri che salgono le scale, appena fuori dalla mia porta. È Lei, finalmente. È Lei.

Voglio aspettarla in piedi. Per la prima volta.

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