La possibilità del viaggio interstellare ha affascinato generazioni di appassionati di fantascienza e scienziati.

È un elemento alla base di innumerevoli saghe fantascientifiche, tanto letterarie quanto televisive o cinematografiche e ci siamo così abituati a questa idea da ritenerla un’inevitabile e forse addirittura imminente passo dell’esplorazione spaziale.

È una sfida che comporta diversi problemi ora insormontabili.

La realtà è però ben diversa perché la tecnologia necessaria per realizzare questo sogno è molto al di là di quella attuale. È una sfida che comporta diversi problemi ora insormontabili, la cui soluzione richiederà verosimilmente molto, molto tempo, tanto che è difficile immaginare che venga risolta nell’arco della nostra vita.

Nella più ottimistica delle ipotesi ci vorranno molti decenni perché sia realizzata la prima missione unmanned e forse secoli perché venga realizzata la prima con equipaggio.

Ora, nell’analizzare i problemi correlati con il viaggio interstellare lasciamo per un attimo da parte tutte quelle soluzioni che sappiamo attualmente essere non impossibili, ma che al momento sono puramente speculative (warp drive, wormhole, ecc.) e

analizziamo il problema solo dal punto di vista di ciò che sono le attuali conoscenze scientifiche, di ciò che si sa ora essere possibile.

In pratica tutto quello che ricadrebbe nel sottogenere della fantascienza hard, cioè scientificamente plausibile.

 

 

Le distanze

Prima di tutto bisogna però comprendere quanto immense siano le distanze interstellari.

 

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La stella più vicina al Sole è Proxima Centauri, parte di un sistema triplo che dista circa 4,2 anni luce da noi. La luce (radiazione elettromagnetica), che si propaga nel vuoto alla massima velocità consentita dalle leggi della fisica, impiega appunto poco più di 4 anni per arrivare a noi da quella piccola e longeva stella.

La stella più vicina al sole è la piccola e longeva Proxima Centauri, a 4,23 anni luce.

Però, forse questo non rende bene l’idea della reale distanza, in fondo siamo abituati a film e serie TV sci-fi in cui gli anni luce vengono percorsi come fossero chilometri, in pochi giorni o addirittura ore, se non in un istante (con un balzo nell’iperspazio) e per comprendere meglio questa distanza è forse meglio ricorrere ad un esempio in scala.

Immaginiamo di essere allo stadio di San Siro a Milano, che il Sole si trovi al centro del campo di gioco e che la Terra gli orbiti intorno lungo il cerchio di centrocampo, ebbene allora rimanendo in scala la Luna orbiterà intorno alla Terra a meno di 3 cm, Marte passerà ad una distanza minima di poco meno di 3,5 m da noi, Nettuno, il pianeta più esterno del Sistema Solare, orbiterà già poco al di fuori dello stadio a non meno di 272 m da noi, mentre Proxima Centauri, la nostra vicina stellare, si troverà (andando verso sud) in pieno deserto del Sahara, a sud della Tunisia a più di 2455 km da noi.

Ora, considerando che la sonda Voyager 1, in questo momento il più lontano e veloce (velocità eliocentrica) oggetto costruito dall’uomo, impiega più di 2 ore a percorrere 1 cm in questa scala e che le missioni Apollo impiegavano addirittura 1 giorno a percorrere 1 cm, si può forse comprendere quale incredibile impresa tecnologica sarebbe inviare anche solo una piccola sonda automatizzata verso un’altra stella, in tempi umani almeno.

Abbiamo già lanciato cinque sonde che percorreranno distanze interstellari.

Va infatti sottolineato che abbiamo già lanciato cinque sonde (Voyager 1 e 2, Pioneer 10 e 11, New Horizons) che superata la velocità di fuga dal Sole percorreranno distanze interstellari, ma lo faranno in tempi incredibilmente lunghi.

Voyager 1 ad esempio, che ha raggiunto la già strabiliante distanza di 18 ore luce dal Sole, passerà vicino alla Stella di Barnard fra più di 84000 anni.

Sono tempi di viaggio così lunghi che bisogna tener conto nei calcoli perfino del moto relativo delle stelle.

Qui possiamo infatti aprire una piccola parentesi, perché Proxima Centauri non è sempre stata e non sarà sempre la stella più vicina al Sole, anzi, tra “appena” 31000 anni la stella più vicina sarà la Stella di Barnard, che arriverà poi in altri 3000 anni fino a 3 anni luce da noi e c’è un’altra stella, Gliese 710, che ora dista 63,8 a.l. e che in 1,4 milioni di anni arriverà addirittura ad appena poco meno di 1 a.l., tanto vicino da perturbare gravitazionalmente il nostro Sistema Solare (preparatevi, Nemesis sta arrivando…)

 

 

Il nostro vicinato cosmico

Entro un raggio di distanza di (appena) 20 anni luce da noi ci sono 59 sistemi stellari e complessivamente 81 stelle.

 

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Intorno a molte di queste è già stata confermata la presenza di esopianeti, diversi giganti gassosi, ma anche alcuni pianeti rocciosi che si trovano nella fascia di abitabilità del sistema.

Diverse di queste stelle hanno veri e propri sistemi planetari, come Tau Ceti e probabilmente Epsilon Eridani.

 

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Quello di Epsilon Eridani è un sistema molto popolare nel campo sci-fi. Vi si trovano ad esempio il pianeta Reach (Halo), Vulcano (questione dibattuta) e la stazione Babylon 5, inoltre come direbbe Adam Kadmon, è il luogo di provenienza dei Grigi…

Nel 2012 è stato scoperto un pianeta roccioso che orbita intorno ad Alpha Centauri B.

Il pianeta Alpha Centauri Bb Pandora è verosimilmente non abitabile, gli astronomi sospettano infatti che abbia l’intera superficie fusa, ma è un ulteriore indizio di quanto comuni siano i pianeti nell’Universo, non solo giganti gassosi, ma anche piccoli pianeti rocciosi come il nostro.

Questo aumenta notevolmente la possibilità che un giorno non lontano (con l’attuale o prossima generazione di telescopi) venga individuato un pianeta roccioso e nella zona di abitabilità del sistema, con caratteristiche molto simili alla Terra (in particolare presenza di acqua liquida) in un sistema stellare distante magari non più di poche decine di anni luce.

In tal caso questo ipotetico pianeta sarebbe la più ragionevole meta del primo viaggio umano interstellare, ammesso che venga mai realizzato.

 

 

 

Ovviamente ricordiamoci che stiamo parlando di quello che è veramente il nostro vicinato cosmico, la manciata di stelle a noi più vicina, su un raggio di distanza di poche decine di anni luce all’interno di una Galassia a spirale del diametro di 100000 anni luce e con un numero di stelle totale compreso fra cento e quattrocento miliardi.

Se però come detto nella premessa, non prendiamo in considerazione i metodi più speculativi, allora per qualche secolo almeno dovremo accontentarci di esplorare questo nostro “vicinato cosmico”. Forse però in questo ragionamento non si tiene conto di un fattore potenzialmente molto importante che ora vedremo.

 

 

La dilatazione temporale

Tenendo conto del limite invalicabile (e irraggiungibile) della velocità della luce, si potrebbe concludere che indipendentemente dal sistema di propulsione sia impossibile per un uomo compiere un viaggio di più di poche decine di a.l. nell’arco della propria vita.

In realtà in questo ragionamento si trascura una variabile importante e cioè la dilatazione del tempo in funzione della velocità.

Come previsto dalla teoria della relatività speciale e poi verificato sperimentalmente, man a mano che ci si avvicina alla velocità della luce infatti il tempo si dilata rispetto ad un osservatore esterno.

 

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  • Δt= intervallo di tempo sulla Terra
  • Δt’= corrispondente intervallo di tempo sull’astronave
  • v= velocità dell’astronave
  • c= velocità della luce
  • ϒ= Δt/Δt’= fattore di Lorentz

 

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Questo potrebbe non voler dire molto per una missione automatica, ma potrebbe essere fondamentale per una con equipaggio.

Per un equipaggio che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce il tempo potrebbe trascorrere molto più lento rispetto alla Terra.

Ammesso di trovare un sistema di propulsione adeguato, per un equipaggio che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce il tempo potrebbe trascorrere molto più lento rispetto alla Terra.

Anche se può apparire strano, l’equipaggio percorrerebbe 1 a.l. in un tempo che per gli orologi di bordo sarebbe inferiore a 1 anno e il tutto perfettamente in accordo con le leggi fisiche conosciute.

Con un’accelerazione costante di circa 1g ci si potrebbe portare a una velocità molto prossima a quella della luce in circa un anno (simulando tra l’altro efficacemente la gravità terrestre) e sarebbero così possibili viaggi anche di molte decine di a.l. in un tempo compatibile con la durata di vita di un uomo.

In realtà non c’è limite alla lunghezza della missione, basta avvicinarsi sufficientemente alla velocità della luce e la dilatazione temporale può permettere di percorrere anche migliaia di anni luce.

 

Ovviamente il sistema ha però diversi punti deboli, ad esempio si tratterebbe comunque di missioni di sola andata in quanto tornando a casa, con un notevolissimo dispendio energetico, si troverebbe un mondo molto diverso da quello che si è lasciato, in cui tutte le persone care sono morte e in cui magari potrebbero persino essersi da tempo dimenticati della missione.

Ma questo riguarda le motivazioni e non i limiti imposti dalla fisica, il vero problema sarebbe ancora una volta trovare l’incredibile energia necessaria ad accelerare una grande astronave a 1g per anni, anche perché avvicinandosi alla velocità della luce man mano che il tempo si dilata, la massa del mezzo diventa sempre più grande, richiedendo una quantità di energia sempre maggiore per avanzare di velocità.

É una cosa per noi oggi impensabile, ma fisicamente possibile.

 

 

Velocità, massa ed energia

Il primo problema che incontriamo è perciò quello di realizzare un adeguato sistema di propulsione, che consenta a una sonda o astronave con equipaggio d’acquisire una velocità sufficiente a coprire queste immense distanze in un tempo ragionevole.

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Bisognerà poi trovare l’energia necessaria e che in ogni caso sarà comunque immensa e ben al di là di quella che è l’attuale produzione mondiale di energia.

Per capire il problema dell’energia richiesta possiamo ora prendere in considerazione un semplice esempio.

Con i razzi chimici attuali, per inviare un carico utile pari a un pulmino, verso una vicina stella anche in un tempo di 9 secoli, avremmo bisogno, incredibile ma vero, di una quantità di carburante superiore alla massa dell’intero Universo osservabile.

Se ai razzi chimici sostituissimo anche propulsori nucleari a reazione, a fissione ed ancor meglio a fusione, la quantità di carburante necessaria sarebbe comunque pari rispettivamente a un miliardo e 1000 superpetroliere. Decisamente poco pratico.

Passiamo allora ad un altro sistema di propulsione, già oggi realtà a livello sperimentale, il motore a ioni, in grado di fornire una spinta piccolissima, anche solo pari a pochi grammi, ma per un tempo lunghissimo potendo così raggiungere, nel vuoto dello spazio, velocità molto elevate.

In questo modo si potrebbe forse completare il viaggio con una massa di carburante pari a quella di un treno. Prima di entusiasmarci troppo ricordiamoci però che parliamo di un carico utile pari a un pulmino, di tempi di viaggio neanche lontanamente compatibili con la durata di vita di un uomo e che non abbiamo considerato il carburante necessario a “frenare” per fermarci a destinazione, né tanto meno quello eventualmente necessario a tornare, ammesso che abbia senso tornare da un viaggio così lungo.

La quantità di energia necessaria per inviare un carico utile pari ad uno Space Shuttle verso la più vicina stella in mezzo secolo, con un sistema di propulsione che ipoteticamente possa convertire direttamente l’energia in moto è stimata in circa 7 x 10^19 J.

L’energia necessaria per raggiungere Proxima Centauri, con un piccolo carico utile in 50 anni è stimata in almeno             7 x 10^19 J.

Ovviamente nessuno pensa di poter effettuare un viaggio verso Proxima Centauri con un razzo a propellenti convenzionali come quelli di un Saturn V o un Ariane 5, ma questo esempio mette in evidenza 2 problemi, il primo connesso con la massa del veicolo e più precisamente la massa di carburante da portare con sé e che costituisce una notevole “zavorra” per la missione ed il secondo con l’incredibile quantità di energia richiesta.

La quantità di energia necessaria non può essere generata attraverso semplici reazioni chimiche e bisognerà perciò ricorrere quantomeno a fissione o fusione nucleare.

La fissione nucleare potrebbe essere usata direttamente per alimentare un razzo a reazione con un getto ad altissima velocità di scorie della reazione (propulsione fission fragment), consumando però così una quantità enorme di carburante sul lungo periodo, oppure utilizzando la fissione per produrre energia elettrica che a sua volta alimenterebbe un motore a ioni (propulsione fission electric).

Entrambi i metodi potrebbero però essere molto utili per viaggi interplanetari, ma inadeguati a missioni extrasolari.

 

 

Orion e Daedalus

Si potrebbe ricorrere allora alla fusione nucleare utilizzando quella che viene definita propulsione nuclear pulse, proposta per la prima volta tra gli anni ’50 e ’60.

In un’epoca in cui le armi nucleari sembravano costituire un concreta minaccia per la sopravvivenza del genere umano, se ne propose un loro uso pacifico per l’esplorazione spaziale.

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In questo progetto una serie continua di esplosioni termonucleari (circa 5 al secondo) che avvengono subito dietro l’astronave, generano una forte spinta su di un enorme scudo protettivo, permettendo così al mezzo di accelerare a notevoli velocità.

Il sistema nuclear pulse ricaverebbe la spinta necessaria ad accelerare la sonda, da una serie di esplosioni nucleari.

Il sistema, Project Orion, era stato proposto inizialmente per missioni umane verso Marte, ma fu ipotizzato anche un suo utilizzo per missioni automatiche verso stelle vicine.

Il progetto fu poi rivisitato negli anni ’70 dalla British Interplanetary Society, pensandolo su scala più piccola e specificamente per missioni con piccole sonde verso stelle vicine. In questo caso il sistema (Project Daedalus) avrebbe permesso di raggiungere la Stella di Barnard in 50 anni, raccogliendo il carburante fusibile necessario su Giove.

 

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Ancor più recentemente (2009), sempre la British Interplanetary Society ha proposto un altro progetto il cui intento è quello di ispirare futuri progetti per il viaggio interstellare basati sulla possibile tecnologia nuclear pulse.

É Icarus project, basato appunto sulla tecnologia alla base dei precedenti Orion e Daedalus.

Degno di nota è però il fatto che il Partial Nuclear Test Ban Treaty del 1963, firmato da USA e URSS, vieta esplosioni nucleari nello spazio, determinando di fatto l’impossibilità di sperimentare questa tecnologia.

 

 

Ramjet Bussard

Un modo per aggirare il problema del carburante necessario per la propulsione a fusione nucleare, è stato proposto dal fisico Robert Bussard negli anni Sessanta.

 

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Raccogliere direttamente nello spazio, lungo il percorso di viaggio, l’idrogeno necessario per la fusione nucleare.

Bussard ha ipotizzato di raccogliere direttamente nello spazio, lungo il percorso di viaggio, l’idrogeno necessario per la fusione nucleare tramite un sistema di campi magnetici, eliminando così il problema di dover portare con sé immense quantità di carburante e riducendo la massa del mezzo.

Questo sistema viene definito Ramjet Bussard, ma recenti studi ne hanno messo seriamente in dubbio la fattibilità, sostenendo che l’attrito determinato dalla raccolta di idrogeno potrebbe essere superiore alla spinta ottenuta.

 

 

 

Antimateria

Ma c’è un’altra reazione, la reazione materia-antimateria, in cui il 100% della massa si trasforma in energia, ottenendo così enormi quantità di energia da piccolissime quantità di carburante.

Nessun’altra reazione chimica o nucleare si avvicina nemmeno lontanamente a questo rendimento energetico, per confronto possiamo dire che nella fusione nucleare si trasforma in energia circa il 1% della massa.

 

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Un razzo ad antimateria potrebbe avere una spinta ed un impulso specifico molto elevati, permettendo ad un’astronave di raggiungere velocità prossime a quelle della luce, potendo così beneficiare anche della dilatazione temporale corrispondente.

Il problema però è che non esistono quantità significative di antimateria in natura (se ne generano continuamente piccolissime quantità in eventi astronomici molto energetici, ma si annichilano venendo a contatto con la materia).

Secondo le teorie attuali tutta l’antimateria presente nell’Universo si annichilò con la materia pochi istanti dopo il Big Bang, lasciando solo quel piccolo residuo di materia di cui è fatto tutto ciò che vediamo oggi nell’Universo.

L’antimateria può essere attualmente prodotta negli acceleratori di particelle, ma in quantità infinitesime e produrne anche solo pochi grammi è oggi del tutto impensabile.

L’antimateria viene attualmente prodotta negli acceleratori di particelle, ma in quantità infinitesime e produrne anche solo pochi grammi è oggi del tutto impensabile.

L’antimateria andrebbe poi conservata accuratamente separata dalla materia, magari con campi magnetici, altrimenti se ne finissero anche solo poche decine di nanogrammi contro le pareti del serbatoio, l’astronave ne verrebbe distrutta.

In ogni caso, anche ammesso di trovare una soluzione al reperimento e contenimento sicuro dell’antimateria, rimarrebbero altri problemi da risolvere, infatti nella reazione di annichilazione materia-antimateria una considerevole parte di energia si disperderebbe sotto forma di neutrini e raggi gamma.

Sarebbe perciò necessario proteggere l’equipaggio, con un’adeguata schermatura dal continuo bombardamento di raggi gamma, altamente energetici e penetranti.

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Da segnalare è anche un sistema alternativo, in cui una piccolissima quantità di antimateria potrebbe essere usata come catalizzatore per innescare la reazione di fusione nucleare.

 

 

 

Le vele solari

C’è un sistema, realizzabile in tempi brevi su piccola scala, che potrebbe permettere di raggiungere velocità elevatissime aggirando quello che è forse il problema più grande della maggior parte dei sistemi proposti e cioè la necessità di dover portare con sé immense quantità di carburante, a volte così grandi da rendere improponibile il loro utilizzo.

 

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Questo si ottiene utilizzando una fonte di energia esterna, con il sistema delle vele solari, vere e proprie vele dallo spessore inferiore a quello di un capello e dalla vastissima superficie. Così come una barca a vela sfrutta la pressione del vento sulle proprie vele, questo sistema sfrutta la pressione della luce su vele riflettenti per ottenere la spinta necessaria.

Le vele solari sfruttano una fonte di energia esterna, evitando così di dover portare con sé il carburante.

La pressione generata dalla luce è veramente minima, ma se applicata su grandi superfici e in modo costante nel tempo permette nel vuoto dello spazio, in mancanza di attrito, di acquisire grandi velocità sul lungo periodo.

All’interno del Sistema Solare la spinta può essere data direttamente dalla luce del Sole, ma raggiunta una certa distanza da esso la spinta diventa rapidamente irrilevante, questo perché l’intensità della luce diminuisce in modo inversamente proporzionale al quadrato della distanza.

Bisogna allora ricorrere a una fonte artificiale, come ad esempio un potente laser. Per dare un’idea delle potenzialità, ma anche limiti, del sistema si può portare ad esempio la vela solare proposta da Robert Forward, uno dei pionieri in questo campo.

Con la vela di Forward si potrebbe inviare una nave da 1000 ton a Proxima Centauri in 10 anni

In questo progetto un raggio laser potentissimo, della potenza di 10 milioni di gigawatt viene fatto passare attraverso una lente di Fresnel del diametro di 1000 km per poi andare a colpire una vela del diametro appunto di 1000km, generando così la spinta necessaria. Questo sistema permetterebbe di inviare un carico utile di 1000 tonnellate fino a Proxima Centauri in 10 anni.

Anche qui però, non entusiasmiamoci troppo, perché il problema, al di là di costruire strutture così grandi, è quello di realizzare un laser tanto potente, così potente che consumerebbe 10000 volte quello che è l’attuale consumo energetico mondiale.

Lo stesso Forward ha poi revisionato il progetto, propendo di costruire una sonda direttamente integrata nella vela, costituita da una rete di sottilissimo filo metallico, ampia 1 km. La massa totale della vela-sonda sarebbe di appena 16 g (con un carico utile di 4 g) e sarebbe necessario un laser a microonde da 10 GW, decisamente molto più fattibile del precedente.

 

 

Nanosonde

Forse però stiamo affrontando il problema dal punto di vista sbagliato, forse non dobbiamo realizzare sistemi di propulsione sempre più potenti, ma dobbiamo piuttosto ridurre la massa delle sonde. Più piccola è la massa della sonda e minore sarà l’energia richiesta per accelerarla ad una data velocità.

Il punto è: di quanto possiamo ridurre le dimensioni di una sonda spaziale?

a8qmI recenti sviluppi nel campo delle nanotecnologie possono far ipotizzare che in futuro possa essere possibile costruire dispositivi delle dimensioni di pochi miliardesimi di metro in grado di svolgere funzioni straordinariamente complesse.

Si potrebbero costruire sciami di milioni o miliardi di queste sonde da lanciare verso diversi sistemi stellari vicini.

Vista la massa minima si potrebbe accelerarle a una velocità anche prossima a quella della luce, potendo così completare una missione interstellare in un tempo, dal momento del lancio a quello della ricezione dei dati, di circa un decennio, un tempo paragonabile a quello delle attuali missioni interplanetarie più lunghe.

Il problema delle comunicazioni potrebbe essere risolto programmando lo sciame perché lasci dietro di sé una scia di nanosonde a intervalli di spazio regolari, in modo da creare di fatto un network interstellare di comunicazione.

Mi sembra ovvio dire però, che anche qui stiamo parlando di tecnologie molto più avanzate di quelle disponibili nel prossimo futuro.

 

 

Missioni a bassa velocità

 

Fino a qui abbiamo considerato sistemi di propulsione il cui obbiettivo primario è quello di far raggiungere all’astronave velocità il più elevate possibile, ma se non ci interessa la durata del viaggio, ma solo che qualche essere umano termini il viaggio colonizzando magari un esopianeta si potrebbe ricorrere allora a quelle che vengono definite navi generazionali.

 

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Se ci interessa solo arrivare e non quanto impieghiamo per farlo, allora si possono considerare altri metodi

In sostanza si tratterebbe di immense navi, tanto grandi da costituire colonie artificiali del tutto autosufficienti da ogni punto di vista, in grado di trasportare centinaia, o meglio migliaia di persone per secoli attraverso lo spazio interstellare, per giungere infine dopo molte generazioni a destinazione.

Certo anche senza entrare nel merito delle motivazioni che potrebbero spingere una vasta comunità di persone a dire addio alla Terra per trascorrere il resto della propria vita nello spazio, viene comunque da chiedersi se sia conveniente da un punto di vista delle risorse necessarie. Infatti con l’energia necessaria ad accelerare un mezzo dalle dimensioni così colossali ad una velocità anche relativamente bassa (ma comunque sufficiente a raggiungere un’altra stella in tempi non geologici) si potrebbe forse spingere una piccola nave, con poche persone d’equipaggio ad una frazione significativa della velocità della luce.

Se però in futuro venisse messa a punto una tecnologia che ci permette di rallentare di molto le funzioni vitali, il metabolismo di una persona per lunghi periodi di tempo (animazione sospesa), allora diverrebbe possibile progettare missioni a velocità relativamente bassa, eliminando gran parte dei problemi connessi alle navi generazionali.

C’è un’altra variante poi del viaggio in animazione sospesa, infatti se lo scopo della missione è quello di colonizzare un lontano esopianeta, si potrebbe pensare di inviare non astronauti, ma embrioni umani congelati.

Questo ovviamente richiede però tecnologie estremamente avanzate, con sistemi automatici che giunti a destinazione permettano lo sviluppo degli embrioni e poi garantiscano l’accudimento e perfino l’educazione dei primi bambini “extraterrestri”.

 

 

Con o senza equipaggio?

Mi sembra ovvio dire che una missione automatica sia incredibilmente più semplice di una con equipaggio. Questo è vero per le missioni interplanetarie attuali e lo sarà a maggior ragione per quelle interstellari, viste le distanze e i tempi in gioco.

Questo perché in una missione con equipaggio bisogna garantire la sopravvivenza e sicurezza degli astronauti in un ambiente estremamente ostile, tra mille pericoli che vanno dal bombardamento di raggi cosmici, alla presenza di polveri sul percorso di viaggio.

Vista infatti le velocità che stiamo considerando e quindi la relativa energia cinetica, anche un piccolo granello di sabbia sarebbe fatale per la missione se collidesse con l’astronave in movimento.

 

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Anche un granello di sabbia sul percorso di viaggio potrebbe essere fatale per la missione

Perciò sarebbe necessario quantomeno tracciare un’accurata traiettoria di uscita dal Sistema Solare, in modo da evitare le zone maggiormente a rischio, nella speranza che poi nello spazio interstellare, che è sì vuoto, ma non assolutamente vuoto, non si incontri nulla sul proprio percorso.

Sarà poi necessario simulare in qualche modo la gravità terrestre, perché non è pensabile rimanere in assenza di peso per molti anni o addirittura decenni ed è necessaria un’astronave totalmente autosufficiente e probabilmente di notevoli dimensioni, incrementando così drasticamente la massa da accelerare e il relativo dispendio energetico.

Alcuni di questi problemi andranno affrontati già a breve, nei futuri viaggi umani verso Marte e diverse soluzioni sono allo studio, come moduli rotanti per simulare la gravità con la forza centrifuga o schermi protettivi con intercapedini piene d’acqua per schermare l’equipaggio dai raggi cosmici e dal vento solare.

Fondamentale sarà poi ideare ambienti artificiali totalmente autosufficienti per periodi di tempo lunghissimi, praticamente piccoli ecosistemi autonomi. Le stesse soluzioni studiate oggi per le prossime missioni umane nel Sistema Solare serviranno quindi poi in un lontano futuro per le missioni interstellari.

C’è però da fare una considerazione importante, infatti visti i progressi nel campo dell’elettronica e robotica, molti scienziati si sono chiesti se abbia senso inviare esseri umani nelle missioni spaziali, visto che le sonde automatiche possono svolgere autonomamente ogni genere di analisi, non richiedono acqua e cibo, non incorrono in problemi psicologici e soprattutto non comportano tutti i problemi connessi con il dover garantire la sicurezza di un equipaggio.

Questo è in parte vero già oggi e lo sarà ancor di più in futuro, ma ovviamente fondamentale è lo scopo della missione, le sue motivazioni, perché se l’obbiettivo della missione non è solo la raccolta di dati, ma anche la colonizzazione di altri mondi allora la prospettiva cambia completamente.

 

 

 

Il problema delle comunicazioni

Far arrivare una sonda intorno ad un’altra stella e non riceverne alcun dato, mi sembra veramente privo di alcun significato, specialmente tenendo conto dell’incredibile dispendio di risorse che ciò comporta, perciò si pone un altro importante problema: le comunicazioni interstellari. Il problema si può affrontare da differenti punti di vista.

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Si possono generare potenti segnali radio, che richiedono però una grande quantità di energia per avere un’intensità sufficiente ad essere captati dalla Terra, a distanze comunque di molti trilioni di chilometri.

Un problema rilevante delle trasmissioni radio è che il segnale tende a disperdersi rapidamente su distanze così grandi, diventando così difficile da captare se non con dispositivi di enormi dimensioni.

Si potrebbe però ricorrere a segnali elettromagnetici con frequenze molto più elevate (laser, microonde) in cui la dispersione del segnale è molto minore, ma che richiedono un puntamento molto accurato, dovendo allineare con precisione trasmettitore e ricevitore, cosa non proprio facile su distanze del genere.

Un’altra soluzione, presa in considerazione nel Progetto Icarus, è quella di non utilizzare un segnale radio o laser per trasmettere le informazioni alla Terra, ma una piccola sonda.

La soluzione potrebbe apparire poco pratica (ed in parte lo è), ma al costo di una velocità molto più bassa nelle comunicazioni, si avrebbe il vantaggio di poter inviare una grandissima quantità di dati (alta latenza, alta larghezza di banda).

Altra alternativa potrebbe essere quella di lasciare lungo il percorso di viaggio una serie di ripetitori, ma ognuno di essi dovrebbe avere una propria fonte di energia ed incrementerebbe, ancora una volta, la massa del mezzo.

Un metodo per aggirare tutti questi problemi potrebbe essere quello di utilizzare dispositivi (tipo sonde di Von Neumann) in grado, giunti a destinazione, di costruire autonomamente sul posto con risorse raccolte su esopianeti, lune, asteroidi tutta la strumentazione necessaria alla trasmissione dei dati, ma qui parliamo di tecnologie che sono veramente molto al di là di quelle attuali e anche di quelle verosimilmente disponibili in un prossimo futuro.

 

 

Conclusioni

Alcuni scienziati hanno messo in dubbio la fattibilità o quantomeno la convenienza di un viaggio interstellare umano, ma come abbiamo appena visto esso è teoricamente possibile, anche prendendo in considerazione solo le tecnologie che si basano sulle leggi fisiche attualmente conosciute.

 

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Probabilmente il fattore più determinante sarà la disponibilità di una sufficiente quantità di energia e la capacità di utilizzarla.

Qui possiamo far riferimento alla scala di Kardashev, il primo tentativo di classificare ipotetiche civiltà extraterrestri sulla base di quanta energia riescono ad utilizzare.

 

In breve, ci sono tre livelli: K1, K2 e K3, a cui corrispondono la capacità di sfruttare rispettivamente tutta l’energia del proprio pianeta, tutta quella emessa dalla propria stella e addirittura quella dell’intera propria galassia.

La nostra civiltà è al momento ancora lontana dal raggiungere il livello 1, che è però il livello minimo che dovremo probabilmente raggiungere per sperare di realizzare una missione interstellare umana e probabilmente sarà necessario raggiungere o avvicinarsi molto al livello 2 per colonizzare sistemi stellari vicini.

Fondamentali saranno poi le motivazioni dell’esplorazione spaziale futura.

Altra variabile fondamentale, non legata alla fisica, è poi quella delle motivazioni dell’esplorazione spaziale futura, che possono essere pesantemente influenzate da fattori più o meno imprevedibili quali grandi catastrofi ambientali, la scoperta di qualche esopianeta abitabile (abitato?) relativamente vicino e anche la disponibilità futura ad intraprendere missioni di cui progettisti e creatori non vedranno mai i risultati.

Si tratta comunque di un processo graduale, a meno che inaspettati breakthrough scientifici, scoperte o invenzioni clamorose, non impartiscano un’improvvisa accelerazione alla nostra corsa alle stelle.