Il linguaggio è una delle nostre capacità più complesse, ed è quindi gestita da un’intricata rete di aree cerebrali: ma come ogni funzione cognitiva, può venir meno qualora il nostro cervello venga danneggiato.
Qualora ciò avvenga, questa perdita della capacità di produrre o comprendere il linguaggio viene definita afasia: questa è uno degli oggetti di studio della Neuropsicologia, scienza che si propone di studiare gli effetti dei danni cerebrali sui processi cognitivi (percezione, attenzione, linguaggio, memoria, ragionamento, ecc.), sulle emozioni e sulla personalità
L’origine di questa disciplina risale alla fine del XIX secolo, e viene attribuita Paul Pierre Broca, un uomo dal multiforme ingegno: antropologo, neurologo, chirurgo ed infine senatore, con i suoi studi sulle afasie fu il primo a porre una chiara correlazione tra un disturbo cognitivo ed una precisa lesione.
Gall e la frenologia
L’idea che un danno al cervello possa portare ad una perdita della favella compare già nel corpus ippocratico, ma un primo approccio “moderno” lo si ha solo nel 1770, quando Johan Gesner scrisse il trattato Die Sprachamnesie (L’amnesia del linguaggio). Qui, il medico tedesco, riportando una serie di casi clinici, non solo descrisse minuziosamente la condizione di sei pazienti perfettamente in grado di comprender ma incapaci a parlare se non tramite parole incomprensibili, ma comprese anche come questa amnesia colpisse esclusivamente il linguaggio risparmiando alti aspetti dell’“ideazione”, suggerendo che un danno cerebrale possa esser specifico nel suo impatto funzionale.
Agli inizi dell’800 Franz Joseph Gall, pioniere nello studio della corteccia cerebrale, definì l’ipotesi che ad un’area precisa della corteccia corrispondesse una specifica funzione, parimenti in entrambi gli emisferi. Una ottima intuizione, che però farà poi degenerare nella frenologia. Nello specifico, egli riteneva che l’articolazione del linguaggio ricadesse sotto il dominio dei lobi frontali: questo fu l’unico caso in cui azzeccò (quasi) una localizzazione cognitiva.
Autopsie condotte in quegli anni su pazienti dell’Hôpital de la Charité di Parigi da Jean-Baptiste Bouillard e sue nipote Ernest Auburtin sembravano supportare l’ipotesi di Gall, benché ne ponessero in discussione la distribuzione simmetrica delle funzioni tra i due emisferi.
Questa idea di aree cerebrali specializzate però non era ben vista da buona parte della comunità scientifica dell’epoca, sostenitrice per contro di una visione olistica, ed i due erano continuamente osteggiati.
Nell’800 l’idea che le aree corticali potessero avere ruoli specifici era considerata una sciocchezza
Bouillard nipote, però, ottenne conferma diretta delle proprie ipotesi mentre assisteva un mancato suicida nelle sue ultime ore d’agonia.
Lo sventurato, sparandosi un colpo alla tempia, era riuscito solo a farsi saltare in aria parte del cranio, lasciando il cervello intatto e scoperto: mentre il moribondo rispondeva alle domande del medico, questi approfittava della situazione toccandogli varie zone corticali con una spatola. Ad un tratto, premendo il lobo frontale sinistro, il paziente si interruppe di colpo e non riprese a parlare sino a che lo strumento non venne rimosso.
Il suicida morì poco dopo, lasciando Ernest con un pugno di mosche, ma convincendolo del tutto che il linguaggio risiedesse realmente in tale area, al punto da lanciare una pubblica sfida alla comunità scientifica.
Il 4 Aprile 1861, innanzi alla neonata Società Antropologica di Parigi, egli presentò il paziente Bache: un uomo, oramai con un piede nella fossa, perfettamente lucido ma incapace a parlare.
Il giovane dottore era così convinto delle proprie idee da dichiarare che avrebbe pubblicamente abiurato se non avesse trovato un danno nel lobo frontale sinistro durante l’imminente autopsia.
A quel convegno, tra la folla c’era anche un amico di Bouillard: Pierre Paul Broca, che in quei giorni stava seguendo un paziente molto speciale
Monsieur Tan
All’Hôpital Bicêtre, struttura specializzata nel trattamento dei disturbi mentali, l’ecclettico scienziato aveva un paziente particolare: Louis Victor Leborgne.
Monsieur Leborgne era un normale artigiano, ricoverato in giovane età nel 1840, anche lui a seguito di una improvvisa perdita della favella. Egli, però, era noto con un altro nome. Come riporta Broca:
Poteva produrre solo una singola sillaba, che generalmente ripeteva due volte di seguito; indipendentemente dalla domanda postagli, rispondeva sempre: ”tan, tan”, assieme a vari gesti espressivi. Per questa ragione, per tutto l’ospedale, è conosciuto solo con il nome di Tan.
La somiglianza di questo soggetto, incapace di proferir altro che la sillaba tan (e qualche sporadico “Sacre nom de Dieu”), con Bache spinse Broca a richieder a Bouillard, più versato nell’argomento, di aiutarlo nell’osservazione di questo paziente, anch’esso oramai in fin di vita. Monsieur Tan, spirò il mattino del 17 Aprile, ed il giorno seguente Broca presentò il suo cervello alla Società Antropologica: era evidente un danno alla terza convoluzione del lobo frontale sinistro..
Broca si limitò a sostenere che tale area potesse esser coinvolta nella perdita dell’articolazione del linguaggio
Monsieur Lelong e gli altri
Questa cautela era ragionevole: in fondo si trattava di una singola osservazione, troppo poco per affermare che una lesione di questa area nell’emisfero sinistro causi il deficit. Broca, però, lavorava in uno dei più grandi ospedali parigini, dove i pazienti non mancavano mai. Ed è così che può concentrarsi su di un altro paziente, il vecchio Lelong.
Questo anziano signore era nelle stesse condizioni di Monsieur Tan, pur preservando un bagaglio espressivo migliore di ben cinque vocaboli: oui, non, toi (malapronuncia di troi, che usava indistintamente per qualsivoglia numero), toujours e Lelo (il suo cognome).
Lelong morì nell’Ottobre del 1861: all’autopsia si trovò ancora una volta un danno nella terza convoluzione frontale di sinistra.
Presentando il caso, Broca scrive
Non negherò una sorpresa prossima allo stupor quando scoprii che nel mio secondo paziente la lesione occupava esattamente lo stesso sito che nel primo
[…]
L’integrità della terza (e forse della seconda) convoluzione frontale sembra indispensabile all’esercizio della facoltà del linguaggio articolato
Egli coniò quindi il termine di aphémie, od afemia (letteralmente mancanza di voce) per denotare questo fenomeno, e più tardi, nel 1865, dopo aver studiato 20 altri pazienti afemici e riscontrato che 19 di essi presentavano tale lesione nell’emisfero sinistro, scrisse:
Noi parliamo con l’emisfero sinistro.
Broca fu il primo a localizzare un’area corticale coinvolta nel linguaggio, a scoprire la lateralizzazione dei processi cerebrali che lo processano, ed ad aver introdotto il concetto clinico di afemia, divenuto poi afasia.
Con lo sviluppo della Neuropsicologia questo disturbo venne maggiormente caratterizzato e categorizzato in differenti tipi, ciascuno correlato a lesioni in aree differenti.
L’Area di Broca: anatomia contemporanea
Da allora il deficit nel linguaggio descritto dal dottore venne chiamato Afasia di Broca, e la regione descritta, mappata ad inizio del secolo scorso da Brodmann nelle aree 44 e 45, battezzata Area di Broca. Però la relazione tra queste due, studiata da numerosi ricercatori e clinici, cominciò presto ad esser messa in discussione.
Pierre Marie fu tra i primi ad evidenziare come il tipo di disturbo descritto da Broca non fosse in realtà riconducibile a sole lesioni nella omonima area, ma anzi a traumi ben più vasti (suggerendo così la presenza di una circuiteria neurale dedicata al linguaggio ben più complessa).
Nella seconda metà del secolo scorso, con lo svilupparsi della Neuropsicologia e dei metodi di neuroimmagine, le prove contro l’originale correlazione di Broca venne ulteriormente posta in discussione: nel corso degli anni ’70 una ampia serie di osservazioni ha evidenziato come danni limitati alla sola terza convoluzione sinistra causino sì episodi di mutismo ma transitori.
Ma l’Area di Broca e l’area originariamente indicata dal medico sono veramente la stessa cosa?
Per chiarire la questione, Dronkers e colleghi, qualche anno fa, usarono una risonanza magnetica ad alta risoluzione sui cervelli dei due pazienti,conservati al Musée Dupuytren.
Il risultato non giunse inaspettato, date le troppe incongruenze raccolte negli anni, ma chiarì finalmente la faccenda: l’area lesionata non è quella che oggi viene chiamata Area di Broca.
Inoltre le lesioni si estendono molto più a fondo e più ampiamente di quanto riportato dal francese, coinvolgendo molte regioni (di cui solo alcune in comune) ad oggi conosciute per essere implicate nel controllo del linguaggio.
Broca era stato corretto nel descrivere i casi di Tan e Lelo, così come nel trarre le sue conclusioni, considerando che senza sezionare il cervello non poteva immaginare l’estensione delle lesione (anche se egli stesso ipotizzò che queste fossero ben maggiori e più profonde di quanto osservabile dall’esterno).
Inoltre nelle sue pubblicazioni si mantenne abbastanza largo definendo come generalmente rilevante per il linguaggio una porzione del giro frontale inferiore abbastanza ampia da contenere i siti interessati da entrambe le lesioni, oltre a molti altri.
Un quid pro quo semantico con il padre della Neuropsicologia del linguaggio
Conclusioni
Oggi sappiamo che il sistema di controllo del linguaggio risulta spazialmente distribuito in numerose aree cerebrali, secondo un disegno ben più complesso di quanto Paul Broca avesse potuto immaginare: certamente la Neuropsicologia moderna ha rielaborato e modificato alcuni delle sue ipotesi, ma questo non sminuisce certo l’importanza di questo scienziato.
Egli seppe spingersi oltre le idee del proprio tempo, e dare il La a quella che in seguito sarebbe divenuta una branca di rilievo nelle Neuroscienze, che spesso funge da ponte tra la ricerca di base e quella clinica. In questo il medico francese fu certamente aiutato dalla fortuna di avere per le mani monsieur Leborgne al momento giusto ma, come avvenuto con William Scoville e Brenda Milner per il caso di HM, se non fosse stato in grado di capire l’opportunità che gli stava innanzi, quell’occasione avrebbe potuto rimanere non colta.
Quello che però lascia un poco l’amaro in bocca, è la sorte toccata ad Auburtin nipote, Ernest Auburtin: nonostante il suo ruolo decisivo in questa storia, la sua figura venne offuscata dalla fama dell’amico, al punto che di lui rimangono poche tracce, e neppure una foto su Google images.
- Paul Broca (wikipedia.org)
- Broca’s aphasiacs. Pearce, 2008 (ncbi.nlm.nih.gov)
- Paul Broca’s historic cases: high resolution MR imaging of the brains of Leborgne and Lelong. Dronkers et al., 2007 (ncbi.nlm.nih.gov)
- Revisiting the contributions of Paul Broca to the study of aphasia. Lazar & Mothr, 2011 (ncbi.nlm.nih.gov)
- The man who couldn’t speak—and how he revolutionized psychology. Konnicova, 2013 (blogs.scientificamerican.com)