Sedecim

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Non era da tutti portare quel genere di pantaloni, ma come li portava lei era tutta un’altra storia.

Non è da tutti gli esseri umani provare invidia per delle fibre di cotone ma così fu per me in quel momento, quell’intreccio di bambagia che creava una sottile maglia di tessuto, cucito, stirato e lavorato per diventare un paio di pantaloni, ora stavano accarezzando e sostenendo il più bel culo che avessi mai visto, ma non si fermava lì.

Ero stato molto fortunato quella mattina, dato che quel paio di jeans erano accompagnati da una altrettanto graziosa magliettina rossa, le cui piacevoli curve erano accentuate da una collanina, di colore bronzeo a maglia fine, che partiva dal collo e finiva nascosta all’interno di questa e che lasciava immaginare tantissime cose.

Io per primo, immaginai il freddo ciondolo della collanina costretto tra la maglietta e la pelle, che sussultava ad ogni passo e ricordava, a chi lo portava, di essere ancora lì.

Come se mai potesse scordarselo.

In mente mi balenò un pensiero, va da lei, chiedile il suo nome, presentati. Un brivido di timore, un brivido di gioia e un pò di spavalderia, alzai il mento, sistemai la camicia con le mani come per darle una stirata veloce e un piede davanti all’altro mi spostai verso di lei.

Pensai alla filosofia, all’origine del cosmo, a un milione di motivi per i quali non dovevo essere lì in quel momento e invece c’ero, e stavo agendo nel pieno delle mie facoltà, sprezzante del pericolo, sprezzante della vergogna, un contatto umano come tanti altri, una semplice funzione animale, movimento, sensibilità, ragionamento.

Muscoli, cuore, testa. Esattamente in questo ordine.

Lei sentì la mia presenza e si voltò, io feci quello che dovevo fare, alzai un po’ il sopracciglio destro, come avevo provato più volte davanti allo specchio, abbassai le palpebre e pronunciai qualche parola.

D’un tratto fummo solo noi due, come illuminati da un faretto teatrale, noi soli sul palcoscenico, il resto del mondo era un’ombra che camminava, sussurrava parole incomprensibili attorno a noi, ma non ci disturbava, anzi ci accompagnava.

Allungai una mano verso di lei e lei a sua volta allungò la sua, e sentii, come se qualcuno stesse muovendo senza il mio comando il mio avambraccio, il mio braccio, come se mille omini minuscoli stessero martellando incessantemente sui miei muscoli e questi timorosi e impauriti si ritirassero all’interno dei propri rifugi.

Sentii un forte caldo dove lei mi aveva toccato la mano, eppure quante cose toccavo ogni giorno senza provare il ben che minimo stimolo, senza che nulla influenzasse la sudorazione, senza che nulla mi facesse pensare alla mia mano sudaticcia.

Ritrassi la mano e feci un sorriso.

I suoi denti esplosero dalla fenditura delle sue labbra come gradini di ceramica, ordinati e precisi, erano giusti nel colore e nella forma, e rendevano l’insieme del suo viso aggraziato e piacevole.

Alla vista del suo sorriso, il resto del suo corpo era come se fosse stato inglobato, non esisteva più, in quel momento i miei occhi vedevano solo due labbra leggermente rosate che formavano due graziose pieghette verso l’alto e tutto si sintetizzava lì, e così.

Sentii sempre sul mio braccio un’altra scarica di piccole martellate, più forte della precedente e i miei pensieri balzavano altalenanti, ora al mio braccio, ora al suo fantastico sorriso. E ancora per un’altra volta così.
La mia fronte si corrugò, la sensazione che provavo al braccio prevalse su quel sorriso meraviglioso, finché diventò talmente pressante da essere vera. Era vera.

Mi voltai nel letto, sentendomi tirare dal braccio, la fronte ancora corrugata, la bocca in una smorfia per il brusco risveglio, gli occhi chiusi che non volevano lasciare quel ricordo, così piacevole.

Li aprii e mi trovai faccia a faccia con il mio scocciatore.

Trentadue denti, come gradini in ceramica, due labbra rosa che formavano una leggera piega verso l’alto, due occhi che mi fissavano.