Kevin e Alice

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Capitolo 1
L’incidente

 

Sento molta confusione nella mia testa, sento voci lontane, ovattate, come suoni indefiniti che non hanno senso ne significato. Mi ritrovo disteso per terra, con il sapore dolciastro del sangue in bocca. Non riesco a capire, a ricordare. Tutto si muove intorno a me, i colori si mischiano e poi, ad un tratto, di nuovo il buio. Riapro gli occhi, sembra che siano passati solo due, tre secondi ma sicuramente ne son passati molti di più. L’udito ancora stenta a tornare ma sento il suono di una sirena mischiata ad un fischio continuo nelle mie orecchie. Vedo l’interno del tetto di un’ambulanza e due persone, munite di giubottoni arancio-fluorescente, che cercano, frettolosamente, di non farmi passare a miglior vita. Uno dei due vede che i miei occhi si fanno a fessura, urla parole forti che io sento molto lontane.

«resista Sig. Taylor, tenga duro».

«siamo quasi arrivati, tienigli la maschera dell’ossigeno sulla b…»

Ancora il nulla si impadronisce dei miei sensi. Il dolore sparisce completamente, e mi ritrovo nel mezzo di un tunnel buio. Un puntino di luce bianca da una parte e una splendida luce dorata dall’altra parte. Cosa fare? La luce dorata sembra portare pace, calore e serenità. Più vicina del puntino. L’intuito mi porta dall’altra parte. Cammino per ore e ore ma il puntino stenta ad avvicinarsi e la grande luce alle mie spalle non sembra allontanarsi mai, che sia destinato ad andare verso essa? Il tarlo del dubbio inizia ad insinuarsi nella mia testa ma il mio istinto continua a spingermi verso il puntino bianco. Sono ormai convinto di essere morto. Esiste una diceria che sostiene una cosa assai strana da poter spiegare, anche perché nessuno è mai tornato indietro dalla morte per confermare la veridicità di questa cosa. Si dice che, poco prima di morire, ognuno di noi rivede il film della sua vita, passano davanti tutti i momenti più belli, a me non è successo. Questa deduzione logica mi porta solo ad un esito, sto facendo la cosa giusta. Continuo quindi ad inseguire il puntino, ma lo vedo sempre lontanissimo, inavvicinabile. I minuti passano, forse già trasformati in ore o giorni e il puntino, finalmente, si fa sempre più grande, sempre più vicino. Lo raggiungo. Trovo una porta, bianca, candida con un pomello nero in mezzo. La apro aspettandomi il calore della primavera, il colore dei fiori appena sbocciati, la serenità, la pace. Niente di tutto ciò, vedo solo bianco. Gli occhi mi fanno male, faccio fatica a tenerli aperti. Vedo ombre, immagini sfumate si profilano davanti a me, tutto sembra essere totalmente irreale e non riesco a capire se sia sogno o realtà, o se sono addirittura morto. Col passare dei minuti inizia a tornarmi l’udito, faccio fatica a sentire ma sento. Gli occhi mi fanno meno male rispetto a prima allora riesco a vedere qualcosa di più. Realizzo di essere in un ospedale, sdraiato su un lettino e imbottito di flebo. Arriva il dottore con un’infermiera, distinguo le figure ma non riesco a vedere bene i loro volti, come se guardassi attraverso un vetro bagnato. Riesco a sentire, voci lontane, il dottore che cerca di farsi capire. Sento il suono delle parole ma è come se parlasse dietro ad un muro. Non ricordo niente, non ricordo chi sono, da dove vengo e come sono finito in ospedale. Ricordo solo il tetto dell’ambulanza. Le parole del dottore iniziano ad essere più chiare e finalmente capisco cosa vuole dirmi.

«Riesce a sentirmi sig. Taylor?»

«Oh mio Dio! Dove sono? Cos’è successo?»

«Stia tranquillo, non si agiti. Si trova in ospedale, è stato vittima di un grave incidente in automobile con la sua famiglia»

«Io non ricordo assolutamente nulla! Non so nemmeno come mi chiamo!»

«Non si allarmi, è rimasto in coma per quasi tre settimane e, molto probabilmente, la botta le ha causato questa amnesia. Non si preoccupi, presto ricorderà ogni cosa»

«Ma cos’ho in faccia?»

«Una bendatura, è rimasto sfigurato dopo aver colpito la faccia violentemente sul parabrezza della sua auto, sfondandolo»

«Aspetti un attimo dottore, ha parlato di famiglia? Io ho una famiglia?»

Lo sguardo del dottore si incrociò con quello dell’infermiera, il suo viso si mascherò di tristezza, le sue spalle si rilassarono e un sospiro uscì dalle sue labbra.

«Purtroppo, Kevin, aveva una famiglia. Nell’incidente sua moglie ha perso la vita e sua figlia lotta per non perderla, ma disperatamente. È in coma farmacologico, credo che resisterà ancora pochi giorni, mi dispiace moltissimo». Dicendo questo se ne andò lasciandomi solo con il mio dolore.

Ad essere del tutto sinceri, tracce di dolore, purtroppo, non ne provavo. Non ricordavo di avere una famiglia, non ricordavo neanche le facce di mia moglie e di mia figlia. Era tutto così incredibile, sembrava che fossi nato in quel preciso istante, senza neanche un ricordo.

Il dottore tornò la mattina seguente a visitarmi, cercando di mostrarsi addolorato per la mia tragedia e allo stesso tempo anche un po’ distaccato per difendere la sua figura.

«Allora sig. Taylor, come va oggi la sua testa?»

«Esattamente come ieri dottore, non ricordo assolutamente nulla»

«Abbiamo trovato il suo portafogli in macchina e la polizia, al suo interno, ha trovato la sua carta d’identità e qualche spicciolo. Hanno fatto delle ricerche su di lei e vorrebbero farle anche qualche domanda sulla quarta persona che era a bordo della sua auto»

«C’era una quarta persona in macchina con me?»

«Si, e sappiamo solo che era un maschio, in base alle tracce che ha lasciato nell’impatto, però purtroppo il corpo non è ancora stato recuperato»

«Posso chiederle cosa hanno rilevato sulla mia identità?»

«Lei si chiama Kevin Taylor, ha quarantadue anni, sposato con Sarah Belmott. Ha avuto una bambina cinque anni fa, che si chiama Alice»

«Nient’altro? Non so.. che lavoro facevo, dove abitavo..»

«Nessuna traccia del suo stato lavorativo. Da accurate ricerche anagrafiche abbiamo scoperto che, appena nato, è stato abbandonato davanti ad un orfanotrofio, di conseguenza non ha nessun parente da poter contattare»

«Santo Dio, una volta uscito da qui non saprò dove andare, chi cercare»

«Può tornare a casa sua sig. Taylor, il suo indirizzo è scritto sulla sua carta d’identità»

Era davvero incredibile che non avessi più neanche un ricordo della mia vita, nessun particolare, nessun dettaglio. Forse il dottore aveva ragione, forse la memoria mi sarebbe tornata col passare del tempo.

Un’altra notte passò tra pensieri e sogni che per me erano del tutto nuovi, ne feci uno strano. Sognai di brandire un coltello contro una persona, un uomo di cui non ricordo la faccia.

Il giorno successivo stavo decisamente meglio, per quanto si possa stare meglio dopo tre settimane di coma. I miei ricordi non avevano la benché minima intenzione di tornare da me, la cosa non mi preoccupava molto, però la mia curiosità mi spronava a pensarci. Volevo chiedere al dottore di portarmi da mia figlia, vorrei vederla almeno una volta prima che mi lasci per sempre. Vorrei avere almeno un ricordo di questa piccola vita che se ne sta andando senza sapere neanche che suo papà non ricorda niente della sua esistenza.

«Buongiorno Kevin, come sta oggi?» disse il dottore entrando nella stanza.

«Salve dottore, sto bene, però, purtroppo, non ho ancora nessun ricordo della mia vita e la cosa mi preoccupa»

«Stia tranquillo, piano piano, i ricordi affioreranno. Potrebbero volerci giorni, mesi, forse anni. Tutto, comunque, dipende dalla sua volontà, Kevin»

«Senta dottore, vorrei farle una domanda»

«Dica pure»

«Vorrei vedere mia figlia, se è possibile»

«Certo Signor Taylor, domani le farò arrivare una bella sedia a rotelle e la porterò da sua figlia, chissà, magari la sua presenza può aiutarla, povera bimba»

«Grazie mille dottore, le sono davvero grato per tutto quello che sta facendo»

«ci mancherebbe» e, sorridendomi, si congedò.

 

 

Capitolo 2
La bambina

 

Il giorno successivo avevo già la sensazione che la mia salute fosse migliorata. Attendevo il dottore, o un’infermiera, perché ero davvero curioso di vedere il volto di mia figlia. Una bambina di cinque anni, se mai fosse uscita dal coma, mi avrebbe cercato, chiamato “papà”, una parola che non avrei sentito mia. Mi sento un verme perché, nel profondo del mio cuore, forse, vorrei che questa bimba non sopravvivesse per non dover convivere con questo dolore, con queste incertezze, per dover essere obbligato ad amare una creatura di cinque anni di cui conosco solo il nome. Mi chiedo se mai torneranno i ricordi, il dottore è fiducioso, io no. Io sono quasi sicuro che non riuscirò a ricordare niente.
Stavo quasi per assopirmi quando un’infermiera entrò nella stanza dotata di sedia a rotelle. Mi sorrideva, chissà a quante persone ha regalato un sorriso forzato come quello.

«Buongiorno signor Taylor, come sta?»
«Domanda affascinante la sua! – risposi con un po’ di malizia – Sinceramente non saprei dirle come sto. Sono vivo, quindi il mio cervello mi sprona a risponderle che sto bene. D’altro canto mia moglie è morta e mia figlia è in coma. Però non ho alcun ricordo di loro quindi non provo dolore per questo. Secondo lei sono un essere spregevole?»
«Devo dire che sta migliorando se il suo cervello è già in grado di fare questi ragionamenti profondi. Non penso assolutamente che lei sia “spregevole”. Penso solo che nel reparto rianimazione c’è una povera creaturina che potrebbe avere bisogno del suo papà. Nonostante il suo papà non ricordi di avere una figlia».
«Lei dovrebbe fare l’avvocato, non l’infermiera!»
«Si, direi che il suo stato di salute è in netto miglioramento. Lo noto dal fatto che fa anche del sarcasmo!» mi sorrise più spontaneamente di prima.
«La ringrazio per non aver aggiunto l’aggettivo “pessimo” prima della parola “sarcasmo”» stavolta fui io a regalarle un sorriso.
«Su, venga che la aiuto a salire sulla sedia. Non faccia sforzi inutili che deve recuperare ancora un po’ di salute».
La ragazza posizionò la sedia alla sinistra del mio letto. Mi aiutò a trascinarmi tenendomi sotto le braccia finché non arrivai in una posizione abbastanza favorevole a farmi scivolare sulla sedia.

L’infermiera inizio a spingere la carrozzina, portandomi, finalmente, nella stanza dove mia figlia era ricoverata.

«Signor Taylor, mi dica..»

«Chiamami pure Kevin e diamoci del tu»

«D’accordo Kevin, dimmi, non ricordi davvero nulla del tuo passato?»
«Niente, vuoto totale. Come se fossi nato il giorno del mio risveglio dal coma. Chissà se riuscirò mai a ricordare qualcosa» dissi sospirando.
«Magari rivedere il volto di sua figlia.. chiedo scusa, di tua figlia potrebbe aiutarti a ricordare qualcosa»
«Lo spero con tutto il cuore cara – mi girai per guardare la targhetta con il nome dell’infermiera – Katelyn»

«Kate, per gli amici» e mi sorrise.

Stavamo percorrendo i lunghi corridoi dell’ospedale e pensavo intensamente al volto di mia figlia. Non sapevo se fosse bionda, mora ne il colore dei suoi occhi, ne quanto fosse alta, però cercavo di immaginarla in qualche modo.

Entrammo nella sua stanza, la vidi e me ne innamorai subito. Era li, distesa sul letto, con la maschera dell’ossigeno, un macchinario che emetteva continui bip stava accompagnando la sua vita.

«Questa è mia figlia?» domandai con lo stupore dipinto sul mio volto.

«Si Kevin, è tua figlia, povera bimba. Ci vorrebbe un miracolo»

Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, sembrava uno splendido angelo caduto dal cielo. Era immobile, la coperta tirata fino al pancino, i capelli lunghi, lisci si appoggiavano sul voluminoso cuscino sotto la sua testolina. Il ventre si gonfiava seguendo il ritmo dei suoi respiri, aiutato dalle macchine. I suoi occhietti chiusi sembravano volersi aprire da un momento all’altro.
«Mio Dio, è davvero bellissima»

«Lo è, Kevin» mi rispose Kate.

Dal giorno che mi portarono a vedere mia figlia, ogni giorno le facevo visita. Ormai andavo con le mie gambe da lei, senza la sedia a rotelle. Ogni giorno me ne innamoravo sempre di più, ogni giorno i miei sentimenti per quella piccola creatura andavano aumentando, ogni giorno piangevo e pregavo Dio che si risvegliasse dal coma. Volevo sentirmi chiamare papà ancora, volevo sentirmi chiamare “papà” per la prima volta nella mia vita dato che era come se fossi nato da pochi giorni a quella parte. Solo il pensiero di non ricordare nulla della mia vita mi fa pensare di essere meschino e spregevole. In determinati momenti mi colpevolizzo di non ricordare davvero nulla della mia vita e altri momenti mi consolo pensando che non ho colpa di tutto questo. I ricordi non volevano proprio saperne di tornare, ma non mi importava più. Il mio unico pensiero, in quel momento, era mia figlia.

 

Capitolo 3
Colpo al cuore

 

Era ormai un giorno come un altro in quell’ospedale. Avevo tolto le bende dal volto. Mi guardai allo specchio ma non riconobbi nessuno. Quel volto, che era ancora tumefatto e gonfio, pieno di cicatrici, era completamente nuovo. Nonostante questo, i dottori mi avevano detto che ero fuori pericolo e potevo lasciare l’ospedale quel giorno stesso. Ovviamente sarei rimasto al capezzale della mia bambina finché non si fosse risvegliata o non fosse andata via per sempre da me. Il solo pensiero che potesse morire, senza poter neanche conoscere il suono della sua voce fa struggere la mia anima e riempie il mio cuore di sofferenza. Ma sono ottimista, sicuramente prima o poi si risveglierà. Io aiuterò questa piccola creatura, le starò al fianco, le darò tutto l’amore che un padre può dare alla sua bimba. Tutto questo la aiuterà a vincere la sua lotta contro la signora con la falce.

Ero quasi assopito sulla sedia di fianco al letto di Alice. Un piccolo movimento catturò la mia attenzione. Mi attivai subito per capire cosa si fosse mosso nella stanza. Il movimento tornò a manifestarsi. Era un ditino di Alice. La mano si mosse lentamente, non credevo ai miei occhi, Alice ce l’aveva fatta! Si stava risvegliando dal coma. Provai a chiamarla per cercare di aiutare il suo risveglio, il suo ritorno alla vita.

«Alice! Alice mi senti? Sono papà, svegliati tesoro»

I suoi occhietti si fecero a fessura, e le sue palpebre iniziarono a sbattere prima lentamente e poi più velocemente. Ero al settimo cielo! Mia figlia si stava svegliando!

«Amore, ce l’hai fatta!»

In quel preciso istante un altro particolare catturò la mia attenzione. Un’ombra. Grande, dietro di me. Intanto Alice aprì gli occhi completamente. Si girò verso di me e disse “Papy”.

L’emozione di sentirle dire quella parola rivolta a me era incredibile, era come se lo sentissi per la prima volta ero emozionatissimo. Poi tutto successe in un attimo. Mi girai per vedere chi arrivava alle mie spalle, sentivo una presenza dietro di me, vedevo un’ombra. Vidi un uomo, sembrava un gigante, era alto quasi due metri, aveva folti capelli scuri e la barba incolta. Un particolare attirò la mia attenzione, la sua mano sinistra aveva solo tre dita, mancavano l’anulare e il mignolo. Non feci neanche in tempo a proferire parola che un dolore lancinante arrivò dritto al petto, un colpo al cuore. Abbassai la testa per guardare il mio corpo. La mia faccia era la sintesi della sofferenza ma il dolore era tale che non riuscivo neanche ad urlare. Sentii contemporaneamente l’urlo di Alice, stridulo e acuto come può essere l’urlo di una bimba. Guardai all’altezza del cuore, l’omone aveva infilato un coltello nel mio petto e l’unica domanda che mi ponevo era: perché? Le ultime parole che sentii uscire dalla bocca dell’omone furono: “figlio di puttana questa è la fine che meriti..”

Sapevo che stavo andando incontro alla morte. La speranza è l’ultima a morire, lo dicono sempre, ma quando stai per morire lo sai benissimo. Pensavo alla mia bambina che aveva perso madre e padre nel giro di pochi giorni. Mi stavo pian piano spegnendo, quei pochi attimi, quei pochi secondi sembravano durare ore. Poco prima che anche l’ultima fiamma di vita lasciasse le mie spoglie terrene, iniziai a ricordare tutto quello che era successo poco prima dell’incidente.

 

“Papy andiamo al mare anche domani?”

“Amore non possiamo, domani papà lavora, ma ti prometto che settimana prossima ci andiamo sabato e domenica, va bene?”

“Si!! Che bello!!”

“Beh, bisogna anche vedere se la mamma è d’accordo”

“Certo che sono d’accordo Kevin, perché non dovrei?”

“Non saprei, però mi sembrava giusto chiedertelo. Guarda Sarah, c’è un uomo che fa l’autostop, dici che dovremmo aiutarlo?”

“Kevin tira dritto, non si sa mai chi si incontra per strada, magari è un delinquente”

“Su cara, che fine ha fatto la donna che voleva aiutare tutti che ho sposato qualche anno fa?”

“Kevin, non so se è il caso.. tutto qua..”

“Sarah, il fatto che io non porto la fede è perché mi mancano due dita non perché non creda in te. Però quest’uomo sembra proprio avere bisogno di aiuto. Poi sono alto quasi due metri e peso quasi 100 chili, cosa vuoi che mi faccia?”

“Dai va bene, fermati e chiediamo di cosa ha bisogno, ma togli il portafogli dal cruscotto prima”

“Stai tranquilla Sarah, non può certo rubarmelo prima che me ne accorga e poi ci sono quattro spiccioli”

Fermai la macchina sul ciglio della strada, di fianco all’uomo che stava con il pollice alzato.

“Salve amico, problemi?”

“Buon uomo, è il primo che si ferma, sia lodato il Signore ci sono ancora persone gentili a questo mondo. Senta, ho bisogno di un passaggio in città, la mia macchina è in panne e devo tornare dalla mia famiglia prima che faccia sera”.

“Salga, la portiamo noi”

“Grazie mille”

 

I ricordi adesso erano confusi ma c’erano. La radio parlava di un pericoloso uomo evaso dal carcere che poteva essere armato, i due coniugi che si guardavano preoccupati perché la descrizione dell’uomo corrispondeva all’individuo che avevano preso con loro. Tutto si faceva più chiaro, l’autostoppista tirò fuori una pistola dalla tasca in preda al panico, non voleva di certo tornare in carcere. Minacciò l’uomo di uccidere la bambina, Alice, se non lo avessero nascosto in casa loro per qualche giorno. Lui era inizialmente accondiscendente. La donna, Sarah, cercò di armeggiare con il cellulare senza farsi notare. Il suo fare sospetto mandò l’autostoppista su tutte le furie.

“Voleva fregarmi? Pensa che io sia uno stupido?”

“No la prego, non faccia del male a mia figlia!”

L’uomo si arrabbiò moltissimo, puntò la canna della pistola in mezzo allo schienale ed esplose due colpi. Risuonarono fortissimi all’interno dell’abitacolo. Kevin urlò con tutte le sue forze. Lasciò il volante per andare dietro ad aggredire colui che aveva sparato alla moglie. In un attimo, senza rendersene conto, si ritrovarono a fare un frontale con un’altra macchina. Kevin venne sbalzato fuori dal finestrino, la moglie venne completamente schiacciata dalle lamiere. La bambina picchiò violentemente la testa sul finestrino, l’autostoppista non fece in tempo a slacciarsi la cintura che svenne per poi ritrovarsi tra le braccia di personaggi dotati di giubbotti arancioni.

“..resista Sig. Taylor, tenga duro..”

 

 

Epilogo

“Stavo morendo, un’altra volta. Vedevo di nuovo quel tunnel. Ero un uomo spregevole, meritavo la morte ma in quei pochi giorni, avevo imparato cosa voleva dire amare davvero. Mi ero risvegliato da un incubo per entrare in un sogno. Un amore verso una figlia che non era mia ma che pensavo lo fosse. Ormai era tardi per i rimpianti, la mia anima si stava sgretolando in pochi istanti.. poi il nulla…”

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