Tutto quello che hai lasciato – Capitolo 1 & 2

Tutto quello che hai lasciato cover

 

Capitolo 1

 

Il mio nome e’ Mark Stephenson e vi scrivo dalle profondità della terra. C’è stato un tempo in cui vivere lassù era ancora possibile, poi all’improvviso venne il buio. Un’oscurità così densa e totale che appena sopraggiunse pensai di essere morto. E insieme al buio venne il freddo. L’aria gelida avvolse improvvisamente tutto, e la temperatura nel giro di poche ore raggiunse minimi fino ad allora sconosciuti.

Erano circa le quattro di pomeriggio del 20 Luglio 2029, quando il sole si spense qui a New York. Ero in coda su Madison Avenue quando tutto successe. Capii subito che era qualcosa di grave. Per un paio di minuti si scatenò il panico. Niente illuminazione, solo i fari delle macchine perforavano il buio spettrale. Riscaldamento al massimo per non congelare.
Alcuni automobilisti, presi dal panico, iniziarono a farsi spazio tra le altre vetture semplicemente spingendo giù la tavoletta del gas e urtando qualsiasi cosa per aprirsi un varco. Poi finalmente si accesero i lampioni, effimera consolazione in un momento di anarchia totale. Cosa avreste fatto voi? Inizialmente pensai si trattasse di un’eclissi totale, oppure qualche incredibile e rarissimo episodio astronomico. Mi dicevo -Mark stai calmo, la luce sta per tornare- ma purtroppo il sole restava spento. Ripeto, cosa avreste fatto?

Decisi di andarmene, passare da casa per prendere giubbotti e qualche coperta, magari collegarmi alla rete per capire qualcosa di più. I notiziari non spiegavano granché a dire il vero, si limitavano a riportare l’accaduto -Il sole si è spento, chiudetevi in casa e dite le vostre ultime fottutissime preghiere- o qualcosa di simile se ben ricordo.

In un tragico momento di rassegnata apatia, mi sedetti sul divano e mi stappai una birra. Era congelata, non scendeva. Tutto era congelato. Il sole si era spento e il mondo si stava spegnendo insieme a lui.

 

 

Capitolo 2

 

“Il signor Python non la prenderà bene, oh no, sarà furioso” pensai correndo giù per le scale.
Avevamo sbagliato i calcoli. Avevamo sbagliato tutto.
Com’era possibile che un equipe composta da un centinaio di menti geniali, eccelse nei loro campi di competenza, avesse sbagliato dei calcoli ingegneristici elementari, con un margine di errore così grossolano per giunta? Non riuscivo a capacitarmene. La stupidità umana a volte gioca brutti scherzi. Ed così eccoci piombati nell’oscurità più totale, tre mesi prima delle nostre previsioni.
Un errore imperdonabile.
Percorsi gli ultimi gradini saltando, non sapendo bene se il motivo principale della mia ansia fosse proprio il blackout planetario o piuttosto la paura di aver deluso il mio capo.

“Chissà cosa sta facendo Stacy adesso..avrà capito che siamo già alla fase B? Si starà attenendo al protocollo? Oh si, certo, lei sa sempre tutto”

Mentre formulavo queste ultime domande spalancai l’uscio del corridoio di snodo con un tonfo. Le luci di emergenza erano accese e distanziate ad intervalli regolari lungo le pareti, garantendo una buona visibilità pur essendoci una lieve penombra. Le radiazioni luminose fredde e artificiose delle lampade al neon ammantavano l’intero passaggio, rendendo l’atmosfera fiabesca, ma non in senso buono. Fiabesca come quelle antiche storielle tramandate in Russia e nell’Europa del Nord, ricche di orchi, cannibalismo, infanticidi e maledizioni.
L’assenza di luce mi stava chiaramente condizionando in maniera negativa, mi stava facendo regredire. Rispondevo alla novità come una bestia selvatica risponde ad uno stimolo improvviso, con aggressività e timore primitivo. Scacciai quei pensieri fuorvianti e mi fermai due secondi per calmarmi. Inspira. Espira.

Dovevo andare dal capo senza perdere altro tempo. Percorsi a grandi falcate tutto il corridoio ed arrivai nell’atrio dell’ala nord. Mancava poco. Le ultime due stanze volarono sotto i miei piedi mentre intorno a me percepivo il brusio indaffarato dei colleghi che davano inizio alla procedura a lungo studiata. Ognuno sapeva quello che doveva fare, ognuno sapeva quando lo doveva fare, ognuno lo faceva. Come api operaie nell’alveare, ognuno aveva il suo compito e lo eseguiva diligentemente. Ne andava del nostro futuro e lo sapevamo bene.
Giunsi finalmente alla porta tanto agognata e, vista l’eccezione, la spalancai senza bussare.
“Non si usano più le buone maniere, Jean?”

Il tono caldo e pacato arrivava dalla mia sinistra. Una figura alta, robusta, avvolta in un mantello nero stava facendo roteare un bicchiere di vino nella rispettiva mano destra. Ritta davanti al camino, la sua ombra tremolante si stagliava su di me.
“Considerando che farà molto freddo ho ritenuto adeguato riesumare dai cimeli il mantello del mio defunto nonno, cosa ne pensi?”
“Signor Python sono estremamente mortificato per l’errore di valutazione commesso dal team di ricerca e sono venuto qui a porgere le scuse da parte di tutti. Inoltre volevo informarla che nonostante l’anticipo notevole stiamo comunque seguendo il protocollo operativo e “
“Fermati. Fossimo stati in altre situazioni avrei senza dubbio e senza remore fatto saltare qualche testa, ma adesso ho bisogno di ognuno di voi. L’impianto è operativo?”
“Si Signore! La centrale è stata attivata ed arriverà a regime entro 6 ore.”
“Perfetto. Fa preparare i Serafini. E’ tempo di andare in città ed iniziare il giudizio.”

Orfeo
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Fuga dal Paradiso
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Aspettando l’ultimo round – 7
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