Il Giovane Favoloso

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Questo film, diretto da Mario Martone, presentato al 71° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, tratta della vita di Giacomo Leopardi.

Quella che segue è il mio tentativo di recensirlo; non c’è né trama né sinossi, quindi se temete di proseguire nella lettura per la presenza di spoiler, continuate pure (o, in alternativa, chiudete l’Internet e iscrivetevi alla scuola più vicina).

Prima usavamo santificare i nostri eroi. L’orientamento moderno è quello di volgarizzarli. Edizioni economiche di grandi libri possono essere deliziose, ma edizioni economiche di grandi uomini sono assolutamente detestabili. Assolutamente detestabili.

Oscar Wilde

 

 

 

 

 

Registro visivo

La fotografia del film appare molto curata, e il risultato è pregevole, riuscendo a restituire immagini molto suggestive.

Il film è visivamente godibile.

Le punte più alte vengono toccate quando la scena è avvolta da una nebbia funerea, nelle giornate uggiose di Recanati, in cui il grigio del cielo contrasta con il verde della vegetazione rigogliosa, e fa quasi avvertire la pesante umidità e la brezza frizzante che Leopardi lamenta nelle sue lettere, e nella Napoli piegata dal colera, quasi surreale, con le strade deserte, i locali devastati, e colonne di fumo nero e grigio che si innalzano al cielo. Merita menzione anche la scelta della giacca di Leopardi che, cerulea, fa risaltare il ricurvo poeta tra la folla.

 

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Sono state inserite tre sequenze oniriche e fantastiche; nella prima, il poeta siede in un largo e spoglio salotto, messo alle strette dal padre e dallo zio; come si era visto in, ad esempio, The Departed, senza soluzione di continuità la scena evolve verso lo sbottamento di Leopardi, che s’alza in piedi e proferisce a voce alta parole molto dure, rompendo una sedia per l’ira; in realtà, qualche secondo dopo, con uno stacco viene mostrato Leopardi seduto, a testa bassa, che parla a labbra quasi sbarrate: era solo la fantasia del giovane, e ciò ben restituisce il contrasto tra l’animo tempestoso ed eroico di Leopardi e il suo aplomb impassibile, imposto dalla rigida disciplina nobiliare e dalla debolezza del corpo.

Nella seconda, molto suggestiva, sbilanciata sul grigio, sul poeta schienato e moribondo si china Fanny, entrambi rivestiti di una rilucente cotta di maglia, e lo bacia, mentre imperversa la pioggia.

Nella seconda, l’immagine Madre Natura che, rappresentata con una statua gigante, fatta di sabbia e con le fattezze della madre, svetta nel deserto, accompagna la declamazione del “Dialogo della Natura e di un islandese”; questo effetto è meno riuscito, sia perché l’animazione non è fluida, sia perché accostare la madre di Leopardi (arcigna e severa tutrice che impone una rigida condotta ai figli) alla Natura (che, nel dialogo sopracitato, appare come una nutrice che non ha modo di curarsi dei suoi figli, generati in ottemperanza al meccanicismo) è frutto di una lettura psicoanalitica molto semplicistica.

 

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Wes Anderson se lo mette in tasca.

Se talvolta le inquadrature denotano una buona ricerca compositiva, sono comunque presenti (specie nel bosco di Recanati) scene in cui la macchina pare inseguire, a mano, Leopardi che corre, oppure che rotea irregolarmente, guardando in alto; in conclusione, i movimenti di macchina sono godibili per certi versi, ma sicuramente non rispondono a una poetica coerente.

Sicuramente è molto lontano dal piattume che il cinema italiano ci fornisce, ma è anche lungi dall’essere un capolavoro.

 

 

 

Registro verbale e sonoro

La recitazione di Elio Germano, che impersona Leopardi, è buona, poiché egli riesce a spaziare dal sorriso canzonatorio riservato ai letterati nei salotti, alle smorfie di dolore e sofferenza al sorriso dolce e nostalgico di quando parla con Paolina.

 

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Non male.

Perla della sua performance è il suo sopracitato sbottare contro il padre, lo zio e la “prudenza impedisce ogni azione“, in una peroratio appassionata e quasi teatrale. Invece, non mi sono piaciute le declamazioni degli scritti e delle poesie di Leopardi, rallentate e dilatate, rese monotone: una lagna.

Mi è piaciuta molto la recitazione della sorella, con il risentimento composto quando è il fratello ad accompagnarlo nelle sue sortite da traduttore all’impronta, la dolce curiosità e inferiorità nell’ammirarlo e il suo triste consenso alla fuga segreta del poeta dal “borgo selvaggio“. Mi è piaciuta un po’ meno la recitazione dell’attore che impersona Ranieri ma, nel complesso, il modo in cui i personaggi proferiscono i dialoghi, alcuni dei quali tratti dalla corrispondenza di Leopardi, è molto più che discreta.

Una scelta che stride con il resto della scena italiana è quella della colonna sonora, composta da pezzi di musica elettronica, che fa un buon effetto. Nel particolare, mi è piaciuto un casino il pezzo col violoncello, e invece mi è risultato fastidioso quello downtempo che accompagna la triste scoperta, attraverso una finestra, delle effusioni tra Ranieri e Fanny, nella dimora di quest’ultima, da parte di Leopardi.

 

 

 

Materia del racconto

Les travellings sont affaire de morale.

Jean-Luc Godard

La pecca più grande del film, e che anche da sola ne pregiudicherebbe la riuscita, è la scelta di cosa raccontare, che ricade sulla biografia di Leopardi, nemmeno accurata.

Il suo pensiero fa capolino solo nelle conversazioni con gli altri letterati, ma il peso maggiore lo detiene il prosieguo della sua storia personale, che a tratti cade anche nell’aneddotico: il rifiuto del poeta ad usare il coltello, ormai leggenda metropolitana, la menzione alla sua minzione difficoltosa all’inizio e l’incontro inconsapevole con l’ermafrodito (accreditato così nei titoli di coda, ma io passere cazzute non ne ho viste) nel lupanare, entrambi senza alcuna referenza storica.

 

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Un ermafrodito? Srsly?

Proprio nel recarmi al cinema, l’autista dell’autobus, edotto sulla nostra meta da alcuni compagni di viaggio ha denocciolato l’aneddoto sul coltello sopracitato, sintomo del fatto che non solo la vita personale di Leopardi (ovvero, nell’immaginario collettivo, l’agonia di uno sfigato che si faceva troppe pippe mentali) è largamente conosciuta, ma anche le “curiosità”  e il gossip da Focus da citare sul suo conto sono ormai dominio di tutti. Quindi, a che scopo realizzare un film che si sofferma sulla sua vita, e che non fa altro che confermare i cliché sul suo conto?

Personalmente, poi, avrei preferito vedere dei ritorni di Leopardi nel suo “borgo selvaggio”, e non ho condiviso di eliminare l’azione, lasciando che trapeli solo attraverso le parole e i dialoghi; se Ranieri e Leopardi hanno tentato di metter su una redazione che pubblicasse un giornale per diletto piuttosto che per utilità, perché farlo raccontare piuttosto che mostrarlo?

 

 

 

Conclusione

Se ai Macchianera Italian Awards del 2014 la pagina “Se i social network fossero sempre esistiti” che dileggia Leopardi e lo dipinge come uno sfigato sempre alla ricerca di occasioni per inserirsi e farsi amici, nella sua categoria giunge al secondo posto, con il 20% dei voti, in realtà, ciò che manca all’Italia e agli italiani non è l’ennesimo ribadire quanto fosse misero Leopardi ma, piuttosto, la valenza storica e filosofica che egli ha avuto nel corso di ‘800 e ‘900.

 

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Dei reumatismi di Leopardi non fotte un cazzo a nessuno

Dei reumatismi che ha dovuto patire non deve curare a nessuno, ed essi non possono mettere in ombra la genialità e l’avanguardia di un uomo che non solo ha scritto, indubbiamente, tra le pagine più alte della letteratura, ma da cui hanno solo da imparare anche i blasonati filosofi austriaci-tedeschi, Nietzsche e Schopenhauer e che, nonostante sia ignorato dai libri di filosofia, nonostante l’insuccesso della sua visita al lupanare, è uno dei maggiori padri della cultura Occidentale. Per una diesamina più approfondita e autorevole vi basta leggere qui.

Di lui nel ‘900 non resterà che la gobba”, lo apostrofa un bellimbusto seduto nella biblioteca, dopo che gi annunciano la cessazione del suo sovvenzionamento per l’infelicità dei suoi scritti. Invece, a quanto pare, nel 2000, di Leopardi resta solo e soltanto la gobba, senhal delle sofferenze che hanno afflitto la sua esistenza e che, nell’immaginario collettivo, hanno causato la sua indole sommessa e il suo c.d. pessimismo.

Date a Cesare
quel che è di Cesare.

Sicuramente questo film è oro in confronto alle tante biografie filmiche prodotte in Italia negli anni passati, e ha il merito di restituire un’immagine di Leopardi, con la sua gaia infanzia, la sua fame di grandezza (e poi di “amore, entusiasmo, vita“), la sua “voglia di vivere” (che denuncia il suo cuoco napoletano, sul finire del film, a Torre del Greco) un pochino diversa da quella di topo di biblioteca che si fa pippe su Silvia.

In più, il merito di introdurre la lettura di scritti di Leopardi; tuttavia, poiché esse si limitano ad essere incursioni (anche piuttosto noiose), poiché l’immagine di Leopardi restituita è comunque quella di un voyeurista messo in friendzone (ora mi manca solo da dire la parola che inizia per “s” ed è fastidiosissimamente sostituita ad “autoscatto” e poi non mi resta che suicidarmi) e poiché, ribadisco, non c’è nessun bisogno di parlare ancora della vita degli autori piuttosto che delle opere, tutto quello che fa il film non è abbastanza; “non imputate al corpo quanto si deve solo al mio intelletto”, tuona, in una pasticceria di Napoli, Leopardi, contro dei letterati che volevano ravvisare nelle sue condizioni di salute la causa prima del suo pessimismo; “cercate di confutare le mie parole, invece di parlare di me”, conclude, eppure il film, non so se volontariamente o meno, sconfessa le sue stesse parole.

Al di là della disputa e del dibattito su quale effettivamente sia stato il motore e la causa prima del risultato delle speculazioni di Leopardi, che noi si propenda per un’interpretazione o per un’altra, è sicuramente stata sprecata un’opportunità.

Più allegorie oniriche ci vorrebbero, più dissertazioni accese, per illustrare il pensiero, più “videoarte” per rendere le poesie, meno cazzate e stile meno didascalico.

Mi congedo con una canzone che, a mio parere, ben si scaglia contro la dilagante abitudine dei più: non solo appropriarsi delle opere dei grandi, ma anche mortificarli parlandone con lo stesso riserbo conferito alla coppietta di sciacquetta e attore cane di turno che si sporgono dalle pagine di Chi.

Word Portraits
Rose rosse sulla tomba di Poe?
Rose rosse sulla tomba di Poe?